Petali
E N Z 0 R A N D A Z 0
Petali
di
SOLE
Scrivere mi è sempre piaciuto. Quasi quanto leggere. Ho sempre letto dovunque ed in qualunque momento. Da piccolo leggevo intere giornate, disteso sotto un albero di noce, a Pandolfina, o sul pianerottolo antistante al portone, tra i muli che salivano e scendevano nella strada acciottolata. Ho continuato e continuo a leggere in luoghi, contesti e situazioni impensabili: treni, autobus, toilette, conferenze noiose, corsi di aggiornamento, interrogazioni ripetitive di alunni.
Mio padre mi ha iniziato all’amore per i libri e lo studio. Aveva appena conseguito la licenza elementare, ma, mentre era prigioniero di guerra in Inghilterra, aveva imparato a leggere, scrivere e parlare correttamente in Inglese ed aveva letto tanto da acquisire una cultura da scuola secondaria superiore.
Quando, al tramonto, tornava dalla campagna, io gli correvo incontro ad aiutarlo a scaricare gli attrezzi dal mulo.
Dopo cena, anche se stanchissimo, lui non rinunciava mai a fare una capatina al Circolo dei Coltivatori Diretti, di cui era Presidente ed, in seguito, sindacalista- segretario. Prima di uscire, però, già a quattro-cinque anni, mi assegnava i compiti: letture di fiabe, problemi, divisioni a tre e quattro cifre che mi facevano impazzire.
Aspettavo il suo rientro per la correzione ed andavo a letto gratificato da una sua carezza o da un suo sorriso.
Baci raramente. Soleva dire che si danno ai figli quando si addormentano. È stato il mio maestro più sostenuto e comprensivo. La mia prima biblioteca si chiamava Salvatore Caruso. Era un contadino piccolo e rotondo. Senza figli e grande lavoratore, investiva tutto ciò che poteva in libri. In cucina , in una vecchia credenza sgangherata, nascondeva tesori inestimabili.
Da lui ho avuto in prestito I Miserabili, Sangue Siciliano e persino la Divina Commedia illustrata dal Dorè.
Mia sorella Antonietta è stata l’altra grande tentatrice. Mancata studentessa, non aveva rinunciato a coltivare la sua passione per la lettura. Rammendava calze di nailon con una speciale macchinetta e , con il ricavato, mi mandava a comprarle Sogno e Gran Hotel, zeppi di fotoromanzi e racconti a puntate . A tarda sera, quando papà e mamma andavano a dormire, lei restava a ricamare al telaio ed io le facevo compagnia leggendo ad alta voce queste riviste o qualche romanzo che lei prendeva in prestito al Collegio del Sacro Cuore. Ricordo ancora le notti trascorse insieme a Bocciolo di rosa e a Il fabbro del convento. Mia madre, invece, di questo mio amore per i libri e, più tardi, per la scuola era, nello stesso tempo, inorgoglita e preoccupata. “Riposati un poco la testa!” – esplodeva ogni tanto – “Possibile che ti devi sempre sfirniciare?”
A scuola ho avuto insegnanti di tutti i tipi. Sia i bravi che i meno preparati ti lasciano comunque qualcosa. In particolare sento di dovere di più a Suor Ermelinda, che, dalla terza elementare, mi assegnava tre Temi al giorno, al grandissimo Nino Agosta, professore di Lettere alla Media, che si faceva prestare ore da tutti gli insegnanti e continuava a spiegare, per ore, dopo la conclusione dell’orario di lezioni. Del Liceo ricordo la genialità di Don Ignazio Dimino, simpaticissimo professore di Filosofia, anarchico-monarchico, e di Siso Vetrano, lo scienziato, che aveva abolito il registro e le interrogazioni con anni di anticipo sulla contestazione.
Pochi i segni tangibili lasciatimi dall’Università. Già in quegli anni era troppo di massa e dispersiva per consentire un minimo rapporto educativo, cosicché l’unico contributo significativo , ripensandoci oggi, me l’ha dato l’odiosa e pedantesca pignoleria di Giorgio Santangelo, che mi ha costretto ad apprezzare l’importanza delle note a piè di pagina. Incontrai i grandi romanzieri disordinatamente, da autodidatta. Tolstoj con Resurrezione, Jack London con La peste scarlatta e, quindi, gli scrittori della generazione perduta, Fitzgerald ed Hemingway, quasi contemporaneamente a Saroyan, al Pirandello delle Novelle, ad Emanuele Navarro della Miraglia e a Robbins de L’uomo che non sapeva amare . Solo più tardi ho letto Tomasi, Sciascia e Camilleri. Con i poeti il rapporto è stato più ordinato, mediato dai programmi scolastici. Solo negli anni dell’Università ho cominciato a scorrazzare più anarchicamente da Spoon River a Prévert, da Neruda a Pavese, a Lorca e Majakovskij. Leggere tanti buoni poeti e scrittori per chi ambisce a scrivere è terrificante: assaporare la grandezza altrui ti fa avvertire la tua pochezza e l’insufficienza dei tuoi mezzi.
Devo essermi scoraggiato e depresso tante volte, perché sono stato messi e mesi senza vergare una sola parola. Ma non ho mai smesso definitivamente il vizio. Anzi tra i vizi e le passioni della mia vita, che sono state sempre numerose, intense, ubriacanti e dispersive, scrivere è quello a cui sono rimasto più fedele.
Ho amato il biliardo e il biliardino, il far teatro e la politica, che solo a qualche sprovveduto possono sembrare simili, il poker e lo scopone, la vita nei Club ed il girovagare per il mondo senza mete preordinate, l’amicizia e l’amore, la carriera e le mie ambizioni, ma la parola scritta è stata e rimane la mia amante più fedele.
Da studente liceale fui tra i giornalisti de “La Voce” e di “Scelta” del mio maestro di fede e di dubbi, Alfonso Di Giovanna. Spavaldamente ed incoscientemente, a ventidue anni, pubblicai il mio primo saggio e scrissi la mia prima Commedia ed il mio primo Romanzo . Con impudicizia, senza alcuna doverosa autocensura li mandai alla stampa, al massacro, insieme a saggi su Kierkegaard, sulla droga e a riduzioni teatrali varie.
Ma la poesia no. Tanti miei amici conoscono la mia temerarietà nel sottoporre al giudizio impietoso di chi legge la mia prosa, ma ignorano che io ardisca scrivere versi. Invece ne ho scritti a migliaia. Da riempire pagine e pagine. Ma su di essi la mia censura è scattata implacabile. Solo qualche poesia è sfuggita a questa regola, inclusa in antologie di Editori, comunque sconosciuti e lontani. Devo dire, con sincera immodestia, al di là della mia fifa, con apprezzamenti lusinghieri. La presente raccolta è, quindi, ciò che sopravvive a tante lacerazioni manuali, in nottate di deciso e consapevole sterminio, e alla cernita finale di questi ultimi anni, in cui andavo maturando l’idea di esporre in pubblico i panni intimi e privati dello scrivere poetico.
Perché la poesia ha sempre questo di veramente pericoloso: per quanto si mascheri e si difenda il poeta rischia di consegnarsi nudo come un verme ai suoi lettori. Con la costante aggravante dellincognita del suo fraintendimento.
Il più visibile difetto di questa raccolta è, dunque, inevitabilmente, quello di disorganicità e disomogeneità.
Tante diverse stagioni creative, le più contraddittorie suggestioni letterarie, l’inevitabile involuzione del mio modo di sentire e di scrivere. Un pasticcio. Una selva stilistica. Una baraonda di suoni, sensazioni, pensieri.
Pubblicarle: una debolezza della senilità incipiente. La paura di non fare più in tempo. A scrivere di meglio. Qualcosa di veramente significativo. Un progetto grandioso e spropositato destinato a restare tale. O di un’altra notte di ubriacatura autodistruttiva. Mettere più semplicemente un punto fermo a un percorso.
Mi chiedo se non avrei fatto meglio a ricorrere a un critico amico, indulgente ed ammiccante per una più benevola introduzione. Gli amici sono l’unica risorsa che non mi è mai venuta meno nella vita. Hanno scritto di me mirabilie per cose mediocri quali La palude o L’onorevole Liccasarda.
Chissà cosa avrebbero scritto ora che mi vogliono ancora più bene.
Ma arriva il momento in cui ognuno vuole e deve fare i conti con la propria storia personale.
Senza sconti, gratuità e indulgenze da nessuno.
Senza vele, antenne o nocchiero.
Nel gran mare aperto dell’essere e del mondo.
Proprio come la poesia di ogni tempo e stagione.
Enzo Randazzo
Acque
Non un canale, a rinfrescare
i primi passi nei bruzzoli sfumati,
ma rosei mandorli sui poggi disserrati
e gialli fichidindia tra brulli dirupi.
L'esile Rincione si gonfiava, torvo
a uomini e muli, nei dicembri piovosi.
Tornava di ghiaia e oleandri festosi,
nei Marzi scintillanti del vallone.
L'aurora trasudava arse primavere
e autunni primaverili, epiloghi
di afose estati di grilli e di cicale.
Solo tardi ho raggiunto le mie riviere.
Il Po, giallo e verdastro di scorie liquamate,
i suoi bizzarri ed instabili padrini,
l'Enza attorcigliato e zeppo come un mare,
il Rodano, che aggrega chiome e fonemi,
il Danubio, sentiero lumacoso e variegato,
e tant'altre viuzze violeggianti
hanno spento la mia arsura spasimante
di ragazzo del Sud, sanguigno,
spasimante ghiacciai accecanti
e formicolii ripetitivi e brulicanti,
tra smog metropolitani soffocanti.
Ma l'acqua mi ha regalato pure la quiete
di soffici pianori, punteggiati di canne,
mucche pascolanti e incredibili colori.
Qui ho incontrato l'uomo chino, che lavora,
e il bimbo, che sgambetta in universi artificiali.
La mamma bionda tira sette figli,
il nero si atteggia a libero e felice,
ma corvi stazionano in mezzo al granoturco
e indomiti aquilotti piroettano in cielo.
Tra brume e rugiade agostane,
rose spontanee, quasi vermigli pomodori,
lamponi mieliti e noccioline lillipuziane,
c'é sempre un filo rilucente, che sorride,
squarcia e travolge la nube birichina
e regala ad un airone impertinente,
che diguazza nella Loira, gremita
di merlature di fantastici castelli,
inverosimili incendi di avvenire.
.
Alba
E un 'alba
senza chiaro,
confusa
di carminio
e di nubi
incolori,
alla ricerca
di emozioni.
Sentimenti
sparpagliati
nel erigilo
li ha bruciati
la brina
e il vino rosso.
Nel viso
di chi passa
frettoloso,
il segno
apparente
della pace.
Mi sfiorerà
la quiete,
un giorno,
e annunzierà
stagioni riposate.
Algecyras,
Scaglie azulee
tra detriti di cimase,
guglie svettanti
e palme sdolcinate,
flebili ai soffi
di Mediterraneo africano.
Algecyras ha la groppa
di un cammello impantanato,
quasi una petroliera esausta
e ancora libidinosa
di percorsi imprevedibili.
Ho tranciato asfalti
di desolate periferie,
dove i monelli baciano
cieli smoggati di calura.
Corse nei sentieri di autovie
e nei rallentamenti paranoici,
di che si intoppa
verso arrivi più tardi.
La serra di Miccina,
a gradoni di pietre intagliate
ascenderla voglioso nei tramonti,
era toccare i vertici
di un sogno planetario,
che ieri è nelle oasi,
spumeggianti di aranceti
della Sierra Nevada,
a sera nelle dune marocchine.
Il trotto irregolare di nitriti
sul sentiero polveroso
è un rullio di catamarano,
assopito sull’acqua sinuosa,
come la lucertolosa ragazzina,
neri capelli bombardati
alle violente raffiche del ponte.
La vita è tutta un sorriso
rapido e immotivato,
che ti carezza tra i zampilli
delle onde tagliate.
Scivolando inconsapevole
dalle morbide colline,
punteggiate di bionde casine
e di uliveti bruni,
è come il punto geometrico
che torna a baluginare,
quasi un cerchio stirato
in quattro punti estremi,
a disegnare sinfonie,
cadenze, epifanie stellari.
Tuffarsi in questo mare,
terra di confine senza confini,
verso la petroliera fumante,
che immobile procede.
La vita è tutta nel tepore
immobile di Nicola perplesso
delle mie note colorate
e del mio straniamento muto,
rassegnato a distendersi
su Stefania nera e luccicante,
come Anna Maria finalmente quieta
sulle gambe di Franca,
sgranante gli occhi scuri
ai miei sardonici e taglienti,
intenta all’ultima bollicina
e pronta alla carezza sulla fronte.
Una vela bianca
gareggia coi nuotatori
testarda e pretestuosa
come un poeta del duemila.
Ecco, è già Africa,
avvolta tra afa marina
e incredibili nubi pellegrine.
Una parete ripida,
immediata declina
nell’onda ritmata che ritorna.
E vivere torna ad essere un sorriso,
un sogno accarezzato
tra un fazzoletto di mare.
Sul ponte, indifferenti al sole,
due amanti sonnecchiano,
intrecciati e vagabondi.
Quasi punte di terre antiche,
respiro il tuo sapore incerto
e sento penetrarmi in eterno
dal tuo profumo inebriante.
7/9/98.
Amo
Amo il tuo capello liscio e folto,
le tue labbra impacciate,
l'acerbo sapore del tuo corpo.
Voglio ubriacarmi senza fine
del linguaggio dei tuoi occhi neri,
tra un ciliegio fiorito
e le pesche gustose,
fresco di sereno.
Potrei tornare ai prati di gerani,
intesserne un mazzetto variopinto
e deporlo sul tuo seno,
se tieni gli occhi chiusi al sole.
Bere acqua di fonte
nella montagna del paese,
sciogliere questo ghiaccio,
che ha gelato il cuore.
Nel tuoi occhi, puri e ignari,
c'é un lievito d'antica tenerezza,
nel tuo volto di bambina
l'avvenire é come le tue guance innamorate.
Mi spoglio d'orgoglio consueto
e mi ritrovo fresco
d'acqua chiara.
Bagliori
Bagliori vermigli di luce
saltellano birichini e fugaci
tra agavi celesti, dalle spine viola.
Rapidi rimbalzano aggressivi
negli occhi tristi di lutto
del biondo pastore - bambino,
nudo di cenci, rattoppati,
affaticato nell'aspra sassaiola,
che conduce al dolce sussurro
di olmi che sfiorano, delicati,
pioppi biancastri di fitta peluria,
inframmezzato dal cicaleccio insistente
dell'acqua ,scintillante
nella terra insaziabile, bruciata.
Ieri, uomini gravi e taciturni,
avvolti nell’imponderabile segreto
della miseria tagliente e promettente,
come il bianco di Dicembre,
venivano assetati
d'ombra dolcemente volteggiante
e di fraterna tregua dal sudore.
Matriarche immerse nel silenzio
immergevano gli abiti lisi,
ancora impresse le tracce di madore
di nonni asciutti e sicuri,
nell'acqua verdognola,
gorgogliante copiosa,
senza avarizia dalle fonti,
incise nella collina.
Ma ieri é già tardi
e oggi sembra quasi ieri.
Perciò i bagliori scintillano
profondi, quasi un incendio,
indomabile nel vento,
che soffia incessante da levante.
Bisognerà che il bosco
bruci di fiamme luminose,
in un immenso rogo
di passioni e di miserie,
perché gli asparagi irsuti
rifaccian capolino nell’autunno
che s'annuncia fecondo
di primavere fuori stagione.
Biscia
Nel levante chiaro,
tra sterpi bagnati,
nel cielo diamantino,
l'aspro sapore
di succosi mandarini.
Tra la fresca rugiada,
balugina sottile
una biscia sinuosa,
che cerca calore.
Gira su di sé,
in una ridda infernale,
attanaglia la carne
di maledette spire.
Nello snodo morale
é l'arte del dominio
che spezza la fregola
del circolo fatale.
Bocciolo
Nel deserto annebbiato
del Popolo Rosso,
tra liane recise
e mistiche arsure,
una fulgida croce
in fiori di loto.
Infiniti miei mancamenti,
rinserrati pudichi
nel cerchio dorato.
Un bocciolo dischiude
ghirlande di passioni
alla Fenice risorgente
da morbide ceneri.
E sfarfalla sorrisi
soffici e soavi
a un Pellicano invasato
d'amore risoluto.
La parola perduta
é il tuo sangue.
La mia fede essiccata
é il tuo amore.
Nel profumo inebriante
delle mie macerie,
di eterno birichino,
il perseverante desiderio
di azzurri più puri.
Calcinazione
Se i corvi neri
cambiano le piume,
diventano colombi
imbiancati.
L'oro é rincrudito,
putrefatto e umettato
da mercurio dissecato.
Nell'infanzia argentea,
favolosa di Sfingi,
esistere é sognare,
ignorando la quintessenza
di tartaro e vetriolo.
Fiori rossi
trapuntano i prati
e il mercurio
biondeggia di zolfo.
Bimbi nudi
camminano scalzi
e assaporano
un pezzo di cielo.
Ma gli amanti
disperdono il sale
pizzicando il verde
di infanzia.
Ciuffo
Una dolce fantasia
sul tuo nasino sbarazzino,
sprizza da un ciuffo trasandato,
malizioso e invitante.
Le dita sottili e scattanti
le ciglia sensuali e stanche,
promesse di passioni
inestinguibili e desuete,
di desideri risaputi e temuti,
nell'abbagliante candore
della tua pelle scottante,
candida di lusinghe
e ritrosie apparenti:
Mi slargo estasiato
dalla stanza appannata
e mi tuffo libero
da infingardaggini
e da pose meditate,
dispettose di veleni,
tra iridi di colori
e svettanti aironi.
11/1/2002 ore 19,25.
Criniere
Tre criniere nell’acqua,
già calda alla brezza
di un’alba strana,
di assenza e di sterminio.
Annunciata da un salmodiare,
indifferente all’imminente
eclisse di luna,
lampeggia insufficiente,
mendica e schiava,
gorghi di paure oleose,
tra pietre grigie
e inebrianti gelsomini.
Aghir 11/8/99
DATTERI
Grappoli di dita di luce sovrastano
fichi e melograni spennacchiati.
Tra dune curve, quasi dromedari stanchi,
la clessidra scandisce tempi pigri,
avvolti nello svettare secolare di palmeti.
Nella notte di umida calura
grappoli lucenti nel cielo trasformano
un beduino in silente custode stellare.
L'uomo arabo indugia nel tremolio brulicante,
di fuoco, incerto d'azzurro e di viola.
Vacilla cascante e lo sguardo ritaglia la spuma
salmastra, che incava la sabbia e la sfuma.
Per l’asfittica acacia nascente
ogni alba turchese, calante dai monti,
la scommessa di vita è un azzardo.
Jeamnam 7/8/99
Frammenti.
Frammenti di cervelli,
macabre reliquie di folli attentati,
parto tardivo di inchieste insabbiate.
Ebrei e palestinesi, allucinati,
muoiono nella terra, madre,
Popoli civili e mansueti
odorano sangue intriso di verità assolute
Mentre la fame espone ossa
di bimbi e vecchi, dallo sguardo severo,
il Cristo flagellato é mascherato d'oro.
L'illusione d'infinita energia
preconizza il sole notturno,
il capitale arde di consumi,
i rossi hanno fame di grano,
l’umanità ha sete di pensiero,
gli ingenui sognano l'amore.
E se il progresso e la storia,
la fede e il sentimento puro
sono locomotive in una stazione,
spente per esaurimento di motivazione,
se la ragione alimenta alienazione,
il conformismo furia distorta e stravolgente,
feconderanno eremiti collettivi.
Nella grotta incisa dall'onda,
dove, un tempo, giocava Nettuno,
é rimasto un cane ad un palo.
C H I A R A
Altera della tua virtù,
celi nel seno ciottolini,
per contare lacrimanti orazioni,
miste a angeliche salutazioni.
Nel riverbero abbagliante delle Palme,
splendida di abiti sfarzosi,
ti astieni dal piede dell'altare
e attendi il ramoscello, riservata.
Francesco ti accoglie alla Porziuncola,
tra il canto dell'inno al Creatore,
le torce sfavillanti nella mano.
Recisi i capelli, il capo ignudo,
ti cingi di sacco e di fune.
A nulla gli strattoni delle vesti.
A nulla Agnese strascicata per mano.
A piedi scoperti percorri le selci,
sogni sull'ocra, cosparsa di dumi,
un tronco appuntito come guanciale.
Astinenza perpetua, silenzio raccolto,
un dolce cilicio, intessuto di crini.
Di tutti i tuoi beni niente t’importa.
Pietà genuina è stacco dal mondo.
Con l'acqua lenisci piedi sudati,
piagati da un giorno di cerca sfibrante.
Accudisci infermi dal tanfo nauseante,
a tavola, servi e sorridi giuliva.
L'abbraccio di Cristo ottieni, stremata,
é dolce il martirio di croce d'oliva.
La pisside al cuore, riposi beata,
da splendidi gigli ormai estasiata.
Ebbrezza
Cullato,
sommerso,
il mare verde
ti ha inondato
di ebbrezza.
Acre torna
a riprenderti
la terra
di asfodeli
e palme nane.
C'é il sole,
sornione,
a blandirti
e carezzarti.
Fuochi
Nel cielo
vampate
di stelle.
Veloci mutamenti
di colori.
I fuochi
sono
stelle cadenti,
che travolgono
il futuro
e la memoria.
Furore
E' semplicemente furore
ciò che assopisce
la mia anima muta.
Giustizia
Arriviamo a Contessa che é tardi,
ma c'é ancora il tepore del sole.
Incrociamo una casa con l'arco:
donne bianche ammantate di nero
sorridono il volto assente.
La biondona alta due metri
si fa’ incontro, pronta a baciarmi;
io le scarico l’amico nano
e sediamo a cerchio e parliamo.
Poco dopo li pianto in asso
e mi avvio da madonna Giustizia,
tra la rabbia del nano e degli altri,
insisto che ho fretta di andare.
Giustizia é intanata, muta,
in un grande palazzo di legno;
il palazzo é ingiallito e pendente,
sopportato ai fianchi e ai lati.
Su una chiocciola a gradini frananti
saltando quelli scricchiolanti,
l'uomo buono m'accompagna ansimante,
la testa pelata, lo sguardo che ride,
passa lento, stringendo le mani.
Lo seguo, il bimbo per mano,
saltelliamo come galli in un pollaio.
Finalmente agguantiamo la cima.
Tra stanze spaziose, prive di mura,
nell'aria abbrunata dal fumo,
teste bianche si guardano mute,
il dito sul naso o puntato nell'aria,
messi in fila su banchi ascendenti,
danno idea d'un coro greco.
Li sovrasta un togato panciuto,
batte i colpi e impone il silenzio;
all'indietro, un togato bendato
segna il tempo, timbrando le buste,
con le quali spedisce sentenze,
chiuse, a carico del destinatario.
Tutt’intorno zucche, a migliaia,
si dondolano ai raggi del sole.
Si processa, un ladro omicida,
che passeggia tra i carabinieri;
repentina irrompe la bionda,
col suo fascio di chiome nell’aria;
l'uomo buono mi grida " Giustizia!”,
ma la bionda rifiuta la mano,
si precipita sull'uomo nano
e la polvere si alza nebbiosa
dal legno bacato e ammuffito.
Grinze
Nelle tue grinze, sottili ed ambigue,
la caligine opaca dello scacco,
si spiega, infingarda e intorpidita,
in dilavate aurore.
Ieri le tue pupille perlacee
smaniavano alla ricerca,
febbrile e singolare,
dei valori azzurrati,
che fermentano il domani;
ieri il tuo sorriso aperto
provocava ancora lusinghe assopite.
Atri inverni, più verzicanti primavere.
Oggi mi fissi e non mi vedi.
Incalcolabile gelo smorza
gli ardenti deliri
d'inusitate, guizzanti frontiere.
Braci diacce su J.Palach e Panagulis.
Bigie cornacchie nell'etra cilestrino.
L’Europa scricchiola,
ammorbata dai fetori
di bulbi e polloni,
fatalmente districati dal fogliame,
perciò il cedrone scuote i barbigli
e trilla inascoltato
nel sonnecchiare del tuo zelo.
Il ragazzo
Il ragazzo dagli occhi vagabondi
é uno dei tanti ospiti stanchi
di un pianeta incolore e moribondo.
Gli occhi abbagliati
dalla comune coscienza
della paura di altri ospiti stanchi,
il ragazzo ha rughe e peli bianchi,
conosce la piega amara
del sorriso scevro di pianto,
prigioni senza mura,
catene di torrenti bruni
e ghirlande d’avorio,
nella prateria, mai doma.
In questo pianeta disadorno
nessuno l'ha amato veramente,
né il ragazzo chiede a lungo.
Sa che il pianeta moribondo
pullula di spettri aridi e smorti,
sa la morale dell'apparenza,
il gioco complicato dei raggiri
e va, indifferente, nel tempo,
ossessionato da terrificanti sapienze.
Se un fiore s'apre alla vita,
un cardellino cinguetta primavera,
la fontana scherza con la rana,
allora ride e anela a cuore aperto
e impreca alla fantasia malata.
Il ragazzo dagli occhi vagabondi
non si lascia sbranare stanco,
senza grumi nel cuore, né pianti,
tra parole bugiarde e sorrisi.
Il tempo costante e birichino
non basta a coprirlo di spine,
né a dare alle sue incertezze scontate
lo stagnante sopore del dubbio.
Meglio aprire le labbra ardenti
alla neve fresca sulle tue spalle arrossate,
bere il tuo sorriso adolescente,
perdersi nell'impercettibile bacio
di una quercia vissuta sulla sorba
e destarsi allo sbattere d'ali
di un cigno che lambisce il lago
e accarezza la spuma con sussiego.
Immagini
Tanti volti, impressi nella memoria,
a richiamare attimi smarriti.
Tante immagini nei sogni quotidiani
per un presente ignoto e forsennato.
Punti indecifrabili d'azzurro.
Nella mia terra verde e assurda
é tempo che si potano le viti.
Uomini scuri, dai pantaloni rammendati,
sudano contigui al pettirosso.
In questa valle, incuneata tra colline
e il mare che s’increspa e canta,
lieve, la nebbia s'addensa sui camini
e copre i prati in cui sonnecchia il fiume,
scende nelle pieghe della memoria,
attanaglia i sensi e li imprigiona.
Perciò il tuo sorriso pensieroso
Si dissolve nella nuvola birichina
e apre a capricci profumati
di pregnante verde d'origano.
L’ametlla de mar
La baia quieta e immobile
un rettangolo segnato regolare.
Alla sinistra la scogliera erosa,
bucherellata da antichi marosi,
terrazzata di agavi e di pini.
Una spessa lingua di sabbia,
una scalinata che s’inerpica verso
una schiera di case dentro l’acqua.
È quasi un Portofino spagnolo.
Scafi e vele che volteggiano
tra un cicaleccio più intenso,
misto a schiamazzi di bambini,
quasi una cartografia di intrusioni,
che inebriano il viaggio dei pensieri.
Sembra un assalto al litorale.
In Italia susciterebbe scalpore.
Ecologisti e rinverditi precettori
blatererebbero insipidi meloni
e sparerebbero ciliegi coi cannoni,
a tutelare qualche sparuta cicala,
una lucertola contorta al sole,
tra macerie di sterpi e radure.
Ma bellezza ed incanto sono
in quanto un uomo le assapora.
Non serve un monumento alla natura
che la fossilizzi imparziale,
arcaica, statica, e marmorea
ai sentieri trasgressivi della Storia.
Meglio una confusione organizzata,
un cocktail di bimbi coi palloni,
amanti che si pizzican le labbra,
grassoni luccicanti d’olio.
Ametilla, di caotico ammaliante,
emblema d’una Spagna in moto,
ti basta un fremito di brezza
e la vela vermiglia si inturgida a tenda.
Vorrei tante altre Spagne pitturate,
a frantumare giorni uguali e paludosi.
Amo i percorsi oscuri e accidentati.
Solo lo scatto noto e controllato.
Ineffabili esiti e traguardi.
Come in una corsa rettilinea,
occhi socchiusi a fendere la notte,
svolte fantasticate e sterzo a rischio,
contro il muro di gomma risonante.
Amo filamenti circolari cinerini,
rotondità innocenti e tintinnanti,
vezzi involontari di stagione,
nell’area pumblea e sensuale.
Nel tuo giro raccolto e limitato
sento pulsare il rintocco del mondo,
un essere spumeggiante e reale,
condensato nei tamburelli ritmati
di due splendidi amanti saltellanti.
L’Ametilla de mar 13/8/98
Leprotti
Ieri l'altro, innocenti leprotti,
pronti a bere iridi e sogni,
parcheggiati in camelie sfibranti,
presagendo scintille di fuoco.
Nella barba splendente ed incolta,
nei capelli irti e scomposti,
un azzurro lindo ed intenso.
Tra carezze e giochi di spuma
fantasmi e castelli di sabbia.
Tra stoppie, incendiate dal sole,
dimensioni di pace e d'amore.
Nel canneti, blanditi dal vento,
il profumo pungente di aranci.
Al parcheggio chi parte e chi sosta.
Raramente qualcuno ritorna.
Oh, le dolci distese di neve,
punteggiate da agavi azzurre!
Oh, le corse sfibranti nell'aia e
il madore che incolla il tuo ciuffo!
Sospesi tra rovi aggressivi,
verso cime zeppe di mare,
in attesa di evadere il limbo
e librarci adulti al levante.
Ci dispiace il fiore all’occhiello,
né si ama il profumo dei soldi.
Ogni intreccio ha sapore di piombo,
il plumbeo é cinereo di morte.
Distrutti, dispersi e annientati.
Né il piacere di lotta e tensione.
Sbaragliati da vili cecchini,
incapaci d'avvinghio col male,
frodati dai miti sognati.
E ancora penitenti e spossati,
parcheggiati tra irrudicibili arroganti
e intolleranti, straripanti e scalcianti.
Pigiati tra ninnoli e frantumi,
frangivento all’odio che si sgrana.
Ora i radi capelli son grigi
e la barba rasata e curata,
ma le arterie pulsano vita,
come sangue ancora innocente.
Tornerà l'età delle more.
Abbagliate da nevi solari,
brilleranno tra cespi di aloe
e i leprotti, dal muso birbante,
alieranno tra i cirri a pendagli.
Lirica fredda.
La nostra grande illusione
di un mondo sospeso tra leggi,
di un uomo legato alla ragione,
di storia e cultura vive,
l’abbiamo sepolta in campi di morte.
Ed ora non dirmi che cerchi amore,
non farmi capire che hai sentimenti:
l'uomo é un robot di bronzo scuro.
E' l'era del sogno più grande,
quello che l'uomo non vuole finire.
Stavolta destarsi é morire.
Malinconia
E' pianto quello che bagna
gli occhi chiari del tuo cuore,
lacrime che scendono
sul tuo volto giovane e sicuro.
E' agrodolce la malinconia audace
di chi non vuol dare un calcio
alla fanciulla dalla pelle di neve
e alla lampada dalla luce virtuale.
I monelli schiamazzano nel prato di spine,
gridano nel pozzo nero della vita
e, nella strada polverosa, spingono un pallone.
Non gridare ancora parole amare,
frecce appuntite, pietre dure.
pensieri dirompenti agli innocenti.
Solo baci per te che mi sorridi!
Carezze vellutate sulle guance accaldate..
Nelle praterie senza confini,
cavalchi un sentiero senza sassi.
Il pianto inonda i tuoi occhi verdi e chiari,
ignara che ti sono più vicino
e, ormai, le mie mani sfiorano il tuo corpo.
Dormi ancora o preferisci farmelo pensare.
É dolce il tuo visino quando dormi,
pago di piacere e abbandoni d'amore,
presago di favolosi incendi ed estasianti furori.
Mezquita
Undici archetti focali
e dietro undici ancora,
mi svelano l’anatomia
dei miei mistici furori.
Un sesto acuto iscritto
e tre lucerne arabe in fila
sono libellule aeree,
ricamate sui tuoi capelli,
ribelli sulle nitide guance.
È sempre Dio negli archi
globulari, fulvi e porporini
e nell’abbrivo delle colonnine.
Un dedalo di vie, composte
e riscritte nel riverbero solare,
mi avvolge e mi stordisce voluttuoso.
Il Mihlurab accarezza le Cappelle,
quasi corpi d’amanti intrecciati.
Arabi e Cristiani anche ora,
a contendersi la terra per un Dio.
I doppi archi, scrutati in diagonale,
disegnano infiniti spazi aerei
La Cattedrale, accerchiata da moschee,
labbra avvolgenti, morbide e sensuali.
Ori, barocco e rococò,
immersi in geometrie lineari,
sono dormienti, a letto,
con vecchie dalle pelle raggrinzita.
Squarci di luce tramontano
da bifore e rosoni chiari,
canzonati da peristili,
a luce afona e svogliata
Nella Juderia, cuore di Cordoba,
tre religioni per un Architetto Grande e solo.
Affannato per la scalinata del torrione,
a piedi, come Fratellanza e Amore,
rincorro un assetto stazionario,
nelle parole trattenute imbavagliate
e nei piani slittanti in universi sonori. Cordoba 11/8/98
Momenti
Sono momenti
che la brina
e gli aironi
sembrano baciarsi,
sconfinando, quasi
ebbri colombi,
una stella di fuoco
che strizza l'occhio
alla collina in fiore.
E' notte, notte chiara.
L'aria calda
come la tua pelle vellutata
e gli occhi tuoi chiarissimi,
del languore della luna.
La lunga strada, che guida
dove siam partiti ciechi,
é un prato festoso
di farfalle gialle e turchine.
Nella pineta
Nella pineta
fischia ancora il vento
e le tue guance
sanno di muschio,
di passione
e di rimpianto.
Nella pineta
t'ho baciata a lungo.
Ogni notte
ardo di rinuncia.
Niente.
Niente più niente
sorrisi provocanti
nelle tue labbra altalenanti,
quasi foglie di aculei
morbidamente volteggianti
dai pioppi cerulei
sui ruscelli gracchianti
sillabe ondeggianti.
Niente più niente
sogni svettanti
su dune volteggianti,
quasi ninfe diafane
in albe trasparenti.
Niente più niente
gelsomini inebrianti,
biancori sfumanti
nel violaceo scontornato
tra il verde del prato.
Niente più niente
meravigliose bugie
e lusinghiere astrologie
sfocate e indefinite
tra gli angeli viola
dei cieli delle cattedrali.
10/7/98.
Nuvole
Nell’ondeggiante tremolio
di verdi opachi e intensi,
che s’alternano, mutevoli,
a biancastre macchie,
quasi piselli slavati e cinerini,
un mormorio di folaghe e cicale.
Nuvole assorte di follie lontane
trapelano tra concerti vagabondi,
cercano corpo nelle facce scure
di mietitori di spighe biondeggianti.
Vuoto sonoro nell'immaginazione,
che non si piega rassegnata
ai raggi palpitanti e cocenti.
Silenzi trasparenti di rugiada
negli occhi verdi e buoni,
che si flettono al mio sguardo
proteso, fermo e duro.
Ombra
Un'ombra
silenziosa
Come un appuntamento
imprecisato,
la nostra morte
la portiamo
nel cuore.
Petali di sole.
Petali di sole, lievi,
in un qualunque mattino autunnale.
Sulla tua anima assopita
improvvisa una scintilla, peregrina,
di antichi furori, inceneriti,
nella calma stasi del dubbio persistente.
Domani potrebbe non albeggiare,
per la manciata dei fantasmi irrepetibili.
Domani potresti non destarti
nell’umida nebbia invernale.
Domani la speranza e l'amore
non parleranno del roseo pallore dei fanciulli,
né la miseria, travestita d'un sorriso,
ascenderà le scale sfavillanti di albori.
Promessa
Nei tuoi neri occhi,
pieni di sorriso,
una promessa indecifrabile
di sogni evanescenti
torna dal passato,
che è futuro
mai. raggiunto.
E, se tu ridi e giochi,
sei l'esistente,
che procede incessante,
in primavere coniche,
sazie d’inverni e d'autunni,
dolci e laceranti.
E, se tu pensi veramente
e mi diventi seria,
sei la calma profonda
di tranquilli abissi,
incisi nell’anima,
che dorme palpitando.
Puerto Banus
E già la sabbia è tutta inumidita
e sui tuoi cerchi bianchi
morbide calano le ombre.
Il cerchio è un brulichio
festoso di lingue e di colori.
Aficionadi vengono d’ogni dove
a vedere un toro che muore.
M’affaccio per la seconda volta
in una plaza di tori
pieno di ansiosa aspettazione.
Ed ecco banderillos e toreri,
mantelli viola sfarfallanti,
vestiti di luce contro la forza bruta
e poi un torello nero,
baldanzoso e incoscio del suo fato.
Ma ci sono banderillos e toreri
e la lancia pesante del picadore,
tronfio sulla mulilla,
ornata di coccarde e di sonagli.
Ben presto il toro sanguina
e increspa se incorna.
Il matadore dal mantello rosso
impugna l’elsa e si guardano,
gli occhi nelle punte.
Gli vibra un colpo spento
ed è agonia troncata dal pugnale.
Malinconica esce la carcassa
mentre palate di sabbia
coprono il sangue nella plaza.
Ed ecco un altro toro s’avventa
e gioca ad incornare i manti viola,
ma il giovane torero scansa bene
e le corna taurine affondano
decise nella sabbia dura.
Crudele e vile la lancia picadora
lo incalza dalla mulilla,
tracotante, al sicuro.
Più cuore nello svelto banderillo,
che lo infilza a viso aperto,
a folla plaudente.
Ora è il momento del matadore,
che gioca di fino
con la muleta rossa,
oleato a più non posso
da cori scroscianti.
Il corpo giallo e rosso,
demonio o angelo giustiziere,
rotea le corna, le sfiora
ed è un brivido continuo.
Plaude la gente paga
e quasi plaude il toro,
ma poi riparte basso,
incontro al suo destino.
S’inchina il virtuoso torero
e rischia l’infilzata mortale,
poi gli pianta la spada,
ma il toro vive ancora,
perciò lo riaffronta frontale,
disperatamente deciso
e stramazza nella sabbia.
I zampilli di rosso
sul giallo dorato del sole,
ombra sfocata di riti ancestrali,
riaccendono ancora una favilla
di Caino, Romolo, Hitler,
Stalin, Pinochet e Franco,
ma è solo finta guerra civile.
Per fortuna si spegne solo un toro.
Non il tonfo di forni crematoi,
né ghigliottine ideologiche,
campi e Siberie infami.
Solo un povero toro incosciente,
una carcassa lacerata,
trascinata inerte e lenta,
da due splendidi cavalli bardati
tra le ombre calanti
malinconicamente sul ruedo. Puerto Banus 8/8/98
Qualcosa
Qualcosa vibra
nell'aria densa
di stelle.
Qualcosa
si perde
nei giorni
che vanno.
É un pigro splendore
di gioia troncata,
il passato perduto
e mai ritrovato.
Quando
Quando anche tu sarai soltanto
un sogno dolciastro, mai assaggiato,
e tuoi capelli neri e lunghi, alla moda,
si saranno confusi con quelli biondo-chiari
di Paolina, che mi ride sempre,
anche se la scruto serio,
di Lucia, che mi si aggrappa possessiva,
senza svelare il suo mistero,
se le tue mani saranno fragili,
incapaci di trattenermi ancora
e le tue spalle taceranno indifferenti
al mio palmo che le palpa con calore,
quando i tuoi occhi scuri e insicuri
avranno lo stesso colore indefinito
di tanti altri sguardi della memoria
e la tua vita morbida e sottile
sarà solo un pezzo raro, con cui
arricchire la monotona collezione,
resteranno i tuoi vezzi e le moine,
tanto più dolci e sensitivi
degli svenevoli abbandoni di Maria,
rimarranno i tuoi momenti esclusivi,
più completi e sereni dei finali furiosi
della bambina incantata,
che guarda intensa e mai sorride.
Quasi un fiore
Affondo nel grembo della terra,
quasi un bianco fior di loto indiano,
lo stelo nel lago della memoria,
se mi sfiora il bacio del sole.
Ardo nell'incendio trasparente,
nel crepitio delle mie scorie,
e il fuoco é già il mio sangue
liquefatto nei meandri del mio corpo,
Fenice rinata dal calore,
tra ruote di vita sfavillanti.
Azzurri, tra l'indaco e il cobalto,
piovigginosi, gessosi e meditati,
rosa mattone pallidi e incredibili,
quasi giardini lambiti dalla luce,
abbracciano il giunco vigoroso,
piegato al maestrale inesorato,
che svetta al terso cielo,
mentre l'acetosella carezza
una flessuosa spiga di grano.
Anche la pietra grezza
al fuoco si può trasmutare.
E la livella predica uguaglianza,
pace, benevolenza e amore universale.
La Thémis non é ierofonia,
spenta e sepolta sotto insipido sale,
ma già la vita cova creativa
nel seme che si sperde a tramontana
e lievita unità solidale
nella fraternità distinta
dei singolari chicchi dei melograno.
Un unico sole rischiara
i tuoi riccioli biondo chiari
e la mia carne lucida e nera.
Un'unica mensa di passione
a rinsaldare la nostra armonia.
L'orgoglio é travolto nella fede,
l'umiltà soffoca l'invidia
e tutto é giusto e perfetto,
se la speranza cancella i pregiudizi,
creativa pietra angolare,
verso l'Oriente, nel verde opalescente,
tra sale, zolfo e mercurio.
Vorrei morire a ogni mio ieri,
nello spazio che travalica l'essenza,
scrollarmi ogni pigro grigiore
e assaporare i tuoi freschi canali,
tra gli alberi limacciosi di palude,
per divorare, audace e sensuale,
le tue eterne squame d'amore.
Questo amore
Questo amore stanco e malato,
questo amore nato a morire,
questo amore così impetuoso,
questo amore puro e reale.
questo amore così bugiardo,
questo amore così lusinghiero.
così calmo, così distensivo,
questo amore così tormentato,
tormentoso, sporcato e mai vinto,
questo amore bagnato di pianto,
di sospiri, d'ansia e sfiducia,
così pieno di dolci abbandoni,
d'infiniti momenti di gioia,
questo amore sa tanto di vita.
Ricordo...
Ricordo, l’estate correva limpida,
nei tuoi occhi scuri e vivi.
E i tuoi capelli lisci e neri,
come i vestiti vecchi, ben stirati,
stavano raccolti, superbi, sul tuo capo.
Solo al mattino li scioglievi
per lasciarli stendere un pochino
ai colpi secchi d'un pettine qualunque.
Ora non guizza più estate o primavera
negli occhi belli e nei capelli brizzolati
e l'autunno, di noci e melograni,
è diventato inverno, brina e rami secchi,
nella pelle cascante e nel tuo passo breve.
Non é malinconia soltanto
l'accento tenue e soffocato della tua parola,
non é banale frenesia ,se tu rincorri
il tuo passato amaro e non lo trovi,
ma solo l'ansia del tuo cuore aperto,
gettato a destra e manca ad ogni istante,
che ti riscopri piccolo e impaurito.
E il cuore cerca e corre all’impazzata,
legge negli occhi grigi di chi ama
e scopre che non basta la rincorsa.
E il cuore allora vola nel futuro,
vede nebbia, non capisce e si ritrae.
E questo pazzo cuore ritorna adolescente,
vive carretti carichi di grano
e grida atone nell’aia silenziosa,
sente nenie autunnali fondersi
nelle olive cascanti sui teloni
e poi l'amore ubriaco che ritorna,
a sera, stanco di perdere denaro.
E questo pazzo, pazzo cuore
vorrebbe tornare a non sentire,
posarsi come una barchetta in mezzo al mare
e andare nel ritmo dell'acqua sempre viva.
Ma la malinconia e l'ansia lo tengono,
sospeso nel presente che non é più presente,
rivolto al futuro che non intravede,
affisso al perduto amore che, ancora, lo possiede.
Perciò, talvolta, nella penombra dell’illusione,
i tuoi occhi immensi, si fissano nel vuoto,
si coloriscono di grigio spento e amaro
e inseguono un'estate tarda a venire.
Ritorno.
Ritorno silente e misurato
alle stagioni dell’allegria sfrenata
e della fantasia che non si piega.
Il passo cristallo trasparente,
la voce, invitante pensiero,
rifugge cattedrali viola;
occhi fermi, titubanti e muti,
nelle insidiose penombre,
squarciate da luce stellare.
A notte fonda dorme il poeta d'amore
e l'uomo sognatore, incenerito,
ha perso gusto e voglia di sognare.
Al luccichio di Venere, sulla collina,
un pettirosso, quasi spento, infreddolito,
sosterà sulla veranda fiorita
a beccare briciole di pane.
Per questo il passo di cristallo, trasognato,
si fiderà di uno sguardo buono, ma indeciso
e il pettirosso, beatamente spaventato,
avvertirà il calore di una mano amica,
nel gelo di un Dicembre senza neve.
Riverbero
Un riverbero nebuloso,
tinteggiato di memorie
nel sole burlone,
che abbaglia sornione
lo sguardo avvizzito
e di distende svogliato
sul piatto di mare,
appena vibrato
dalla brezza caliginosa.
Miseria lisa
sotto la pelle sfilacciata
nell’ateo scetticismo
d’una ricerca scontata
di sconfitte abituali,
eppur sempre pungenti
come il sale insipido
nelle inquiete narici
d’un cane pizzicato
dall’insonnia mattutina.
Cagliari 9/8/2000
Schegge
Schegge di vento sbattuto,
nell'aria dipinta di luce,
poi tregua, pace completa:
la terra ha sete di quiete.
E già l’incendio smeraldo
è solo una lieve scintilla
che alza bagliori di fuoco
e muore tra polvere e sassi,
il cielo arrossato si spegne
e stempera in grigi incolori.
Un nibbio sospende il suo corso,
s’ubriaca d'azzurro morente
e si tuffa nel solco del sole.
Serventese alternato
Tra rosee fiancate montane,
nevosi dorsali alpini,
estenuanti estati isolane,
ti snodi lungo gli Appennini.
Ti riconosco bizzarra e blandita,
impetuosa, estrosa e fantasiosa,
anche se ti fingi sdilinquita,
volubile, uggiata e lacrimosa.
Figlia di assestamenti e sommersioni,
fervi di vulcani e solfatare.
Rapidi rovesci e agitazioni
frastornano le tue stagioni amare.
Ma c'é vita nei nevosi letarghi padani,
nonostante nebbie e brucianti gelate,
e tra i fiori degli inverni siciliani
e le arance vermiglie e profumate.
Le tue spiagge verdi e frastagliate
ammaliarono uomini avventurosi.
In ogni era furono calpestate
da predoni avidi e fascinosi.
I raggiri fenici e la Grecia esaltante,
coltissimi Svevi e Arabi tolleranti
sperimentarono la lussuria ammaliante
dei tuoi arcobaleno sfibranti.
Ingordi Ostrogoti e Longobardi altezzosi,
ricciuti Galli e raffinati francesi,
sprezzanti Tedeschi e Spagnoli vanitosi,
schietti americani e compassati inglesi,
ambirono le nostre fertili pianure,
laminate ai piedi dei declivi,
variopinte e ricche di pasture
e i, poggi flessuosi di mandorli ed ulivi.
Calpestarono i magri gerbidi piemontesi,
devastarono le brughiere lombarde,
scorrazzarono sulle baragge novaresi,
bevvero i sorrisi delle donne tarde,
ancora nere del sangue dei mariti,
timorose di venire schiavizzate,
labbra tremanti, corpi intirizziti,
presaghe di innocenti violentate.
Altri tempi, altro Medioevo.
Davanti alla mia patria sparpagliata,
oggi, rimugino e non credo
che questa storia sia dimenticata.
Pontida ha ricacciato il Barbarossa odioso,
nelle sue terre di caligine e di brume.
I Vespri siciliani e il Fieramosca orgoglioso
dell'amor patrio disegnarono il costume.
Da Pietro Micca a Salvo D'Acquisto,
con Cirillo, Santarosa, Maroncelli,
il martirio di molti fu visto
che spirarono inermi e giovincelli.
L'ingenuo Menotti e il mistico Mazzini,
gli impazienti Pisacane e Bandiera,
Gioberti, Cattaneo e tanti ragazzini
ti vagheggiarono, splendida chimera.
L'esempio di Mameli e Daniele,
la diplomatica freddezza di Camillo
resero più amara del fiele
la vita del tiranno mandrillo.
L’irsuto Garibaldi e il suo coraggio,
Battisti e la sua fede irredenta
alla tua idea resero omaggio
e ti crearono unita e contenta.
Attraverso le macerie della storia,
le furbizie e i raggiri della ragione,
sei cresciuta in libertà e gloria,
schivando una teatrale inversione.
Madre di navigatori e di gigli,
illustrasti lo svettante tricolore
con l'impegno, il lavoro dei tuoi figli,
la dolcezza e la forza dell'amore.
Memore di Colombo e di Dante.,
dell'austera bonarietà di Carducci,
sei andata per il mondo, mendicante,
superando traversie e crucci.
Oggi ti riconosco e ti ritrovo
nei palpiti geniali di Fellini.
Sei patria in tutto il mondo nuovo,
unita, al di là dei tuoi confini.
Sei patria dell’umorismo pirandelliano,
nel tuo vittimistico mugugno,
nelle riflessioni cantate di Celentano
e nei voli di Domenico Modugno.
Sei così bella, varia e colta,
così impensabile, tenera e incredibile,
che rischi di finire travolta,
tra sangue e malinconia indicibile.
Ma sei così saggia e universale,
così cosciente d'essere nazione,
che meriti più di un madrigale
e non ti basta neppure una canzone.
E, affinché ritorni splendida e serena,
perché tu rinsavisca entro il mese
e ti possa ammirare a luna piena,
ti offro questo mio dolce serventese.
Se tu vivi
Pizzica l'aria della terra
nel chiarore che filtra dalla tenda.
C'é il pigolio sommesso dei pulcini,
l'altalena delle folaghe nell'aria,
la danza di pensieri vagabondi
ed altri voli che non puoi capire.
Per strada c'é un uomo che fischietta
e l'uomo fischia e passa e non ritorna
e il suo motivo, allegro e scanzonato,
é già una nenia triste e sonnolenta.
E c'é una mano che non vuoi morire
e, scomposta, si agita nel fango.
C'é nel tuo cuore una corona di spine
ed il tuo sangue é, rosso melograno
e il melograno é dolce e saporoso
e gli avvoltoi impazzano di sete
e le catene d'erba non si possono spezzare.
E, infine, ci sei tu o nessuno.
E l'aria acre e la luce opalescente,
le grida stridule e i rumori di chi viene
e tutto ciò che scorre indefinito
é trasparente se tu vivi.
Se tu volassi
Se tu volassi un giorno,
lenta sui carboni accesa,
abbracceresti il cielo terso,
l'aria pregna di umori,
lambendo isole azzurre,
fosforescenti negli albori
e petulanti di gabbiani.
Nel tuo viso dardeggiante,
trasparente, quasi filigrana,
c'é il sapore dolciastro
di fichi secchi e mieliti,
il sussurro, velato di rimpianto,
di timidi intrecci puberali,
la profondità rassicurante
di certezze resistenti
agli scalpelli uncinati.
Disperdersi nel tempo infinito
dei tuoi bisbigli esilaranti,
naufragare nei bagliori d'azzurro
é come sciacquarsi nel torrente
chiacchierino di anatre bianche,
che gridano insistenti
il loro inno al tepore
che s'avvicina lieve,
nella brezza che sale
dalla marina baluginante
colori pregnanti di sapori.
SILENZIO
Silenzio,
struggente
d'ansia
indefinita.
SIVIGLIA
Guglie e pinnacoli
ai miei piedi vagabondi,
Ansimante sulle cupole,
sinuose antenne, svettanti
sui giardini di palme e banani,
liofilizzo il gene del mio incanto
nel cuore purpureo del trapasso.
Il Guadalquivir scivola
lento e sonnolento,
tranciato da affollati ponti.
Sotto mastodontiche campane
bevo le balconate e le grate.
Persino una piscina terrazzata,
un’ancora e vette moderne
proiettano vuoti enigmatici
sul deserto della mia speranza,
incastrata tra la terra e il cielo.
Ho asceso altre altezze esilaranti,
per ravvisarmi nell’ovale
della mia arsura di delirio.
La torre Eiffel, fredda di metallo,
quella che dondola e mai sprofonda,
la cupola cattolica del mondo,
ma la Giralda è più iridescente,
perché lo sguardo aleggia,
libero nella pianura penetrante,
tersa di luce e bionda di cereali.
Cercarti è mancamento, fallimento.
Voglia di dolcezze furibonde
negli orgasmatici zero solari.
Plaza de toros è un cerchio sottile
di colonnati banchi arcuati.
Trentadue campane simmetriche
richiamano l’ora della fede.
Quintali di bronzo a migliaia.
recingono l’orologio di Alonzo,
una volta sospeso tra i balconi di Cadice,
modellati da mazze e rulli prismatici.
La Cattedrale è un vortice di luce,
chiaroscuri da bifore e rosoni,
incredibili organi e ceri di cedro,
altari d’oro istoriati d’amore.
Respiri il Duomo e Notre Dame,
ma annusi una fede intensa,
più sanguigna e messa a dimora.
La nostalgia della tua pelle,
profumata di genziana e gelsomino,
affoga nella sinfonia medianica
di un rosone alle spalle del Coro,
chiazzato di raggi fogliari,
margherite policrome e diademi.
Mi infilo in un dedalo di quite,
stretti dall’ombra densa dei palazzi.
Per il gelato c’è una Garibaldina,
che strizza l’occhio ad un barbuto.
Sta viva la gente di Siviglia,
tra plaze, patii, corral e badeguitas.
Sotto i portali scherzano e ridono,
parlottano accesi, quasi litigando.
Anche i colombi sembrano birbanti,
beccano un seme senza confidenza.
Nei cortili dai balconi a petto
profumerie e tavoli frizzanti,
paellas, pescados e guspados,
Frontali arabo-cinesi rinascimentali,
che sanno di palazzi veneziani.
Nella nomenclatura delle strade,
tra annunciazioni, passioni e croci,
un forte sentire popolare.
Le merlature bianche di Porta Macarena
preannunciano murate gremagliate:
Dentro le mura un brulichio di gente
viene, compra e si ubriaca di colori.
Siviglia, sei quasi un melograno.
I tuoi chicchi son tutti diversi,
ma armoniosi di ferma unione.
Sei proprio hermosa e basita.
Chi non ti ha visto lucente,
nell’aria smaltata di azuleio
ignora il riflusso nascente,
l’attesa della tua morbida carezza
che appaga, timida ed esitante,
ogni mia inquieta insufficienza,
salda opposizioni laceranti
e ricrea l’unità nella spaziatura
tra struggimento ed esaurimento.
Siviglia 10/8/98.
Soavemente
Soavemente, il vento carezza
foglie vive di cipolla cruda,
il cane sbava pigro nel sole,
la pelle chiazzata, sconfitto,
nella sua voglia matta di giocare;
due gatti bianco e nero
fanno sentinella sulla roccia,
mentre svolazzano leggeri
fogli di giornali abbandonati
e plastica inutile e stracciata.
Il cane, felice della luce,
ritenta con un vecchio trasandato,
che coglie lattuga da insalata;
respinto si distende, rassegnato.
Stelut alpina
All'orizzonte bianco di neve
palpita l'anima della montagna.
Alla taverna si balla e schiamazza,
ogni fanciulla è disposta al sorriso.
Giovani orsi parlan d'amore,
di pace in terre e di rivoluzione.
stelut alpina, che splendi sui monti,
scendi nel fuoco a infonderci luce,
lasciaci vivere secondo che amiamo
e rendi i sogni pensieri operanti.
Il cielo è pumbleo sui monti di Carnia,
ma la montagna luccica e abbaglia,
gli abeti sognano sotto la neve,
che infiocca ancore i riccioli biondi.
L’odore di grappa punge le nari,
una musica morbida parla d'amore
e tra il freddo incalzante nell'aria
c'é un dolce tepore che sa di Sicilia.
Amor per se stessi, ardore per gli altri
bisogno di stringersi come fratelli,
al di là della vita, d'ogni confine.
Siam veri amici sui monti di Carnia,
banditi e mafiosi ridono insieme,
libertà e pregiudizi vanno a braccetto,
qualcosa di vero, profondo, sincero
brilla vicino la stelut alpina
e all'orizzonte bianco di neve
palpita l’anima della montagna.
È un'anima calda, decisa all’azione,
a scuotere gli altri ed anche se stessa,
grande, leale, robusta e sublime,
pronta a innalzare ancor le sue cime.
Adesso si parte dalla montagna,
si va tutti via forti e sicuri.
Stelut alpina, non t’eclissare,
estendi il tuo sguardo e chi non ti vede,
infondi coraggio e chi ne ha bisogno,
dai la tua voce ai ciechi del mondo,
rendi sinceri i nostri pensieri
se vuoi davvero azione pura.
Chi tornerà su questa montagna
riascolterà questo coro d'amore,
risentirà sapore di vita
e tra i ghiacciai innalzando lo sguardo
ti cercherà, stelut alpina.
Sfumature.
Sfumature di stami vespertini,
nell’azzurro tendente al viola,
baluginano tra ulivi e pini,
mentre cerco una fresca parola.
Rubacchio il raggio che muore,
proteso tra buchi di scogliera
e ansimo come carcame di vaporiera
verso il litorale in fiore.
Son come in un sentiero rallentato.
Ascendere in cima è faticoso,
ma ormai non posso rinunciare.
Mi sarebbe piaciuto distendermi in un prato
sotto un carrubo fresco e filamentoso,
verdeggiante sogni da incorniciare.
Ma ormai non è più tempo di domani.
Esistere è scontare ogni meriggio.
La prosa scardina ritmi lontani
e la vetta balena in un miraggio.
Nelle gole di un universo globale
passioni incoercibili e silenzi strani.
Evento scontato, formidabile e normale
tra speranze sfilacciate come grani.
Perciò dondolarsi nel brillio,
che, ad occidente, incendia l’aria,
è riannodare quasi uno sfavillio.
Perciò un centimetro spaziale,
vicino all’onda color vino,
è una pesca dal sapore esistenziale.
Ametlla 15/8/98.
Tarifa.
Un altopiano di dune,
nella linea del tramonto,
carezza un verde bosco di pini
e gli eburnei cavalloni.
Il pulviscolo mi sferza
quasi a filtrarmi.
Tarifa, proteso come una falce,
tra il Mediterraneo culla
di civiltà multicolori
e l’Atlantico spumoso,
mi balzi in petto
quasi un gabbiano inquieto,
scevra d’alberi e fogliame,
picchiata da Eolo incessante.
Come un appuntamento definito,
ti colgo e ti assaporo
ed è uno stordimento sinestetico.
Cavalli bianchi
si stagliano nell’aria
e bai dalle code mozzate.
Sul filo di montagna
eliche bianche a raccogliere
l’impeto dei venti.
Ora si alza la sabbia
ed è una nebbia raditerra,
che scolora ciuffetti e sterpi,
tutti piegati a baciare
le flessuose dune.
Se serro le palpebre,
m’addentro nei deserti
lunghi, pigri, abissali,
sull’altro orlo del mare.
Il sibilo di un motore
è uno scricchiolio canterino
sulla lama corvina
che sospende l’esistere
e la pioggia di grani
sulla barbetta trepida e bianchiccia
arpeggi di chitarre dorate,
percosse di dita affusolate.
Dolce disperdersi nel turbine
che ti carezza costante,
ma, se ti scippa un sombrero,
a dispetto del sasso panciuto,
riprenderlo è incalzare
uno spruzzo marino
subitamente avvolto dalla vela.
Un pastore tedesco ripudiato
annusa e cerca nuovi amori.
Furtivo mi froda una carezza
e i suoi occhi luccicano
mentre scodinzola trottando.
Ma la mia è una mano precaria,
un tocco morbido di dita affusolate
che percorre la pelle assetata.
Un frizzante pizzicore di grani
sui glutei tesi e nei piedi.
Una fluida spuma canuta.
Festosa sul verde piatto atlantico.
Agonizzante nello spazio pertinente
l’istante del suo sussistere.
Senza orma allusiva, né impronta.
Uno spunzone calato in una polla.
Un aquilone piroettante,
cui il refe si interrompe.
Il miraggio cocciuto di un’idea.
Senza sosta tallonata e nebulosa
e mai rassegnatamente mollata.
Perciò il bel pastore si incammina.
Svogliato procede nel sole,
gli occhi tornanti e già schiodati.
Vagabondo verso un mare separato,
che si adagi sul crine felpato
e in eterno lo vezzeggi e rassicuri.
Mentre io m’arresto inalterato.
Un punto sulla battigia sterminata.
Tra il silenzio di tanti gracchianti
il fischio dei grani a frastornarmi. Capo Paloma 9/8/98
Tu
Nel tremolio dell'aurora.
il nitido pallore del tuo viso,
nella penombra incerta
l'inquieto sfavillio degli occhi tuoi,
nel silenzio rotto dal respiro,
i tuoi baci caldi e disperati,
nell'erba colorata di fiori
la sicura armonia delle tue forme,
nell'ansia e nell'angoscia
tu ritorni,
nel sorriso e nel rimpianto
tu m'appari,
nella ricerca del sublime
tu mi sproni,
nella speranza e nel dolore
tu mi sei vicina,
nella dolcezza e nel nullismo
sempre e solo tu.
Tu, con il calore del tuo corpo,
tu, con le tue magiche follie,
tu, con la concretezza del tuo amore.
Un vecchio
Un vecchio dagli occhi arrossati
stanotte é morto sicuro.
Quel vecchio urlava nel letto:
gridava il suo dubbio alle stelle.
Il vecchio ha labbra di bava
e il volto chiazzato di rughe;
la testa può dirsi pelata,
ma gli occhi hanno il caldo del pianto.
Vicino o lontano, che importa,
c’é, in terra, un bimbo fiorito.
Può essere nato in prati sterposi,
da donna puttana e da un uomo vizioso,
o, forse, é venuto tra piume e sorrisi,
nel letto coperto di rose e profumi,
di fatto il suo viso è velluto
e ha il lindo colore di pelle intoccata.
Respira il pallido rosa
di albe serene di vento,
nell'urlo, che spezza il silenzio,
un esile rantolo vecchio
o l'eco d'un nuovo lamento.
Adesso te voci son tante sirene,
impazzite squillan singhiozzi
compressi da nenie
e da canti soavi.
Si urla da lupi affamati.
Si sente la carne.
Un gemito stridulo
s 'alza da terra e ripiomba.
E le catene non sono
di ferro né d'oro.
Hanno l'intreccio volontario
di scarne dita umane.
Schiavi e padroni son
fuggiti all'urlo famelico
in una regione conosciuta
niente o intravista appena.
Io vidi una volta un padrone:
urlava nel letto di morte.
Nessuno ha più
visto il signore - padrone,
e le campane urlano
muti rintocchi,
che il vecchio e il bimbo
non possono sentire.
Vapori
Titubante d'azzurro,
l'intreccio dei colori
si distende.
Nella campagna,
morta alle stagioni,
un'incertezza
di vapori nuovi.