Un Egizio triste

25.01.2015 13:29

Il mondo in versi

 

 

 

 

Proprietà letteraria riservata

 

ISBN......

 

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Enzo Randazzo

 

Un Egizio

 

triste

 

Poesie

 

Iuculano

 

 

 

 

Prefazione

 

Esaltante e smitizzante. Unico e poliedrico. Enzo Randazzo, anche nella sua ultima fatica letteraria, dimostra la sua anima multiforme, sfaccettata. Multiforme sì da procedere nel solco della tradizione, della sua tradizione (quella di “Petali di sole”), in un continum di temi e di motivi, ma, al tempo stesso, osare altre e più arditestrade.

Ai temi consueti (la natura, la sicilianità, l’anima e le sue sensazioni), retaggio anche delle sue passioni per i poeti e romanzieri della nostra terra, il poeta aggiunge, stavolta, dell’altro. Anzi: l’Altro. Questa volta c’è Lui, Dio, l’ “uomo vincente”. L’uomo che vince su tutto, sì. Dio che già in passato c’era in Enzo, sia nella prosa (“Fantasima Saracina”) che nella poesia precedente.

Non è una presenza episodica: stavolta permea ogni lirica, ma senza mai essere troppo evidente, troppo “esteriore”. Ogni fede di Dio è adolescenza, dice Enzo: come un ragazzo che abbia un’ingenua passione e non sa di averla.

 E c’ è la Fede, appunto. Sempre in punta di piedi, mai sbandierata. In tutta la raccolta ricorre apertamente meno di una decina di volte, ma in realtà è sempre presente, come un fiume carsico che silenziosamente, in lunghi anni, nella prosa e nella poesia, ha scavato il suo letto e or affiora delicatamente ma fermamente, insistentemente. E non per essere derisa, sbeffeggiata o smitizzata, come altrove. Talvolta sentita come mutilazione, talvolta come fede incrollabile che porta il poeta a credere nel mondo, nella natura, in se stesso, nell’Uomo, nei valori personali (come nella bellissima “Democrazia”): “Valori per cui valesse il vivere e il morire”. In ogni caso, più salda e diversa da quella di “Petali di sole”.

E c’è il dogma, il non sapere, compiaciuto (“Non mi va di sapere”), la nescienza, l’assenza, il non essere: tutti motivi riletti da un’anima inquieta, preda di un martellamento spirituale, di deliri inconfessati, che vaga da angosciosi tormenti all’impegno

Per Enzo l’esistenza è il bisogno di sognare: occorre ritagliarsi imperiosamente spazio per farlo, altrimenti

non lo si fa. Occorre, quindi, “trovare lo spazio d’illudersi e sognare”; diversamente non si vive. Anche se Randazzo è consapevole, consapevolissimo, del fatto che c’è chi sogna di non sognare. Ma lui no. Lui ne ha bisogno. Per Enzo “un mondo senza luce di Dio è privo di sogni”. E un mondo senza sogni non è concepibile.

Come non è concepibile un mondo senza amore; l’amore deve esserci, altrimenti si approda ad un mondo banale e stupido, come quello dei circoli borghesucci di “Illuminata fantasia”, magistralmente descritto. Sono le passioni che guidano il mondo, non la banalità, la vacuità: se non c’è amore, ma solo apatia, allora è preferibile l’odio, l’odio feroce che è, anche esso, indice di vita: “Almeno sei sanguinante e viva / se vomiti un fiume di maledizioni.” L’odio, quell’odio che già si era presentato, anche se evocato blandamente e fugacemente dalla memoria offuscata, anche in Fantasima. Ma che qui viene elevato a sentimento, a passione.

Raccolta di temi inusitati, o non approfonditi in precedenza, dunque. Ma anche di temi consueti a Randazzo: la natura, in primis. Tema principe, senza dubbio. Come sempre personificata (mirabile la “sabbia avvizzita” o il “pallore della luna” o, ancora, “le stelle perplesse” e le “felci gementi”), ma anche cristallizzata in straordinarie immagini pregne di stimoli classici (Orazio su tutti: bellissime le bianche cime innevate, solo per fare un esempio), ma anche moderni (forse Baudelaire? Rimbaud?), specie ipoeti maledetti. Come definire altrimenti, infatti, il “fetore che imputridisce ogni passione”, o il “sangue bruno e corvi neri”?

E non soltanto la natura risente di quest’influsso letterario: balzano agli occhi, infatti, immagini “forti”, come quella apertamente evocata da “Un’osmosi di arsenico ed eroina” in cui piombiamo in certe liriche. Suggestioni intense che per un attimo ci stupiscono e ci stordiscono. La raccolta spazia, infatti, da sensazioni mentali (talvolta delicate, talvolta incisive) a suggestioni geografiche (anche molto circoscritte, come quelle autobiografiche), a stimoli polisensoriali che diventano spunto per altro. Voli pindarici , partendo dal contingente, approdano a lidi lontanissimi: le sensazioni, per esempio. In effetti, le sensazioni dominano tutte le liriche: sensazioni visive, olfattive, tattili…. Evocate daun ricordo, lontano ma bruciante, da un suono, da un pensiero “libero”, da un paesaggio, da una situazione, da uno stimolo dell’anima.

Impressionante la mole di lessemi relativi ai sensi, alle sensazioni, anche intime, anche ineffabili, inesprimibili: bellissimo il “sobbalzo nel cuore” con cui si apre la raccolta, o i “marosi struggenti” che ci coinvolgono nell’anima. Degne di nota, anche, le suggestioni dettate dalla Morte, Colei che mette fine solo al corpo e non a tutto il patrimonio di idee, emozioni e sentimenti, che permane eterno. In tal senso, evidentissima, a mio avviso, l’influenza dell’antologia di Spoon River: a volte scoperta, come nella bellissima lirica“Un amico veramente speciale”, a volte timidamente presente, come nel bellissimo epitaffio solo immaginato e non scritto su “Una lapide / al povero e al negro / ammantata / di gigli e di rose”. In ogni caso, sempre operante, e in totale sintonia con la Fede e col Dio di cui è intrisa tutta la raccolta. Anche qui, come sempre, risplende il solito, indefesso atto d’amore verso la propria terra: dai romanzi “La Palude”, “Sicilia, my love” e “Fantasima Saracina”, fino alla raccolta poetica “Petali di sole” e, soprattutto, a quella odierna, come sempre la Sicilia campeggia su tutto, con i suoi luoghi, “morbidi” e solari, i suoi odori, i suoi colori, le sue passioni, le sue arsure, “i suoi profumi aspri di limoni e mandarini”. Luogo mitico della fanciullezza e della maturità del poeta, cui egli tributa un ennesimo, aperto omaggio (oltre agli infiniti “doni subliminali”, sparsi in tutta la raccolta), elogiando apertamente“il sole bollente della mia mitica Sicilia”.

Esemplare, come sempre, il linguaggio, cui il poeta dedica particolare cura. Lessico ricchissimo, anche tecnico, e lingua risemantizzata a proprio uso: “scoscientizzare”, “nescienza”. Neologismi che non turbano affatto neppure il lettore più tradizionalista, tanto sono idonei e unici per esprimere il concetto che si vuol farpassare, altrimenti inesprimibile.

E che, dire, poi, degli accostamenti lessicali arditi? L’amore di Enzo per la natura lo induce ad utilizzare spesso nessi sinestetici che colpiscono nel profondo (“il vento della notte si tace”, “Verdi montagne di ghiaccio coronate”, “il tuo fresco di cielo”, “ruscello assopito nell’aria”, i “tramonti fumanti sul mare”) e ossimori che non ci aspetteremmo, ma che suonano meravigliosamente efficaci alle nostre orecchie: bellissimi i “mari erbosi”, le “taglienti tramontane”, il “relativismo radicale” o l’espressione “navigare i deserti” o anche il “Rintronarmi e stordirmi / dei tuoi eloquenti silenzi”.

La raccolta è anche, da punto di vista lessicale, “cromaticamente vivace”, e spazia dai fiori rossi ai prati verdastri, alla bruma cenerina, alla farfalla gialla e turchina, alle agavi turchesi, al cobalto e allo smeraldo del mare, al sole rosso di Sicilia e ai rossi papaveri e al golfo, azzurro pallido. Un azzurro cedevole si insinua nelle fondazioni giallastre. E non viene trascurato neanche il lato “gotico”, lugubre, delle sfumature cromatiche: la vipera nera, il sangue bruno e corvi neri, fino ad arrivare a scorgere “nel bianco e nel nero falde di sangue arrossato”. Ma su tutto il lessico, indubbiamente, dominano le parole attinenti al campo semantico della luce, applicate a qualunque sfera: natura, suoni, sensazioni, realtà, città, luoghi. Non è una novità, in Enzo. Ma, questa volta, tali lessemi suonano nuovi, diversi, quasi il portato esteriore di qualcosa che c’è dietro. Il significante di un Significato nascosto. Che c’è, ma non si vuole rivelare. Ma che illumina tutto il Creato, il suo Creato. E i termini lessicali “luminosi”, in tal senso, non servono solo ad illuminare la poesia di Enzo: fanno sentire il calore, la Luce di Dio, a tutte le sue creature. Testimoniano, ancora una volta, la sua Fede.

Grazie mille ad Enzo per questo nuovo dono che ci ha fatto. Un dono che per lui, sempre propenso a scrivere e a mettersi in gioco con la prosa (anche con tematiche “scottanti” come in Fantasima Saracina o “mentalità ibride” e difficili da sviscerare, come in Sicilia, my love) ma molto, molto pudico quando si tratta di esporsi con la poesia, non deve essere stato facile pubblicare. Perché una raccolta poetica, sia essa frutto di un’unica, intensa e feconda stagione creativa, o di più fasi della propria vita, inevitabilmente svela “i panni intimi e privati dello scrivere poetico”.

La raccolta è organizzata in semplice ordine alfabetico. E questa è certamente una scelta indice di pudore personale, sempre insuperato davanti alla poesia di Enzo Randazzo, che guarda alla realtà con un sorriso istrionico e apparentemente indecifrabile: lo stesso sorriso bonario e malinconico de “L’uomo Egizio [che] è triste nel sole, ma ride negli occhi di ogni creatura”.

Come sempre, unico e poliedrico, univoco e polisemico.

Daniela Rizzuto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Abu Simbel

 

Squarci di cielo ovale

 

su rami predoni di sabbia

 

nel deserto profondo del Male.

 

Piramidi erette dal vento.

 

Montagne di sabbia avvizzita

 

e pezzetti di vita

 

tra le case in mattoni crudi

 

di un fantasmagorico villaggio nubiano.

 

La Nubia mi parla

 

la Storia Universale ,

 

ma il Tempio sull’acqua

 

è un sobbalzo nel cuore.

 

Segato alla base

 

per vivere Eterno.

 

Sul lago a fiordi merlati

 

il Falco sfreccia alato

 

sui cobra eretti e attorcigliati

 

a dare la Luce

 

a babbuini seduti

 

su gola egizia

 

a salutare il chiarore di sole.

 

Sorvola e sovrasta

 

colori di terra riarsa.

 

Un coccodrillo assetato,

 

a fauci taglienti,

 

si beffa bonario di Franca rilassata.

 

Nell’aria di fuoco

 

 

 

 

barlumi di palme.

 

Senza api sussurranti

 

scarseggiano fiori verdeggianti

 

ed alberi nudi di pelo

 

si protendono al cielo.

 

Ramsete, due volte incoronato,

 

proietta un soffio vitale

 

nel mirino del Merkhet squadrato,

 

se nasconde qualche concubina

 

nell’ombra dolciastra

 

della canicola rossastra.

 

I raggi inclinati

 

vezzeggiano il Dio

 

estratto dal monte

 

in un unico blocco.

 

Un uomo vincente

 

in mille battaglie

 

trafigge gli Ittiti

 

e libera il Fiume.

 

Potenza di bighe,a piedi levati,

 

slanci di braccia, su Ittiti sfiancati.

 

Un tronco racconta

 

il segreto del grano.

 

Si flette e rimbomba

 

in marosi struggenti.

 

Un Amore da Nilo con Nefertari,

 

potente come un Faraone.

 

Più bella tra belle,

 

il viso sottile, abbagliante al mattino,

 

i seni torniti su pelle di ebano,

la chioma a spire sul corpo serpentino.

 

Nella buccia limpidamente smorta

 

la voglia di donarti già repressa.

 

Fra gli occhi di Athor,

 

nel cuore immoto,

 

sogni di gioia incombente

 

con il sistro sporgente

 

su un fiore di loto.

 

Nella persona incerta e provocante

 

pena di ardori e pregiudizi.

 

Arde l’incenso acre

 

sulle barche sacre

 

in albe brucianti

 

di leoni amanti.

 

Alitare e sentire.

 

Non mi va di sapere.

 

Mi basta una Fede.

 

Nella coppa del vino,

 

tra le corolle scarlatte del sentiero,

 

niente più di angosciosi tormenti.

 

Nell’impegno di esistere e sognare

 

solo l’inerzia della fatica apicale.

 

 

 

 

Agonia

 

Angoscia amara

 

nel viso smunto

 

e logorato.

 

Agonia adorata

 

di sguardi stregati

 

e lancinanti.

 

Agonia di tormenti

 

nel rullio

 

dell’immaginazione.

 

Contemplo

 

un sentimento

 

asfissiato sterilmente,

 

violento nel barbaglio

 

delle tue pupille,

 

rovente nel sussulto

 

della carne tua.

 

 

 

 

Almeno

 

È l’indifferenza

 

il mio nemico mortale.

 

La lotta violenta e dura

 

rafforza ogni mia fede.

 

Preferisco il disprezzo,

 

l’odio feroce e rancoroso

 

nei tuoi occhi inimitabili,

 

un tempo luccicanti

 

come un diadema arabescato,

 

spenti oggi della luce del domani.

 

Specchiarsi nel tuo grigio,

 

chiuso alla vita e all’illusione,

 

è uno strazio lancinante.

 

Le albe non rosseggiano

 

aurore violacee sull’onda bruna,

 

né stendono drappi di viole

 

tra le gramigne voraci,

 

incapaci di spiccare il volo.

 

Preferisco il tuo urlo di denigrazione,

 

alla violenza su una storia,

 

incisa nella carne ancora palpitante,

 

vibrante alla dolcezza della dita.

 

Almeno sei sanguinante e viva

 

se vomiti un fiume di maledizioni.

 

Almeno turi il naso al suo fetore

 

che imputridisce ogni passione.

 

Al suo marciume razionale,

 

inevitabile e puntuale come ogni sera.

 

Mi viene insostenibile il morire.

 

Non sopporto il coma della dolcezza.

 

La tua pelle sempre più secca,

 

senza il tepore della mia mano.

 

Gli occhi infossati e vuoti,

 

perduti nell’orizzonte separato.

 

Voglio ubriacarmi ancora

 

alla fontana della tua follia.

 

Almeno qualche strada clandestina.

 

Almeno un tuffo al cuore imbalsamato

 

ad ogni angolo di cielo turchese,

 

nell’acciottolato bagnato di rugiada.

 

 

 

 

 

 

Amsterdam

 

Una città dolcissima e vibrante.

 

Immersa nelle acque chete

 

dei suoi canali pigri e verdastri.

 

Pizzicata da nebbioline trasparenti

 

nelle albe umide e pacate.

 

Dormiente, soporifera e noiosa,

 

senza la sua anima

 

turbolenta e trasgressiva.

 

Di giorno la percorrono curiosi

 

e lupi affamati di peccato.

 

Occhi perduti nel vuoto.

 

Braccia traballanti d’astinenza.

 

Ritmi spasmodici d’attesa.

 

Un quasi uguale viscido e inquietante.

 

Come il fruscio di un ramarro

 

sotto le foglie fitte e camaleontiche.

 

Nel sole assopito sui canali

 

sfavillano lanterne e fanali.

 

Nelle vetrine di bambole nude

 

un sorriso metallico di posa.

 

Corpi perfetti, freddi e statuari.

 

Laccati come pupi di martorana.

 

Sbandati e ricercatori esperienziali,

 

di ogni tipo, tempo e stagione.

 

Tinte ricercate nelle sfumature

 

di chiome intrecciate o raspate.

 

 

 

 

Abiti lisi, stracciati o rattoppati,

 

esibiti con civetteria trasandata.

 

Amsterdam vive nella notte.

 

Negli angoli bui e tenebrosi

 

appena rischiarati da un lampione.

 

Nelle luci rosa ed arancione

 

dei suoi coffe shop ambigui ed invitanti.

 

Nella quieta tenerezza di coppie gay

 

finalmente libere di scivolare

 

le sue calli strette e variopinte,

 

intrecciando le dita delle mani.

 

In una viuzza affollata e colorata

 

due chitarristi trovano la scena.

 

In un angolo appena nascosto

 

quattro bulli tenebrosi vendono

 

miscele esplosive e dannate

 

di attimi di vita fuori tono

 

e certezze di morte della persona.

 

Tutta la follia dell’universo,

 

la creatività di una generazione,

 

ubriaca di utopie e rinunce.

 

Di un’altra affannata a cercare

 

senza ormai neanche trovare

 

lo spazio d’illudersi e sognare.

 

Tutta la pazzia frenetica e vitale

 

dello spirito dionisiaco e marginale.

 

Si ritrovano nel firmamento ossessivo

 

del tuo paradiso artificiale.

 

Nella dimensione onirica

 

di felicità malinconica e fuggente

 

come il flauto piangente

 

del messicano accovacciato.

 

Indifferente al turbinio

 

di un passante frettoloso e sorridente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Atomo

 

Atomo schiantato

 

in corpuscoli

 

assenti.

 

Lemuria

 

naufraga.

 

Ebbra di gioie

 

e solitari

 

tumulti.

 

Villoso

 

antropopiteco.

 

Punto

 

senza fine

 

dell’universo

 

inconscio.

 

Empirei nucleari

 

nel futuro.

 

Uggia

 

perenne

 

nel tempo.

 

Vano sollievo

 

una tenue

 

illusione

 

subito sepolta,

 

nel deserto

 

di renelle

 

incenerite.

 

 

 

 

 

 

 

Barba.

 

Un amico ha la barba folta

 

e negli occhi un assurdo dolore.

 

Un pittore senza equilibrio

 

che dipinge figure bestiali.

 

Musi bloccati in cristalli.

 

Pupille cerchiate di donne.

 

Il sole non ha sfumatura.

 

Il cielo diviene più ombroso.

 

Le stelle punte sbiadite.

 

Le vette colore di terra.

 

I campi arancio di grano.

 

I laghi stagni di pietra.

 

Raffiche d’aria tra tuoni.

 

Pioppi spogli di suoni.

 

Foglie secche nel gelido vento.

 

Sangue bruno e corvi neri.

 

Una smorfia di debole vinto.

 

Un sorriso spoglio d’amore.

 

Sfiducia di corpi concreti.

 

Vomito, buio, squallore.

 

Fiacca di vuoto rimuginare.

 

Nessuna ricerca di idee.

 

Morto il bisogno d’azione.

 

Uno stupido antisociale.

 

La noia, lo schifo, l’oblio.

 

Finirà di sicuro suicida

 

o sarà celebrato dal mondo.

 

 

 

 

 

Basta

 

Non mi basta più

 

proiettarsi

 

e svestirsi

 

di vestimenta usati.

 

Non serve

 

a capire

 

il senso eclissato

 

nei giorni

 

lambenti le gioie

 

e gli umori alterati

 

di selci pensanti.

 

Non mi basta più

 

ubriacarmi e intontirmi

 

delle tue asciutte parole.

 

Rintronarmi e stordirmi

 

dei tuoi eloquenti silenzi.

 

Scavare e sterrare

 

in un guscio di brace

 

per riscoprire

 

nel bianco e nel nero

 

falde di sangue arrossato.

 

Creare

 

è possessione

 

se insegui

 

praterie inaridite,

 

traboccanti di pianto.

 

Una frenante esitazione,

 

sapida di stagioni

 

inumate nella ghiaia.

 

Un selvaggio rimescolio.

 

Un’annosa impazienza

 

di dominio.

 

Non mi va più

 

rimestarsi d’immaginazione,

 

smembrato il pensiero maligno,

 

se puoi ricomporre

 

i ciottoli sparpagliati

 

di un’epopea

 

di equivoci e rancori.

 

Una lapide

 

al povero e al negro

 

ammantata

 

di gigli e di rose.

 

Ti desti allucinato

 

da un delirio,

 

incroci occhi spiegati

 

nei tuoi occhi,

 

ti plachi nella dolcezza

 

delle labbra.

 

Non più derelitto

 

in questa valle estranea.

 

Tornando puoi ricominciare.

 

Basta il calore

 

di una mano buona

 

vibrante

 

nella tua conscia

 

di vita.

 

 

 

 

 

Buccia di verzura

 

Di duro in te

 

solo una scorza di fogliame.

 

Un gioco mutevole

 

di ombre turchine.

 

Senza trucchi.

 

Un dolce pasticciotto

 

di ricotta di capra.

 

Con la sua finezza.

 

Senza l’immancabile selvaticume.

 

Non un bastardino spelacchiato

 

abbandonato al cielo grigio chiaro.

 

sculettante e cedevole

 

ad ogni misericordiosa moina.

 

Né un mastino alla museruola.

 

Sei un’ape che sussurra

 

mentre cerca il miele.

 

Puoi anche pinzare per amore.

 

Con un brivido bruciante

 

di dimenticato incantare.

 

Diavoletto tosto e recidivo,

 

se ti saltello sulle punte,

 

come il ragazzino birichino

 

che ormai non sono,

 

il sole sulle rive amaranto,

 

spezza frammenti di luce.

 

Ed è una danza di ribellione.

 

Un’osmosi di arsenico ed eroina.

 

Un trip rapido e nauseante.

 

Capace di scoscientizzare.

 

Sognando infiniti pendii.

 

Sorrisi incandescenti nei tramonti.

 

Frinire di assordanti cicale

 

tra bianche cime innevate.

 

Non è inservibile parola,

 

se mi soffermo a frusciarti

 

ineffabili delicatezze argentine

 

sulla tua buccia di verzura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’è

 

Un marciume

 

brunastro

 

nell’anima

 

appannata.

 

Un annoso sgomento

 

di vivere bene.

 

Una gioia

 

selvaggia

 

di dare dolori.

 

C’è qualcosa

 

del bruto

 

sotto il sorriso.

 

Un istinto

 

bestiale

 

che torna

 

slegato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con te, Surfinia

 

Con te senza riserve.

 

Irruente e verace

 

Altruista e spontanea

 

Aperta a sperare.

 

Un fulgido baleno

 

Un’illusione

 

Di vita e batticuore

 

Rapida e sfuggente

 

Come un temporale

 

Di volubile marzo.

 

Non voglio pensarti

 

Con le labbra chiuse

 

Tappate da vili maramaldi

 

Lo sguardo mortificato

 

Dall’ultima delusione.

 

Una ferita bruciante

 

Per chi crede nell’uomo

 

Vive per gli amici

 

Esce di casa

 

Nel mattino rosseggiante

 

Per sentirsi accettata

 

Nella bellezza che ha

 

E non si rassegna

 

A spegnere nel fango

 

Dell’ipocrisia contorta

 

E nei sottili formalismi.

 

Una donna vera.

 

Forte e coraggiosa

 

Creativa e sicura.

 

Per gli altri.

 

Non già un misero

 

Calcolo egoistico

 

Di cui non sei capace.

 

Tutto quanto con te

 

Senza calcoli e strategie.

 

Con la tua follia

 

D’amore per le creature

 

Con il tuo genio sgretolato

 

Con la tua fantasia

 

Che sciorina dolcezze

 

Incomprensibili ai gretti

 

Meschinamente invidiosi.

 

Anche nei nuovi orizzonti

 

Svettanti nelle tue nuove albe

 

Di profumi di salvia

 

E cinguettii di cardellini.

 

 

 

 

Democrazia

 

Nei cortili acciottolati

 

schizofrenia di parole.

 

Di guerre atomiche e genocidi.

 

Di bastoni e granate.

 

Di pietà millantata.

 

Di morti di sonno.

 

Di carrierismo diffuso.

 

Di interessi corporativi.

 

Di cieli vuoti.

 

Di menzogne intenzionali.

 

Di plutocratiche videocrazie.

 

Di privilegi per oligarchie.

 

Di diritti negati.

 

Di speranze stritolate.

 

Di filosofi assenti.

 

Di verità assolute.

 

Di nichilismi relativi.

 

Tra i pinnacoli,

 

dardeggianti al sole,

 

rosoni multicolori.

 

Democrazia è rispetto della natura.

 

Garantire la vita alle api.

 

La purezza alle acque dei fiumi.

 

L’equilibrio dell’ecosistema.

 

Democrazia è condivisione.

 

Intervenire nelle decisioni.

 

Scegliere il proprio destino.

 

 

 

 

Mirare a interessi comuni.

 

Nelle piazze ariose

 

Democrazia è discussione.

 

Ragionare insieme.

 

Individui coscienti.

 

Menti produttive.

 

Fede in valori personali.

 

Allegria di scoprirsi in errore.

 

Democrazia è libertà.

 

Di pensare, esprimersi ed agire.

 

Di associarsi, ideare e attuare.

 

Di muoversi senza frontiere

 

Democrazia è tolleranza.

 

Accettare il diverso da noi.

 

Amare anche altri colori.

 

Imparare da un bimbo spontaneo.

 

Diffidare di mandati divini.

 

Assolvere ai propri doveri.

 

Richiedere a tutti un impegno.

 

Nella coscienza del proprio ruolo.

 

Democrazia è altruismo solidale.

 

Preferire il ciclista che casca.

 

Sostenere l’inerme e l’escluso.

 

Capire un’idea che oggi perde.

 

Rispettare i diritti di tutti.

 

Democrazia è informazione.

 

Parlare un linguaggio di eguali.

 

Discorsi accurati e puntuali.

 

Lasciare svelarsi le idee.

 

Democrazia è giustizia.

Un arbitro equo per tutti.

 

Vigoroso con prepotenti e forti.

 

Indulgente con poveri e deboli.

 

Ma democrazia non è eredità.

 

Successione scontata di beni.

 

Paranoia di disillusioni.

 

Letto morbido sul quale poltrire.

 

Democrazia è conquista quotidiana.

 

Ridiscutersi ad ogni mattino.

 

Adeguarsi ad un mondo che cambia.

 

Rinnovare speranza nell’uomo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Francoforte

 

É dolce questo fluire

 

quieto e rasserenante

 

di battelli che slittano

 

sul Meno chiazzato di barche.

 

Gli intarsi rosa e rossi

 

sulle facciate ricamate,

 

protese in alto, ardite,

 

verso pinnacoli goticheggianti

 

sembrano sospensioni del pensiero.

 

Svettano, tersi e dominanti,

 

grattacieli vitrei smaglianti.

 

Vecchie e nuove magie.

 

Tensioni complementari.

 

Non come i frastuoni inconcludenti

 

della mente spossata e intorpidita

 

tra scontate illusioni di certezze

 

e palpitanti salti nel buio.

 

La geometrica linearità

 

delle tue strade silenziose

 

in questa domenica estiva.

 

Una città denudata

 

della sua anima commerciale.

 

Solo qualche scampolo sbrindellato

 

della sua vasta umanità,

 

tinteggiata, tollerante e policroma,

 

nell’indifferenza degli accoppiamenti,

 

ma rigida, tedesca e severa

 

nei musi duri e negli occhi neri

 

tra le ogive di terse cattedrali.

 

Sconterò la prudenza delle scelte

 

tra le arsure sonnolente dei miei campi,

 

quasi fili di fumo altalenanti,

 

delineanti possibili fantasmi

 

di paure mascherate di arditezze,

 

nelle albe brucianti di passioni.

 

Intanto bevo questa frescura

 

di foreste infiorate e inusuali.

 

Assaporo la carezza del chiarore,

 

lieve tra le foglie della quercia

 

e splendori verdi e azzurri,

 

che mi sfiora e mi dà tepore.

 

Ripercorro le strade del mondo,

 

dove il sorriso è parco e avaro,

 

ma non tradisce un ghigno sardonico,

 

né la piega amara dell’ipocrisia,

 

né la vile acquiescenza del terrore.

 

Dove sorridere è aprirsi inconsapevole

 

allo sconosciuto che ti degna di uno sguardo.

 

Dove sorridere è aprirsi alla speranza

 

di tramonti dolcemente svigoriti,

 

senza attesa di colpi di scena.

 

Dovessi un giorno aggirarmi

 

tra le brume e le rugiade,

 

che ammorbidiscono le pianure,

 

smisurate, quasi vuote, senza fine,

 

di questo Nord chiazzato di Sud,

 

con la mia testarda solitudine

 

 

 

 

di ragazzo solare e sognatore,

 

amante d’incognito e pauroso di buio,

 

che rifiuta ancora d’invecchiare,

 

di sentirsi arrivato a qualche punto

 

del suo percorso sinuoso ed ondeggiante,

 

rischierei certo l’angoscia,

 

nelle estati timide ed esitanti,

 

appena primavere percettibili,

 

tra le chiazze di nubi chiare

 

che non si arrendono al sole.

 

Affogherei probabilmente in silenzi,

 

fuori dalla mia natura comunicativa,

 

con il magone ricorrente

 

del ciarlare ripetuto ed assordante

 

nei cortili e nei circoli affollati.

 

Oggi,però, è un altro giorno.

 

Nel venticello che spira da ponente

 

sento l’ansia di vivere che torna.

 

Mi riconosco quasi un leviatano

 

che pregusta, perdutamente assopito,

 

il profumo di narcisi e tulipani.

 

 

 

 

Fumo di Londra

 

Fumo di Londra e salvifiche Sirene

 

nel cielo pungente di Oxford Street.

 

Tra fragranza di spezie indiane

 

e sgargianti vestiti orientali

 

incrocio jeans sfrangiati

 

nell’aria bisunta e bagnata,

 

ammantata di grigio e colori.

 

Troppe stelle filanti

 

per un errante navigatore.

 

Troppe cicatrici atemporali.

 

Troppe stregonerie vulcaniche

 

in giorni di scirocco siciliano,

 

incalzando farfalle di libeccio.

 

Eterno ragazzo, birbante e trasformista,

 

con un piede sempre fuori,

 

in procinto di salpare

 

verso moderne ribellioni,

 

un Ulisse quasi banale,

 

mi disperdo tra i grattacieli di Canary Wharf,

 

nella City dell’alta finanza.

 

Consapevole non rassegnato

 

dei miei temerari sessanta,

 

vagabondo tra parchi verdissimi,

 

mercatini d’antiquariato,

 

sensazioni di piatti amerindi,

 

vivaci locali in China Town,

 

baldorie di feste di droga,

 

 

 

 

eleganti teatri in Picadilly.

 

Tagliatore di teste a Meduse,

 

scrivo intinto dal fumo di Londra.

 

Lo respiro denso in un pub.

 

C’è penuria di magia di Nausica.

 

Nella Luna ambiziosa ed austera,

 

riaffiora il sortilegio di Circe

 

seducente, pericolosa dark lady,

 

se Penelope, spossata e inaridita,

 

attualizza daltonismi prospettici,

 

incombendo avide Menadi.

 

L’Old Crown è un tintinnio di bicchieri.

 

La biondina lentigginosa

 

spilla litri e litri di birra.

 

Il locale è pieno di gente:

 

per Ulisse sedersi a un tavolo

 

è sfidare Nettuno agitato.

 

Sopravvivere già è un mestiere.

 

All’irruenta fiumana dei sogni.

 

Al cinereo dello scontato presente.

 

A sussistere fuori dall’istante.

 

Alla sgobbata di rimpatriare

 

nella mia concretezza capricorniana.

 

Ma mi assiste il profumo del mondo

 

e questo mio caparbio vagabondare

 

tra le affascinanti favole dell’ecumene.

 

 

 

.

 

 

 

 

Gelosia.

 

Stiamo al fresco di un gelso riarso

 

proiettati per la Redenzione.

 

Dai vincoli di ogni rimpianto.

 

In una carrucola

 

senza fine.

 

Nel disgusto

 

dei corpi scomposti.

 

Nel perpetuo fluire

 

di stupidi eventi.

 

Nel sole che infiamma

 

l’azzurro vespertino.

 

Tra realtà impermanenti.

 

Praticando una sfera

 

rasente lo zero assoluto.

 

Da essenza vitale

 

a sussistenza struggente.

 

Dalla nescienza

 

alla vigile attenzione.

 

Con il viatico

 

delle nostre azioni.

 

Per l’estinzione

 

di ogni illusione esistenziale.

 

Sospettosi dei nostri pensieri.

 

Verso la percezione assoluta

 

del vuoto totale.

 

Consapevolmente dipartiti.

 

Da tentazioni e diavolerie.

 

 

 

 

Verso una coscienza immacolata.

 

Straordinariamente svincolati.

 

Da mostruosità e tirannie.

 

Dal folletto scattante

 

che inghiotte

 

un falcetto di luna.

 

Grati alla fame e ai malanni.

 

Alla pecora e al verme,

 

innati in ciascuno di noi

 

Incredibilmente svegliati.

 

Da schiavitù e prepotenze.

 

Inzuppati nella conoscenza

 

per identità scivolose.

 

Temperando il distacco dal mondo.

 

Palpitanti di compassione.

 

Dominando la mente che inganna

 

orienta, dirige, conquista l’Inferno

 

ed azzanna i sogni nel cuore.

 

Artigli pronti a chi sfugge.

 

Denti acuti e stomaci ampi.

 

Amorevoli verso i viventi.

 

Senza ingorda sete di vita,

 

né di unione con ciò che si adora.

 

Senza dire bugiarde parole.

 

Affilate come pugnali.

 

Svigorendo e svuotando

 

scampate frenesie d’illusione.

 

Senza pensieri osceni.

 

Senza condanne e competizioni.

 

Senza invidia di beni altrui.

Né molli pigrizie ed accidie.

 

Curiosi fino ai vizi disumani.

 

Imparziali verso il reale.

 

Parsimoniosi nell’oblio e nella memoria.

 

Né ire né dolci follie.

 

Ogni cosa che sorge gagliarda,

 

tanto, poi, muore avvizzita.

 

La passione di Dio è adolescenza.

 

Ogni fede è mutilazione.

 

Inettitudine a comunicare.

 

Ogni amore rinuncia a se stessi.

 

Ogni credo assoggettamento.

 

Assenza e spasmo di espiazione.

 

Un’istantanea visione intuitiva.

 

Sacrificio di Dio per il nulla.

 

Siamo intinti in meditazione.

 

Per andare oltre lo sguardo.

 

Nella grammatica dell’anima.

 

Pronti a osare ed espugnare.

 

Acquietati d’essere soli .

 

Gelosi del nostro dolore.

 

 

 

 

Goccia di sole

 

Una goccia di sole

 

sulla seta dei miei sogni

 

frantumati dal tuo amore

 

cieco e possessivo.

 

Totalitario come il muschio

 

della tua passione.

 

Mi accarezzi inconsapevole

 

e non ti scandalizzi.

 

Mi vedi come sei.

 

Colorata, avvolgente e affascinante.

 

Nella morbida caligine

 

delle tue pianure perse

 

a filo d’orizzonte.

 

Sterminate come le fantasie

 

che non si piegano

 

nei passi ritmati e monotoni

 

della vita inarrestabile.

 

Anche sotto i noci

 

di un inverno incredibile

 

di piogge e di brine.

 

Anche tra le arsure di Sicilia.

 

Tra i suoi profumi aspri

 

di limoni e mandarini.

 

Mi manca.

 

Mi manca da tanto ormai.

 

Quello sprazzo di follia

 

che illumina i giorni

 

e accetta le notti lunghe

 

di passioni spente e rassegnate.

 

Per questo anche il tintinnio

 

della tua goccia indifferente

 

rischia di avvampare

 

le stoppie di un agosto

 

improbabile e lontano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Illuminata fantasia.

 

Il sole rimbalza

 

nel rione chiassoso

 

di piccini e comari

 

gracidanti alle finestre

 

Chi va di fretta

 

per pranzare.

 

Chi osanna la roba

 

non smerciata.

 

Chi ride di storie

 

del passato.

 

Chi frigna a vuoto

 

di dolore.

 

Chi sogna un aumento

 

di salario.

 

Chi sogna

 

di non sognare.

 

Esserci è sussistere

 

nel perenne banale.

 

Amo le inferriate

 

del mio davanzale.

 

Amo i marmocchi

 

che schiamazzano

 

a pallone.

 

Amo il barbone

 

del rione.

 

I bimbi scalzi

 

tra sterpaglie

 

 

 

 

e vetri aguzzi.

 

Persino la comare

 

linguacciuta.

 

E il paffuto benestante,

 

eternamente posteggiato

 

al Circolo dei Civili.

 

Ma i loro adocchiamenti

 

mancano d’amore.

 

Frasi pungenti.

 

Frecce di tossina.

 

La società si azzanna

 

senza tregua.

 

Pietra grezza.

 

Resistente

 

a sgrossare.

 

Banale ogni

 

parola costruttiva.

 

Breve l’amore.

 

Un rogo bruciante

 

testimonia la Fede.

 

Nel fulmine sulfureo.

 

In una mestruazione

 

vegetale.

 

Putrefacente

 

lo spirito fetido.

 

Che disintegri

 

le scorie,

 

purificando

 

l’argento vivo.

 

 

 

 

Levante nella notte

 

Inscindibile malinconia

 

nella nottata ventilata.

 

Se il levante infiamma

 

memorie incenerite

 

si fa dolce sdraiarsi

 

tra le spighe di grano,

 

nella pelle l’arsura

 

della terra scura,

 

nel cielo terso

 

nuvole di cotone,

 

al pallore della luna.

 

Frantumi sgranocchiati.

 

Brandelli sgretolati.

 

Ballonzolanti e vivi.

 

Nel turbine incalzante.

 

sul morbido fruscio

 

della lucertola amica,

 

sull’anima stanca,

 

insonne di crucci,

 

promesse di vita.

 

Tu non lacrimi rimpianti.

 

Rincorri mari erbosi.

 

Campagne mute.

 

Ulivi saraceni

 

contorti sotto il sole.

 

Invidio la tua pace.

 

Serena sul guanciale.

 

 

 

 

A fiotti subitanei

 

sbianca il mattino.

 

Per chi si guadagna il pane

 

si è già fatto chiaro

 

e la vicina si leva mattiniera.

 

Il vento copre e sottintende

 

ogni martellamento spirituale

 

e mi lascia svolazzar

 

tra mille mari.

 

Nel cinguettio garbato

 

di passeri di canali

 

crepitanti motori.

 

Un coro evocatore

 

di stravaganze amare.

 

Nel poggio inarcato

 

a sbarrare il panorama

 

stalloni vellutati

 

nell’erba scalpitanti.

 

Un micio si stiracchia

 

con pigrizia sensuale.

 

Un gallo ritardato

 

annunzia l’albeggiare.

 

Non tace la natura.

 

Bisbiglia sconfitte amare.

 

Tra incompiuti splendori.

 

Desolanti ricordi.

 

Danze illusorie

 

Nei giorni faticosi

 

Penanti e stentati

 

nello sguardo opaco.

Sorrisi idioti.

 

Eburnei cuori.

 

Lune calanti

 

su deserti gelati.

 

Stelle perplesse

 

su pianti universali.

 

Bisbiglia pace e rumori.

 

Terra odorante

 

fetido bitume.

 

Bombe nel sole.

 

Sprechi e fame.

 

Fredde solitudini.

 

Odi mortali.

 

Mete sfumate.

 

Zenit virtuali.

 

Stenta in salita

 

un vecchio ciuco,

 

bianco e sdentato,

 

di lavoro spelacchiato.

 

Ma lavorare duro

 

è l’unica consolazione

 

di narcisistici amori

 

e di passioni brinate

 

sotto mandorli immobili

 

e taglienti tramontane.

 

 

 

 

Liocorno

 

La reincarnazione l’ho già inventata

 

e in tutte le mie fantasie testimoniata.

 

More solito spara una calzata.

 

Non conosco Liocorno né mi piace.

 

Amo le sue parole dense e immaginose

 

Mentre il vento della notte si tace,

 

il leone -formica non ha pelli squamose.

 

Ha padre violento e carnivoro,

 

madre sensuale ed erbivora

 

perciò è indeciso ad ogni ora.

 

Non mangia carne a causa della madre,

 

ed ogni pesce è un’antipatia,

 

rifiuta l’erba a causa del padre

 

ed odia ogni sprazzo di goliardia.

 

Un piccolo animale, quasi un capretto,

 

un unicorno in mezzo pronto al duetto,

 

un cuore doppio e peccatore in petto.

 

Non conosco Liocorno né mi piace

 

la criminosa imperizia ad ascoltare in face,

 

ma ne amo la voglia di sognare in pace.

 

Gli consiglio nettare e miele al mattino,

 

per catturare il mistero delle cose,

 

profumati d’alloro e di timo,

 

per eludere ciglia smarrite e invidiose.

 

Un Re buono non vuole fil di ferro,

 

dantescamente infilzato, se non erro,

 

famelico e formicolante sotto un cerro.

 

Un Re buono diventa Imperatore

 

se il non amore si fa melodia.

 

All’Aquila non è precluso un cuore,

 

se non si lascia incattivire da malinconia.

 

Nessuno è veramente solo in un temporale.

 

Se sa inventare una parola sperimentale,

 

di brutture, gelosie e diversità poco gli cale.

 

Se Liocorno sfuggirà all’anoressia,

 

e non parlerà doppiamente in preghiera,

 

prenderà dimora nel ventre di Maria

 

e bacerà i fantasmi aleggianti nella sera.

 

 

 

 

Luxor

 

Nel primo albore, denso di brume,

 

nebbioline pressoché padane.

 

Il canto di Amon Ra,

 

poco meno di un fischio di vento

 

tra squarci sottili,

 

adombra la roccia

 

di rosa giogaie

 

sul soffice mare di sabbia,

 

se buchi ad intaglio

 

ne filtrano il soffio vitale.

 

Nelle palme inarcate

 

da sbuffi cocenti,

 

appena un salice piangente,

 

la città dalle cento porte

 

sonnecchia pacata sul Nilo.

 

La vita germoglia ad Oriente

 

e avvizzisce ad Occidente.

 

Selqet, Neith ed Iside

 

nel cartiglio d’ebano e avorio.

 

Rinnegato tra steli annodati,

 

esiliato in silenzi stuccati,

 

rispunto da un fiore di loto,

 

come al Tempo della Creazione.

 

Usciabiti mi dicono esistere

 

nelle palpebre d’oro all’entrata.

 

Nell’immenso del Tempio di Karnak

 

mi stordisco al Trionfo del Sole.

 

Mi ricreo nel deserto del Tempo.

 

Mi disperdo nel Viale di Sfingi.

 

Se respiro pulviscoli aspri

 

riascolto scalpellio di Maestri.

 

Mi rigenero, nera la pelle,

 

a squarciare la pietra grezza,

 

levigando lo spirito informe.

 

 

 

 

 

 

Marzo

 

Marzo di grandine

 

e raffiche taglienti

 

nelle notti palpitanti.

 

Edonistici lamenti,

 

ultimi a morire,

 

d’un’invernata gelida

 

di piogge incessanti.

 

Impavido resisti

 

alla tiepida stagione,

 

che già s’annuncia

 

nei giorni estenuanti

 

di malinconico calore.

 

Meriggi assolati,

 

prolungati,

 

si dileguano

 

in ostinati spasmi.

 

Incede Primavera,

 

sgombra di bollori.

 

Marzo indiavolato,

 

impazza di gragnola.

 

Sventola case

 

cenerine e gelate

 

da visioni bruciate.

 

Verdi montagne

 

di ghiaccio coronate.

 

Amori estinti.

 

Desideri indomiti

 

nei ceppi ardenti.

 

Nell’aria tremula

 

note di fiacchezza

 

logoranti.

 

Nell’erba brinata

 

le prime sfumature

 

di certezza

 

di un Risveglio

 

tra steppe popolate

 

di tribù di orsi

 

e renne vellutate.

 

 

 

 

Mentre scampi la mulattiera

 

Mentre scampi la mulattiera,

 

non posso vendere il cielo.

 

Che cosa è mai la mia vita,

 

senza il gaio ronzio delle api

 

o le docili vie di formiche

 

sul sentiero di crusca di grano?

 

Che cosa è mai la mia vita,

 

senza il triste lamento del gufo

 

o il grave gracidio delle rane

 

attorno ad uno stagno di notte?

 

Che cosa è mai la mia vita

 

senza il muto erotismo dei pesci

 

o le cozze sospese agli scogli

 

nell’olezzo di alghe verdastre?

Che cosa è mai la mia vita,

 

senza il giallo dei fiori nel prato

 

o i rifugi a cicogne ammaliate

 

sulle magiche sponde del lago?

 

Che cosa è mai la mia vita,

 

senza zagara di mandarini

 

o fragranze di gelsomini

 

negli erbosi terrazzi spagnoli?

 

Non posso vendere il cielo.

 

Comprarlo, sfruttarlo.

 

Schizzarlo di missili argentei.

 

Insozzarlo di nebbie nauseanti.

 

Appena un lustrino a colori.

 

 

 

 

Il cielo è mia madre e mio padre.

 

La terra non è mio nemico.

 

Questa crosta sotto i miei piedi

 

è cenere degli antenati.

 

Mentre scampi la mulattiera,

 

non posso vendere il cielo.

 

I fiori odorosi,

 

la lepre sfuggente,

 

la volpe birbante,

 

il cinghiale furente,

 

il topo da fogna,

 

l’asino brado,

 

la vipera nera

 

annusano ingordi

 

il tuo fresco di cielo.

 

Mi sfregano tutti.

 

l’ ingordo falcone,

 

le creste rocciose,

 

la lumaca schiumosa,

 

le essenze dei prati.

 

Non posso inventare

 

la tinta del globo,

 

il calore dei corpi,

 

il sole bollente

 

della mia mitica Sicilia.

 

Mentre scampi la mulattiera,

 

ogni insetto brusente

 

mi è sacro.

 

Non posso vendere il cielo.

 

Mi sento un lembo di terra

ed essa è ritaglio di noi.

 

Questo scolo di indegni liquami

 

scintilla nei fiumi morenti

 

il sangue dei nostri bisnonni.

 

Nel ruscello assopito nell’aria

 

eventi e ricordi di vita.

 

Mentre abbraccio le felci gementi

 

i torrenti mi sono fratelli.

 

Preferisco il frastuono del vento

 

che soffia sul lago spianato,

 

il respiro pulito di pioggia,

 

profumato dagli aghi di pino.

 

L’impennata di morbide querce

 

ospitanti calandre e cornacchie.

 

L’avvampante calura di stoppie

 

nei tramonti fumanti sul mare.

 

Mentre scampi la mulattiera,

 

non posso vendere il cielo.

 

Mentre bracco il linguaggio

 

che schiude i confini

 

il mio passo è tardivo.

 

Se i suoi sogni mi sono taciuti,

 

scorteremo i nostri pensieri.

 

 

 

 

Mi sono stufato

 

Una rocca inaridita,

 

minacciosa di verde,

 

digradante

 

a strapiombi inattesi.

 

Inabissato nei pinnacoli

 

di un caseggiato medievale,

 

mi sono stufato

 

di evocarti,

 

pensarti,

 

desiderarti,

 

premendo il cuscino

 

nelle notti infuocate

 

o la tovaglia insabbiata,

 

imburrata di sudore.

 

Un azzurro cedevole

 

si insinua nelle fondazioni giallastre,

 

che schizzano archetti svettanti,

 

a sesto acuminato

 

e a me non mi va più

 

stressarti di baci mancati.

 

Vivere di silenzi

 

non mi basta più.

 

E a te non piace più

 

giocare a nessun gioco.

 

Neanche al trittico

 

di soffici modulazioni sul levatoio.

 

Neanche alle parole mielate,

 

 

 

 

alle bugie compassionevoli,

 

agli occhi inesprimibili,

 

ai deliri inconfessati.

 

Tra il formicaio

 

tinteggiato sulla rena

 

mi riconosco solo.

 

Disperatamente solo.

 

Non ci sono più frecce

 

per striarti il cuore,

 

pietra squadrata e levigata

 

dalle onde incalzanti

 

sulla scogliera ostricata.

 

Il profumo della tua pelle

 

non mi pizzica anche ora il naso.

 

Ti sento ghiacciata,

 

geometrica e rigorosa,

 

disidratata ed essiccata,

 

narcisisticamente indifferente,

 

sfiancata e snervata,

 

stremata dalla passione.

 

Una falena incenerita,

 

senza voglia di lottare

 

per questo nostro povero amore.

 

Ma un effluvio di alga pulita

 

mi penetra i polmoni.

 

E mentre una brezza di zefiro

 

mi vezzeggia il viso

 

anch’io sono arrivato.

 

Un limone spremuto.

 

Un beccaccino spennacchiato.

Un gattino rifiutato.

 

Senza speranza di fusa.

 

Quasi la casa disabitata

 

a svettare sui fichidindia,

 

abbarbicati al vento,

 

nelle colline serpeggianti

 

a congiungere il golfo,

 

azzurro pallido,

 

nella parabola del crepuscolo

 

che va in fumo.

 

 

 

 

Miti

 

Domani radianti

 

di allucinazioni

 

tremano al chiarore

 

del pensiero.

 

Sentieri freschi

 

di verzura

 

si sperdono

 

tra asfalti

 

e sterpi secchi.

 

Nessuna fiducia

 

di rinnovo.

 

Nessuna vaghezza

 

di riflusso.

 

Miti adorati,

 

sfiorati

 

e mai incalzati,

 

baciati al primo albore

 

e al fiacco sereno

 

di quieti pleniluni.

 

Accarezzati

 

tra caligini felpate.

 

Miti fiabeschi

 

di una stagione sfocata

 

nella tremula memoria.

 

Sfuggono impenetrabili

 

essenze ed arcani.

 

Manca lo sbuffo

 

di ansanti galoppate.

 

Indolenza congenita

 

nei passi peregrini.

 

Foschie opache

 

tra i cirri turbinosi.

 

Miti di primavera,

 

avanzata nel declino,

 

palpitanti e vivi

 

nel fluido magnetico

 

dei vapori corvini

 

sprigionati da Osiride

 

sulla sostanza universale.

 

Miti inzuppati

 

di visibilii

 

nel rifiorire consapevole

 

di equilibri risolutivi.

 

 

 

 

Momenti

 

Momenti perduti.

 

Momenti ritrovati.

 

Teneri.

 

Inaspettati.

 

Momenti dolcissimi.

 

Roventi.

 

Appassionati.

 

Violenti.

 

Momenti languidi.

 

Focosi.

 

Bellissimi.

 

Con un retrogusto di vuoto.

 

Da colmare subito.

 

Per un cuore sincero.

 

Incosciente

 

ed ardente.

 

Momenti vissuti.

 

in un batter di ciglia.

 

Ma infiniti.

 

A lungo accarezzati.

 

Eternamente desiderati.

 

Difficili da cancellare.

 

Che ti fanno star male

 

se rimugini che possano sfumare.

 

 

 

 

Nei giorni.

 

Negli anni

 

ho cercato

 

cinque valori

 

per cui valesse

 

il vivere e il morire.

 

Negli anni

 

ho inseguito

 

il miraggio

 

di creare la Bellezza.

 

Nei giorni

 

ho penato

 

per una certezza.

 

Nei giorni

 

ho mendicato

 

una carezza.

 

Nei giorni

 

ho patito

 

per un segno

 

di dolcezza.

 

A vuoto

 

ho lottato

 

per riconoscere

 

la dignità della persona

 

e dell’onesto lavoro.

 

Inutilmente

 

mi sono roso

 

per una sillaba di tenerezza.

 

 

 

 

Dalle tue labbra avare

 

solo asciutti sospiri.

 

Temporalità e dimensione

 

di noi stessi finiti.

 

Non si piange la morte

 

radice di grazia.

 

Non esiste scienza

 

che redima l’uomo

 

senza amorevolezza.

 

Non c’è Fede

 

senza Speranza

 

e un mondo

 

senza luce di Dio

 

è privo di sogni.

 

Modernità

 

è avventura e trasgressione,

 

viaggio e costruzione

 

di mondi e rapporti nuovi.

 

Fecondare le patrie.

 

Navigare i deserti.

 

Lasciarli fiorire.

 

Come un gambo di rosa

 

tra rugiada e spine.

 

Senza Verità e Giustizia

 

questa mio stesso esistere

 

è una fandonia.

 

Ognuno è sbagliato

 

se rinuncia

 

ai propri ideali

 

e liquida

le sue persuasioni.

 

La libertà esige

 

convinzione.

 

Naturalezza antica.

 

Inventare le tende.

 

In assenza di nodi

 

si trasmuta

 

in disperazione.

 

Il bene ed il male

 

mi scivolano sopra,

 

appena un acquazzone.

 

Apparenze

 

dell’immenso vuoto,

 

per scarcerarmi

 

dalla sequela

 

dell’assurdo,

 

dello stordimento

 

e del dolore.

 

Nei giorni

 

ho desiderato

 

l’anarchica tensione

 

della responsabilità

 

e dell’autodeterminazione.

 

Nei giorni

 

ho compianto

 

il relativismo radicale

 

e il totalitarismo delle bandiere.

 

Nei giorni

 

ho rincorso

 

la solidarietà

 

e la tolleranza

 

degli eguali.

 

Il principio personalista

 

e sopranazionale.

 

Nichilista speranzoso

 

e sfibrato postminimalista,

 

snervato di affastellare

 

realtà insipide e banali,

 

ho alberato

 

per ingrati vicini,

 

per scovare la scorciatoia

 

che si inerpica

 

verso la collina

 

morbida di tulipani.

 

Per anni e per mesi

 

ho inciso le mie meditazioni

 

nei sassi della fiumara

 

ed ho fuso la mia corporeità

 

nella fluidità del mio pensiero.

 

Negli anni incessanti,

 

nei mesi sfuggenti,

 

nei giorni indefinibili,

 

con pazienza ho imparato

 

il rispetto e la stima

 

verso ogni creatura.

 

La perseveranza spirituale.

 

La purezza degli ideali.

 

L’amicizia duratura.

 

L’indulgenza nel criticare.

 

Il distacco da interessi meschini.

 

La schiettezza impegnativa.

 

La misericordia e la compassione.

 

La non violenza della Pace.

 

Il servire e l’amare.

 

L’audacia di rimanere.

 

Ed ora che sento

 

i miei giorni

 

vogliosi di fuggire

 

non voglio voltare

 

il groppone ricurvo

 

al sole bollente

 

che muore.

 

 

 

 

Nilo

 

La feluca ritaglia il fiume.

 

Una piuma sospesa nel vento

 

La mia mano appena a sfiorare

 

accarezza l’onda d’azzurro.

 

Stringo gli occhi nell’aria cecante

 

e risogno segreti e lussurie.

 

Ori, sfarzi, riti ed arcani.

 

Falco Horus, smagliante d’amore.

 

Obelischi stabili e forti.

 

Procedo estasiato e assolato

 

tra risucchi e scogliere deserte,

 

a strapiombo sull’acqua insidiosa.

 

Bianchi aironi e anatre nere.

 

Renelle dipinte di mare.

 

Gitanti a sfidare caimani.

 

Ambulanti alle navi e su rena.

 

Laghi Sacri a purificare.

 

Ippopotami esorcizzano il Male.

 

Formichieri per Nefertari.

 

Sacerdoti leopardati a modo.

 

Toth saggi e sagaci di Luce.

 

Scacchieri di giallo a grembiuli.

 

Ventagli a carpire i Segreti.

 

Consacrare la vita e la morte

 

nel Nilo che lava e deterge.

 

Questa terra è un dono del Fiume,

 

Dio Hapi dal ventre rigonfio.

 

 

 

 

Simbionte e viandante fellone,

 

stringo al cuore la linfa donata.

 

La speranza d’Amore e di Pace.

 

La Cultura e le Religioni.

 

Le Storie di gente comune.

 

Giochi antichi tra magiche rive.

 

Giulia inquieta di gioie e scoperte.

 

Tra barchette a corteccia e di foglie,

 

nella tersa purezza del cielo,

 

se anche Monica guarda e sorride

 

io ritorno straniero nell’Ara,

 

sulla soglia di miti perduti,

 

e sorseggio la mia nostalgia.

 

La tua acqua ha sapore di limo.

 

Di durevole genio del Bene.

 

Di Anubis, sciacallo nero,

 

che preserva la Pace alle mummie.

 

Di Athor e incanti musicali.

 

Di attacchi al rischio del Buio.

 

Corpi azzurri,velati di Nero.

 

Paradisi a ciascuna cultura.

 

Fedeltà di Isidi serene.

 

Volte blu a trapunte di stelle.

 

Fior di loto su teste di cobra

 

Babbuini per la saggezza.

 

Mari d’erbe e leonesse vitali.

 

Chiazze bianche e Chiavi di vita.

 

Pastorali come gazzelle.

 

Visi persi e anime lacerate.

 

Orecchie e nasi tagliuzzati

a smarrire identità pensose.

 

Serpenti a tre teste e due ali.

 

Tra lastre calcaree e turbini di rena

 

percepisco un sospiro divino

 

e resuscito carovane di sale,

 

misture d’avorio e preziosi.

 

Un Tempo fermo e spaccato.

 

Nel Sahara a corrodere il verde.

 

Nei caffé impolverati e fumosi

 

a bucarsi polmoni e narici

 

tra fragranze pregnanti di datteri.

 

Cieli estesi a avvinghiare il soffio vitale.

 

I crepuscoli inghiottono soli

 

e rischiarano il corpo infinito

 

nel deserto senza confini.

 

Ho bevuto anche l’acqua del Nilo.

 

Come Oceano sbuccia i pensieri.

 

Fugge l’Ora cullata nell’aria,

 

nelle sponde orlate di palme,

 

mentre albeggia la Storia dell’Uomo.

 

Se trangugio una duna oscillante,

 

intuisco eremi e asceti incalzanti

 

nel delirio di febbre bollente

 

a smacchiare lo spirito stanco.

 

La Parola è un rimbalzo infinito,

 

straziante follia di svanire,

 

nel  Nilo che cambia e non muta.

 

 

 

 

Ninnato

 

Naufragato.

 

Assorbito.

 

Magnetizzato.

 

Smarrito

 

tra incerti tracciati.

 

L’abisso

 

ti ha spruzzato

 

di piacere.

 

Asprigna viene

 

a riconquistarti

 

l’apparenza.

 

Continue

 

emanazioni

 

sublimate

 

si avvitano

 

alla scala

 

misteriosa

 

di Giacobbe.

 

In una filigrana

 

biondo oro.

 

L’assenza

 

recingerebbe

 

l’infinito.

 

Un delirio

 

a svuotarti

 

e a ninnarti

 

nel roveto

 

della luce.

 

Forse ti fermi

 

dove sei fuggito.

 

Tra un ciliegio fiorito

 

e le more saporite

 

di campagna.

 

 

 

 

Non conosco

 

Non conosco

 

 

i ritorni

 

Tra pietre

 

invecchiate

 

amarezza

 

di baci salati.

 

Distacchi

 

ripetuti.

 

Non conosco

 

i ritorni.

 

Tagli netti.

 

Decisi.

 

Una fine

 

scontata.

 

Mi aggomitola

 

un drappo

 

corvino.

 

Una parte

 

di me

 

si dissolve.

 

Ho donato

 

i miei anni

 

spenti.

 

Entusiasmi

 

regalati

 

alla rinuncia.

 

Una vita

 

smorzata.

 

Ossidata.

 

Arrugginita.

 

Fra selci

 

incanutite.

 

Scemati

 

nella logica

 

i fervori.

 

Uccise

 

dall’accidia

 

le ambizioni.

 

Odiata

 

l’incoscienza

 

naturale.

 

Farsesco

 

riprendo

 

ad allignare

 

nell’opacità

 

e nel mutismo

 

del mio cielo.

 

 

 

 

Ossessione

 

Ossessione dolce e amara.

 

Che mi invade all’interno.

 

Del mio essere

 

Della mia anima

 

Del mio corpo.

 

Sensazione incredibile.

 

Per niente sperimentata.

 

Approdata in un baleno

 

improbabile dello spirito vitale

 

Spasmodica.

 

Martellante

 

ma gradevole.

 

Un sentimento puro.

 

Non volgare.

 

Per un amore irreale

 

senza il tuo calore.

 

Ti distrugge.

 

Ti soffoca.

 

Ti provoca un magone.

 

Ma ti fa sentire viva.

 

 

 

 

Papaveri rossi

 

I passeri saltellano,

 

vispi e cinguettanti,

 

nell’ombra di canali

 

muschiati e rugiadosi.

 

Il sole infrange

 

raggi screpolati

 

e infiamma l’acqua

 

statica del lago.

 

Tra molli spighe

 

papaveri rossi.

 

Dolcezza subitanea.

 

Squilibri eterni.

 

Destato dalle favole.

 

Nel vuoto oscuro.

 

Angosciante paura.

 

Abissi sfiorati.

 

Essere maligno.

 

Sadismo innato.

 

Vagare cieco.

 

Nell’anonima folla.

 

Tanti valori.

 

Un Cristo in croce.

 

Nessuna Fede.

 

Penose risalite.

 

Geli infranti.

 

Sete di calore.

 

Meteore abbacinanti.

 

Reiterati dolori.

 

Gelidi sorrisi.

 

Zombare assente

 

tra volti opachi.

 

Penosamente tacito.

 

I pioppi dondolano

 

speranze di sogni.

 

Un ciuffo nero

 

su una ciocca bionda.

 

Due occhi azzurri

 

lusingano gioie.

 

Sguardi palpitanti.

 

Amore di terra.

 

Rossi amaranto

 

di sulla e trifogli.

 

Simbolici veli

 

di Sfingi e smeraldi.

 

Serpenti sinuosi.

 

Incantevoli Streghe

 

tra rossi papaveri

 

carezzati da brine.

 

 

 

 

Piramidi

 

Sulle dune turisti a formiche.

 

Nel ghigno burlone di Sfingi

 

sostanziale la Nave di Ra

 

per viaggiare dal Tempo alla Notte.

 

Carenza di verbi consueti

 

sulle labbra fresche di aranciata.

 

Ghiaie sapienti di Storia,

 

carezzate dal Sole che ammalia,

 

mi scompigliano e ottundono i sensi

 

in ebbrezze e tremori assoluti.

 

Taciturno tra dossi di sabbia

 

mi intingo nell’ultima luce

 

fiammeggiante ad eclisse nel disco.

 

Intensi fulgori rossastri

 

vibranti nel ciglio che picchia

 

sul viso a pioli di Cheope.

 

Fantastico prismi smussati

 

 

 

a dondolare l’anima assediata,

 

ondeggiante in sensazioni abituali,

 

tra saracinesche di granito

 

cunicoli e camere regali.

 

Tra le linee squadrate di Chefren

 

smaglianti pavimenti d’alabastro.

 

Invito a perdersi raccolto

 

nella malizia inconscia della carne.

 

Una stele sogna la Luce,

 

scarcerata da sabbie roventi.

 

Micerino in granito rosa,

 

rivestita di bianco calcare,

 

mi consola di resurrezione

 

e mi parla di un ciclo perenne

 

di morte, risveglio e speranza.

 

 

 

 

Se ti pensa

 

Se ti pensa intensamente

 

nelle notti insonni

 

è la vita matta e rubiconda

 

che torna a sussultare

 

nelle acque chete

 

della sua freschezza calpestata.

 

Amore è soffrire.

 

Provare ansia scontenta.

 

Sentire vuoto cocente.

 

Sentimento sublime.

 

Per dire.

 

Per dare.

 

Ricevere tanto.

 

Che nasce con noi.

 

Di noi si alimenta.

 

Si nutre dei sogni dell’altro.

 

Se la sua pelle sussulta

 

ai tuoi tocchi lievi

 

e le sue gote sbiancano

 

alle carezze penetranti

 

dei tuoi sguardi, assetati

 

di ricorrenti allucinazioni,

 

se ti scongiura,

 

a palpebre dischiuse,

 

di non profanare e scompaginare

 

le blande armonie

 

del suo imbambolato vegetare,

 

 

 

 

ha paura di amarti

 

di un amore spontaneo e passionale.

 

Amore è patire

 

momenti infiniti di pena.

 

Amore è memoria

 

spruzzata di pianto e di luce.

 

Se la bramosia alimenta

 

il panico caotico

 

della forza devastante del tuo calore,

 

forse è legittimo rinunciare.

 

Ma se ti sgrana dentro

 

i suoi occhi trasparenti,

 

ti sciorini

 

nei frangenti dei suoi boccoli

 

rilucenti e sediziosi

 

e nella promessa di tenerezza

 

che ti accartoccia

 

nullifichi ogni capacità

 

di intendere e volere.

 

Amore è arcano di dolce fantasma.

 

Amore è interezza di vita.

 

Sentimento pieno e totalitario.

 

Esclusivo e irrazionale.

 

Capace di farti scoprire

 

in un istante inimmaginabile

 

tutto il tuo senso interiore

 

e l’essenza di felicità

 

di un’esistenza intera.

 

Se ti insinui,

 

soffice e cedevole,

nei suoi quaranta sogni,

 

fantastici e ansiosi,

 

quasi verdi primavere,

 

eludi il rischio di rimanere

 

un ulisside straniero

 

che turba i miraggi

 

della fanciulla mielata

 

dalle braccia lattescenti.

 

Se non resiste

 

alla creatività chimerica

 

della purezza del vagheggiare,

 

una tenerezza così,

 

fuori canone e stagione,

 

probabilmente potrebbe valere

 

anche l’ardimento di azzardare.

 

Senza te

 

Senza te

 

non è

 

vivere.

 

Senza il tuo odore

 

frizzante

 

è

 

vegetare.

 

Affossarsi

 

in questo cielo

 

plumbeo

 

trasparente.

 

Qualche fioca

 

luce.

 

Come di lanterna

 

cimiteriale.

 

Questo mare

 

piatto.

 

Solo qualche

 

lieve

 

increspatura.

 

I mulini

 

monotonamente

 

lambiti

 

dal vento.

 

Il lamento

 

greve

 

delle poiane.

 

I fiorellini

 

bianchi,

 

ribelli

 

alla rasatura

 

squadrata

 

del prato.

 

Non hanno

 

sapore

 

senza la tua risata

 

squillante

 

e contagiosa.

 

Lo sguardo

 

luccicante

 

negli occhi

 

innamorati

 

e birichini.

 

Pronti a

 

bucarti

 

l’anima.

 

A sconquassarti.

 

A illanguidirti.

 

A squagliarti

 

la ragione

 

come burro

 

al sole rosso

 

di Sicilia.

 

A rendere

 

scintillante

 

l’inesorabile

 

battito

 

degli istanti

 

in attesa

 

di sfiorare

 

la tua pelle

 

calda

 

e invitante.

 

Di perdermi

 

nei tuoi baci

 

mozzafiato.

 

Negli orgasmi

 

lunghi

 

e ripetuti.

 

Nell’eloquente

 

silenzio

 

dei tuoi abbandoni

 

prolungati.

 

In cui

 

vivere

 

torna

 

ad essere

 

vivere

 

e sognare.

 

 

 

 

Sguardo

 

Uno sguardo vero.

 

Profondo.

 

Intenso.

 

Passionale.

 

Penetrante.

 

Lusinghiero.

 

Che ti affascina.

 

Ti strega.

 

Ti trasmette emozioni.

 

Sensazioni attive.

 

Al settimo cielo.

 

Occhi dolci e buoni.

 

Bugiardi e leali.

 

Sconvolgenti.

 

Pigre vegetazioni.

 

Equilibri scontati.

 

Pregiudizi e certezze.

 

Identità e storia.

 

Da incrociare.

 

Inseguire in lande trasgressive.

 

In cui leggi le parole.

 

Uno sguardo particolare.

 

Tollerante e comprensivo.

 

Che sa ascoltare.

 

Inconfessati dolori.

 

Vergognose speranze.

 

Intuire.

 

Ideali e utopie.

 

Infinite lacerazioni.

 

Inquietante e sbarazzino.

 

Ammiccante ed ambiguo.

 

Che ti invoglia a dare.

 

A fantasticare.

 

Ti stordisce.

 

Ti annienta.

 

Ti senti mancare.

 

Ti esalta.

 

Ti deprime.

 

Ti fa svettare.

 

Ti immerge

 

in un miraggio

 

da cui non ti vuoi svegliare.

 

 

 

 

Sicilia, my love

 

Non c’è il cobalto e lo smeraldo del tuo mare

 

nell’ansa grigia e tra il rullio dei motori.

 

Non c’è la levità del tuo cielo di vino,

 

né il giallo di ginestre soffoca oleandri di rosa.

 

L’urlo dei pescivendoli nell’aria salmastra

 

è solo un brusio, avvolto nella nebbia cenerina.

 

Ci sono checche, candi, scrima,

 

stemperati di spleen,

 

a rimpinzare consumistiche ingordigie e smanie,

 

ma non ritrovi la poesia dei balconi spagnoli

 

che arpionano le crepe corrose dal sole,

 

né il fiaccolare ardente del fiore di melograno,

 

le chiazze di trifogli, malve e fiordalisi,

 

tra spighe riarse e assordanti assedi di cicale.

 

La mia isola è divenuta un sapore ubriacante

 

di finocchietto, cipolla e pinoli,

 

trippa al pecorino, polpette di neonata,

 

cassate di ricotta e soporiferi vini divini.

 

Mitici viaggiatori e bellezze sovrumane

 

danzano tra asfodeli e arance d’oro,

 

in questa terra di luce e di sole.

 

Nei carrubi assopiti alitano antichi misteri,

 

immobilità assorte e sospiri di passioni,

 

ma, nelle ventate di inebrianti gelsomini,

 

incalza il mal di mare della Storia.

 

I templi greci e le pietre islamiche

 

intonano nenie di pace e d’amore,

 

mentre i tuoi figli abbracciano il mondo,

 

fratelli di lingua, sudore e lavoro,

 

trasformisti, impegnati, onesti e creativi,

 

tra spiazzi e istanti senza frontiere.

 

Sei il mio vero, eterno amore,

 

isola della Primavera,

 

il sogno che rifiorisce

 

ad ogni scappatella e defezione.

 

My love, l’amore mio inestinguibile,

 

favolosa nei lamenti del levante,

 

sulle chiome degli ulivi saraceni,

 

nelle carezze di brezza

 

alle spighe baciate dal sole,

 

nei tramonti vibranti

 

e negli incendi delle aurore.

 

 

 

 

Solo

 

Solo.

 

con il mio fardello

 

di amarezza.

 

Solo.

 

Senza voglia

 

di ripresa.

 

Solo.

 

Con il rimpianto

 

che m’affoga.

 

Un bolide

 

verso la scogliera.

 

Il vecchio pendolo

 

continua

 

ad oscillare.

 

Chiarendo

 

il senso

 

della fragilità.

 

La mia vita

 

è un rintocco

 

del tuo sogno.

 

Sano

 

illanguidisco

 

nel mio letto.

 

Mi ubriaco

 

del tuo freddo polare.

 

Nel lago

 

del tuo dolore.

 

 

 

 

Ad un passo

 

dal baratro.

 

Un serpente

 

di fuoco

 

vespertino

 

sui capelli

 

di seta.

 

Estraneo

 

al mio suicidio.

 

Lento.

 

Inflessibile.

 

Procedo.

 

Per una promessa

 

non è

 

più l’ora.

 

Imperterrito

 

assisto

 

alla disfatta.

 

La mia fortuna

 

concretizza

 

una sterile vita.

 

Non mi tocca

 

un sorriso adolescente.

 

Mi manchi.

 

 

 

 

Sponsale

 

Rintocchi di campane

 

negli occhi tremolanti

 

tra il riso e il pianto.

 

Rintocchi rigeneranti

 

sul cuore assiderato.

 

Stampigliature irresolute

 

d’armonia e rimpianti.

 

Indistinte e svogliate.

 

Quasi una cantilena

 

posseduta e consumata.

 

Consapevole attesa

 

di ripresa vogliosa.

 

Lievito polveroso

 

di tenerezza ignara

 

nelle iridi nitide.

 

Dolce svestirsi

 

di orgoglio remoto

 

per ritrovarsi

 

briosi e pimpanti

 

d’acqua cristallina.

 

 

 

 

Stoccatello

 

Il silenzio.

 

Frinire di cicale

 

Nei cirri vespertini.

 

Il sapore del bosco.

 

L’odore del sale marino

 

Nella distensiva frescura

 

Di un’oasi mediterranea.

 

Ad ogni curva tra i rovi

 

Il mare pare sfiorarlo

 

E lo sguardo scorre

 

Mandorli cimanti

 

Ulivi lussureggianti

 

Zagare di limoni.

 

Stoccatello.

 

Casale di stampo medievale,

 

Immerso tra vitigni

 

Pregiati e svettanti,

 

Agavi turchesi,

 

Grano sparpagliato nell’aia.

 

Ricotta di fascina.

 

Latte cagliato.

 

Nella frescura

 

Di vetusti pagliai.

 

Stoccatello.

 

Una finestra dischiusa

 

Sul mare africano.

 

Una porta spalancata

 

All’Europa evoluta.

 

La fragranza inebriante

 

Di aromi di pietanze.

 

Il sorriso intrigante

 

Dell’ospitalità siciliana.

 

 

 

 

Ti sento

 

Ti sento tintinnare sulla pelle

 

asciutta e bloccata da paura.

 

Non ho più forza

 

per altre magiche pazzie.

 

Non ho più forza

 

per altri dubbi estenuanti.

 

Ti sento pizzicarmi le ciglia

 

che stentano al chiarore.

 

Assente il desiderio

 

della tua pelle profumata.

 

Soffocato dall’angoscia

 

delle tue bugiarde riscritture.

 

Persino il pauroso bisogno

 

di sentire le tue vibrazioni

 

mi mette agitazione.

 

Ho solo voglia matta

 

di riprendere il passo

 

sonnolento e luccicante

 

di una bavosa lumaca.

 

Senza rischiare smarrimenti

 

in altri dedali sentimentali,

 

da cui sarebbe utopistico

 

riemergere occhi luccicanti

 

e sguardo fermo sulla luna.

 

 

 

 

Ti sfuggo

 

Ti sfuggo.

 

Non voglio

 

sognare

 

il sapore

 

profumato

 

delle tue labbra

 

vellutate

 

di rugiada

 

mattutina.

 

Non voglio

 

imprigionarmi

 

in altri amori.

 

Il mio cuore

 

è rimpinzato

 

di palpitazioni.

 

Amore

 

è un piacere

 

lancinante

 

e doloroso.

 

Mi basta

 

la dolcezza

 

riposante

 

dei tuoi suoni.

 

Fantasticare

 

sui colori.

 

Saperti

 

lontana.

 

Irraggiungibile.

 

Corteggiata.

Accarezzata

 

da amori.

 

Un sogno

 

ha la magia

 

che gli vuoi

 

attribuire.

 

Qualcosa

 

da non sciupare

 

nella caducità

 

dell’effimero

 

quotidiano.

 

Sanguinanti

 

e corrosivi

 

i buchi insinuanti

 

da rimarginare.

 

Meglio volteggiare

 

una farfalla

 

gialla e turchina

 

nei raggi impietosi

 

tra la zagara

 

dei mandarini.

 

Ti sfuggo.

 

Consapevole

 

della gracilità

 

del mio fuggire.

 

Non voglio

 

impallidire

 

nella pregnanza

 

del tuo odore

 

di passione.

 

 

 

 

Tutankhamon, Grande Casa

 

Nella tua bocca ardente

 

solo povere e stanche parole.

 

Il papiro racconta

 

una storia bruciante:

 

la dolcezza di un re piccino

 

svelato da un altro bambino,

 

che ha ripescato il gradino

 

liberando un asino sprofondato,

 

inciampando in un fossato

 

e si dice campato

 

cent’anni spensierato.

 

Tutankhamon, Grande Casa,

 

vissuto Eterno nel Giorno

 

Infinito, tra papiri smaglianti,

 

infiocchettati di Ibis e amanti,

 

forzieri, troni e poltrone

 

nel calore della rigenerazione.

 

Se ogni selce elargisce una vita.

 

la mia essenza non muore

 

in monotoni giri di Sole.

 

Le viscere in un legno dorato,

 

cassonetto canopico alabastrato.

 

Sarcofagi in bende di lini,

 

contigui due feti bambini.

 

Remi spiegati al vento

 

per volare nel firmamento.

 

Arche quarzitate,

 

paste vitree policromate,

 

amuleti e ghirlande infiorate,

 

lapislazzuli e grani ceramicati,

 

quasi manti di piume stilizzati.

 

Il Dio Anubi, sciacallo meschino,

 

fa la guardia in scialle di lino.

 

Salvo ghirba in assenze avvilite,

 

in recinti serrati a passioni.

 

Non mi giova parlarmi di Grazia.

 

Uno solo, socievole e onesto,

 

vale più di dieci anni egoisti.

 

 

 

 

Un amico veramente speciale

 

Ho perduto in un solo bagliore

 

un amico entusiasta e vitale,

 

che con volontà eroica e tenace

 

ha lottato per sconfiggere il male.

 

Ora vaga in un vicolo cupo

 

alla fioca luce lunare,

 

senza scienza di cosa lo attende

 

tra le foglie ingiallite dal vento.

 

Un sorriso aperto e cordiale.

 

Una singolare capacità comunicativa.

 

La battuta a tono ed arguta.

 

L’umorismo fine e garbato.

 

Forte, consapevole ed umano.

 

Capace di ascolto e di soluzione

dei problemi di tutti i suoi amici.

 

Una vita per il lavoro.

 

Per i figli adorati e la gaia Patrizia.

 

Per i deboli e i bisognosi.

 

Con passione e dedizione.

 

Con impegno e abnegazione.

 

Verso Vito, Giulia, Robertina,

 

Nicoletta e Carolina,

 

mai intransigenza eccessiva.

 

Né uno scatto d’ira.

 

Sempre la sua dolcezza,

 

e la sua bonarietà tendenziale.

 

Ogni giorno ha seminato amore.

 

Ordinato, onesto, sincero, leale.

 

Un ragazzo veramente speciale.

 

Generoso, spensierato ed allegro,

 

dignitoso, bello e cordiale.

 

Sempre a fianco senza pretese.

 

La tua morte non è una finzione.

 

Non restare senza parole.

 

Riscrivi la storia con ribellione.

 

Già tu vaghi per cupi meandri,

 

abbagliato da abissi velati.

 

Hai reciso le funi alla vita

 

e ti adagi su un chiuso naviglio,

 

le gambe ciondolanti dalla barriera.

 

Piangere è legittimo e normale.

 

Non solo per sfogo e consolazione.

 

Il mio cuore è così sfinito

 

da non potere più volteggiare

 

nel tramonto delle emozioni.

 

Perciò sogno che tu ci rinnovi,

 

con il tuo straordinario amore

 

ed il tuo ottimismo paradossale.

 

 

 

 

Un Egizio triste

 

L’uomo Egizio è triste nel sole,

 

ma ride negli occhi di ogni creatura.

 

Dolce ospite e pellegrino,

 

vagabonda in periferie ad alveare,

 

traffica ansioso in banlieue marginali

 

discordanti tabelloni promozionali,

 

devotissimo in scorciatoie trasversali.

 

A metà tra passato e futuro,

 

esorcizza rovine e barbarie,

 

povertà e schiavitù ricorrenti,

 

tra splendori ed argille fatiscenti,

 

obelischi a guglie appuntite,

 

geroglifici e verità sbrindellate.

 

Nel deserto d’oro e petrolio,

 

tra assillanti richieste di mance,

 

un popolo onesto e ospitale,

 

prosternato nella preghiera,

 

smarrito d’incerto futuro.

 

Rispettoso di leggi e precetti,

 

sapiente di lettere e norme,

 

l’uomo Egizio professa la Fede,

 

carità, devozioni e astinenze,

 

ma si perde nei rossi semafori,

 

nelle donne che scoprono il velo,

 

nel ritmo delle trasmutazioni.

 

Né borghese, né grande Maestro,

 

né bramoso di fango ed oro,

 

sovrastato e protetto dal Falco,

 

generato dal figlio di Ra,

 

preservato da Hathor ed Iside,

 

ha negli occhi Tauret enigmatica,

 

i sistri vitali di Kawit,

 

mogli, amanti e concubine.

 

Un gabbiano nell’uragano.

 

Nei sarcofagi di quarzite amaranto,

 

vagheggiando graniti per letto,

 

gigantesche ossature sanguigne,

 

carcasse di sassi parlanti,

 

mentre sfrangia l’istante presente.

 

 

 

 

Uomini

 

Uomini come te

 

ne ho conosciuti.

 

Negli occhi cristallini

 

lo spettro della morte.

 

Nelle ciarle amarognole

 

ricorrenti titubanze.

 

Odiano l’inciampo

 

e si insabbiano incessantemente.

 

Hanno sperimentato il capitombolare

 

e si incaponiscono ripetutamente.

 

Rincorrono orizzonti

 

che mai scoperchieranno.

 

Per niente si deliziano

 

o si fanno muti.

 

Le tue pupille sono secche

 

e non hanno mai pianto.

 

Portano la bruma cenerina

 

di chi ama e non discerne.

 

 

 

 

Vivere

 

Cento volte si gioca e si perde.

 

Ogni ora bruciata è sciupata.

 

Ogni donna sfuggita amarezza.

 

Ogni terra ha il suo spicchio di cielo.

 

Fiori rossi hanno prati verdastri.

 

Vivere è stupefacente,

 

esaltante di gioia

 

e dormiente pensiero.

 

Se incroci una pausa,

 

se l’ora ristagna

 

in fondo alla nausea,

 

se l’acida pioggia

 

ricaccia indietro,

 

se osservi imparziale

 

l’alveo inquieto

 

di gente che ride,

 

se mediti, pensi e ricordi

 

vivi e sarà un’altra cosa.

 

Un bimbo gioca sereno

 

nei prati cosparsi di rovi,

 

due giovani fanno l’amore

 

al sole cocente di luglio,

 

un uomo intasca dei soldi,

 

un altro protesta di fame.

 

Esalta scendere in piazza,

 

vitali e allucinati,

 

correndo schiamazzanti un sogno.

 

Una capriola al monumento dei caduti

 

e un fiore in bocca alla baionetta.