Un Egizio triste
Il mondo in versi
Proprietà letteraria riservata
ISBN......
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Enzo Randazzo
Un Egizio
triste
Poesie
Iuculano
Prefazione
Esaltante e smitizzante. Unico e poliedrico. Enzo Randazzo, anche nella sua ultima fatica letteraria, dimostra la sua anima multiforme, sfaccettata. Multiforme sì da procedere nel solco della tradizione, della sua tradizione (quella di “Petali di sole”), in un continum di temi e di motivi, ma, al tempo stesso, osare altre e più arditestrade.
Ai temi consueti (la natura, la sicilianità, l’anima e le sue sensazioni), retaggio anche delle sue passioni per i poeti e romanzieri della nostra terra, il poeta aggiunge, stavolta, dell’altro. Anzi: l’Altro. Questa volta c’è Lui, Dio, l’ “uomo vincente”. L’uomo che vince su tutto, sì. Dio che già in passato c’era in Enzo, sia nella prosa (“Fantasima Saracina”) che nella poesia precedente.
Non è una presenza episodica: stavolta permea ogni lirica, ma senza mai essere troppo evidente, troppo “esteriore”. Ogni fede di Dio è adolescenza, dice Enzo: come un ragazzo che abbia un’ingenua passione e non sa di averla.
E c’ è la Fede, appunto. Sempre in punta di piedi, mai sbandierata. In tutta la raccolta ricorre apertamente meno di una decina di volte, ma in realtà è sempre presente, come un fiume carsico che silenziosamente, in lunghi anni, nella prosa e nella poesia, ha scavato il suo letto e or affiora delicatamente ma fermamente, insistentemente. E non per essere derisa, sbeffeggiata o smitizzata, come altrove. Talvolta sentita come mutilazione, talvolta come fede incrollabile che porta il poeta a credere nel mondo, nella natura, in se stesso, nell’Uomo, nei valori personali (come nella bellissima “Democrazia”): “Valori per cui valesse il vivere e il morire”. In ogni caso, più salda e diversa da quella di “Petali di sole”.
E c’è il dogma, il non sapere, compiaciuto (“Non mi va di sapere”), la nescienza, l’assenza, il non essere: tutti motivi riletti da un’anima inquieta, preda di un martellamento spirituale, di deliri inconfessati, che vaga da angosciosi tormenti all’impegno
Per Enzo l’esistenza è il bisogno di sognare: occorre ritagliarsi imperiosamente spazio per farlo, altrimenti
non lo si fa. Occorre, quindi, “trovare lo spazio d’illudersi e sognare”; diversamente non si vive. Anche se Randazzo è consapevole, consapevolissimo, del fatto che c’è chi sogna di non sognare. Ma lui no. Lui ne ha bisogno. Per Enzo “un mondo senza luce di Dio è privo di sogni”. E un mondo senza sogni non è concepibile.
Come non è concepibile un mondo senza amore; l’amore deve esserci, altrimenti si approda ad un mondo banale e stupido, come quello dei circoli borghesucci di “Illuminata fantasia”, magistralmente descritto. Sono le passioni che guidano il mondo, non la banalità, la vacuità: se non c’è amore, ma solo apatia, allora è preferibile l’odio, l’odio feroce che è, anche esso, indice di vita: “Almeno sei sanguinante e viva / se vomiti un fiume di maledizioni.” L’odio, quell’odio che già si era presentato, anche se evocato blandamente e fugacemente dalla memoria offuscata, anche in Fantasima. Ma che qui viene elevato a sentimento, a passione.
Raccolta di temi inusitati, o non approfonditi in precedenza, dunque. Ma anche di temi consueti a Randazzo: la natura, in primis. Tema principe, senza dubbio. Come sempre personificata (mirabile la “sabbia avvizzita” o il “pallore della luna” o, ancora, “le stelle perplesse” e le “felci gementi”), ma anche cristallizzata in straordinarie immagini pregne di stimoli classici (Orazio su tutti: bellissime le bianche cime innevate, solo per fare un esempio), ma anche moderni (forse Baudelaire? Rimbaud?), specie ipoeti maledetti. Come definire altrimenti, infatti, il “fetore che imputridisce ogni passione”, o il “sangue bruno e corvi neri”?
E non soltanto la natura risente di quest’influsso letterario: balzano agli occhi, infatti, immagini “forti”, come quella apertamente evocata da “Un’osmosi di arsenico ed eroina” in cui piombiamo in certe liriche. Suggestioni intense che per un attimo ci stupiscono e ci stordiscono. La raccolta spazia, infatti, da sensazioni mentali (talvolta delicate, talvolta incisive) a suggestioni geografiche (anche molto circoscritte, come quelle autobiografiche), a stimoli polisensoriali che diventano spunto per altro. Voli pindarici , partendo dal contingente, approdano a lidi lontanissimi: le sensazioni, per esempio. In effetti, le sensazioni dominano tutte le liriche: sensazioni visive, olfattive, tattili…. Evocate daun ricordo, lontano ma bruciante, da un suono, da un pensiero “libero”, da un paesaggio, da una situazione, da uno stimolo dell’anima.
Impressionante la mole di lessemi relativi ai sensi, alle sensazioni, anche intime, anche ineffabili, inesprimibili: bellissimo il “sobbalzo nel cuore” con cui si apre la raccolta, o i “marosi struggenti” che ci coinvolgono nell’anima. Degne di nota, anche, le suggestioni dettate dalla Morte, Colei che mette fine solo al corpo e non a tutto il patrimonio di idee, emozioni e sentimenti, che permane eterno. In tal senso, evidentissima, a mio avviso, l’influenza dell’antologia di Spoon River: a volte scoperta, come nella bellissima lirica“Un amico veramente speciale”, a volte timidamente presente, come nel bellissimo epitaffio solo immaginato e non scritto su “Una lapide / al povero e al negro / ammantata / di gigli e di rose”. In ogni caso, sempre operante, e in totale sintonia con la Fede e col Dio di cui è intrisa tutta la raccolta. Anche qui, come sempre, risplende il solito, indefesso atto d’amore verso la propria terra: dai romanzi “La Palude”, “Sicilia, my love” e “Fantasima Saracina”, fino alla raccolta poetica “Petali di sole” e, soprattutto, a quella odierna, come sempre la Sicilia campeggia su tutto, con i suoi luoghi, “morbidi” e solari, i suoi odori, i suoi colori, le sue passioni, le sue arsure, “i suoi profumi aspri di limoni e mandarini”. Luogo mitico della fanciullezza e della maturità del poeta, cui egli tributa un ennesimo, aperto omaggio (oltre agli infiniti “doni subliminali”, sparsi in tutta la raccolta), elogiando apertamente“il sole bollente della mia mitica Sicilia”.
Esemplare, come sempre, il linguaggio, cui il poeta dedica particolare cura. Lessico ricchissimo, anche tecnico, e lingua risemantizzata a proprio uso: “scoscientizzare”, “nescienza”. Neologismi che non turbano affatto neppure il lettore più tradizionalista, tanto sono idonei e unici per esprimere il concetto che si vuol farpassare, altrimenti inesprimibile.
E che, dire, poi, degli accostamenti lessicali arditi? L’amore di Enzo per la natura lo induce ad utilizzare spesso nessi sinestetici che colpiscono nel profondo (“il vento della notte si tace”, “Verdi montagne di ghiaccio coronate”, “il tuo fresco di cielo”, “ruscello assopito nell’aria”, i “tramonti fumanti sul mare”) e ossimori che non ci aspetteremmo, ma che suonano meravigliosamente efficaci alle nostre orecchie: bellissimi i “mari erbosi”, le “taglienti tramontane”, il “relativismo radicale” o l’espressione “navigare i deserti” o anche il “Rintronarmi e stordirmi / dei tuoi eloquenti silenzi”.
La raccolta è anche, da punto di vista lessicale, “cromaticamente vivace”, e spazia dai fiori rossi ai prati verdastri, alla bruma cenerina, alla farfalla gialla e turchina, alle agavi turchesi, al cobalto e allo smeraldo del mare, al sole rosso di Sicilia e ai rossi papaveri e al golfo, azzurro pallido. Un azzurro cedevole si insinua nelle fondazioni giallastre. E non viene trascurato neanche il lato “gotico”, lugubre, delle sfumature cromatiche: la vipera nera, il sangue bruno e corvi neri, fino ad arrivare a scorgere “nel bianco e nel nero falde di sangue arrossato”. Ma su tutto il lessico, indubbiamente, dominano le parole attinenti al campo semantico della luce, applicate a qualunque sfera: natura, suoni, sensazioni, realtà, città, luoghi. Non è una novità, in Enzo. Ma, questa volta, tali lessemi suonano nuovi, diversi, quasi il portato esteriore di qualcosa che c’è dietro. Il significante di un Significato nascosto. Che c’è, ma non si vuole rivelare. Ma che illumina tutto il Creato, il suo Creato. E i termini lessicali “luminosi”, in tal senso, non servono solo ad illuminare la poesia di Enzo: fanno sentire il calore, la Luce di Dio, a tutte le sue creature. Testimoniano, ancora una volta, la sua Fede.
Grazie mille ad Enzo per questo nuovo dono che ci ha fatto. Un dono che per lui, sempre propenso a scrivere e a mettersi in gioco con la prosa (anche con tematiche “scottanti” come in Fantasima Saracina o “mentalità ibride” e difficili da sviscerare, come in Sicilia, my love) ma molto, molto pudico quando si tratta di esporsi con la poesia, non deve essere stato facile pubblicare. Perché una raccolta poetica, sia essa frutto di un’unica, intensa e feconda stagione creativa, o di più fasi della propria vita, inevitabilmente svela “i panni intimi e privati dello scrivere poetico”.
La raccolta è organizzata in semplice ordine alfabetico. E questa è certamente una scelta indice di pudore personale, sempre insuperato davanti alla poesia di Enzo Randazzo, che guarda alla realtà con un sorriso istrionico e apparentemente indecifrabile: lo stesso sorriso bonario e malinconico de “L’uomo Egizio [che] è triste nel sole, ma ride negli occhi di ogni creatura”.
Come sempre, unico e poliedrico, univoco e polisemico.
Daniela Rizzuto
Abu Simbel
Squarci di cielo ovale
su rami predoni di sabbia
nel deserto profondo del Male.
Piramidi erette dal vento.
Montagne di sabbia avvizzita
e pezzetti di vita
tra le case in mattoni crudi
di un fantasmagorico villaggio nubiano.
La Nubia mi parla
la Storia Universale ,
ma il Tempio sull’acqua
è un sobbalzo nel cuore.
Segato alla base
per vivere Eterno.
Sul lago a fiordi merlati
il Falco sfreccia alato
sui cobra eretti e attorcigliati
a dare la Luce
a babbuini seduti
su gola egizia
a salutare il chiarore di sole.
Sorvola e sovrasta
colori di terra riarsa.
Un coccodrillo assetato,
a fauci taglienti,
si beffa bonario di Franca rilassata.
Nell’aria di fuoco
barlumi di palme.
Senza api sussurranti
scarseggiano fiori verdeggianti
ed alberi nudi di pelo
si protendono al cielo.
Ramsete, due volte incoronato,
proietta un soffio vitale
nel mirino del Merkhet squadrato,
se nasconde qualche concubina
nell’ombra dolciastra
della canicola rossastra.
I raggi inclinati
vezzeggiano il Dio
estratto dal monte
in un unico blocco.
Un uomo vincente
in mille battaglie
trafigge gli Ittiti
e libera il Fiume.
Potenza di bighe,a piedi levati,
slanci di braccia, su Ittiti sfiancati.
Un tronco racconta
il segreto del grano.
Si flette e rimbomba
in marosi struggenti.
Un Amore da Nilo con Nefertari,
potente come un Faraone.
Più bella tra belle,
il viso sottile, abbagliante al mattino,
i seni torniti su pelle di ebano,
la chioma a spire sul corpo serpentino.
Nella buccia limpidamente smorta
la voglia di donarti già repressa.
Fra gli occhi di Athor,
nel cuore immoto,
sogni di gioia incombente
con il sistro sporgente
su un fiore di loto.
Nella persona incerta e provocante
pena di ardori e pregiudizi.
Arde l’incenso acre
sulle barche sacre
in albe brucianti
di leoni amanti.
Alitare e sentire.
Non mi va di sapere.
Mi basta una Fede.
Nella coppa del vino,
tra le corolle scarlatte del sentiero,
niente più di angosciosi tormenti.
Nell’impegno di esistere e sognare
solo l’inerzia della fatica apicale.
Agonia
Angoscia amara
nel viso smunto
e logorato.
Agonia adorata
di sguardi stregati
e lancinanti.
Agonia di tormenti
nel rullio
dell’immaginazione.
Contemplo
un sentimento
asfissiato sterilmente,
violento nel barbaglio
delle tue pupille,
rovente nel sussulto
della carne tua.
Almeno
È l’indifferenza
il mio nemico mortale.
La lotta violenta e dura
rafforza ogni mia fede.
Preferisco il disprezzo,
l’odio feroce e rancoroso
nei tuoi occhi inimitabili,
un tempo luccicanti
come un diadema arabescato,
spenti oggi della luce del domani.
Specchiarsi nel tuo grigio,
chiuso alla vita e all’illusione,
è uno strazio lancinante.
Le albe non rosseggiano
aurore violacee sull’onda bruna,
né stendono drappi di viole
tra le gramigne voraci,
incapaci di spiccare il volo.
Preferisco il tuo urlo di denigrazione,
alla violenza su una storia,
incisa nella carne ancora palpitante,
vibrante alla dolcezza della dita.
Almeno sei sanguinante e viva
se vomiti un fiume di maledizioni.
Almeno turi il naso al suo fetore
che imputridisce ogni passione.
Al suo marciume razionale,
inevitabile e puntuale come ogni sera.
Mi viene insostenibile il morire.
Non sopporto il coma della dolcezza.
La tua pelle sempre più secca,
senza il tepore della mia mano.
Gli occhi infossati e vuoti,
perduti nell’orizzonte separato.
Voglio ubriacarmi ancora
alla fontana della tua follia.
Almeno qualche strada clandestina.
Almeno un tuffo al cuore imbalsamato
ad ogni angolo di cielo turchese,
nell’acciottolato bagnato di rugiada.
Amsterdam
Una città dolcissima e vibrante.
Immersa nelle acque chete
dei suoi canali pigri e verdastri.
Pizzicata da nebbioline trasparenti
nelle albe umide e pacate.
Dormiente, soporifera e noiosa,
senza la sua anima
turbolenta e trasgressiva.
Di giorno la percorrono curiosi
e lupi affamati di peccato.
Occhi perduti nel vuoto.
Braccia traballanti d’astinenza.
Ritmi spasmodici d’attesa.
Un quasi uguale viscido e inquietante.
Come il fruscio di un ramarro
sotto le foglie fitte e camaleontiche.
Nel sole assopito sui canali
sfavillano lanterne e fanali.
Nelle vetrine di bambole nude
un sorriso metallico di posa.
Corpi perfetti, freddi e statuari.
Laccati come pupi di martorana.
Sbandati e ricercatori esperienziali,
di ogni tipo, tempo e stagione.
Tinte ricercate nelle sfumature
di chiome intrecciate o raspate.
Abiti lisi, stracciati o rattoppati,
esibiti con civetteria trasandata.
Amsterdam vive nella notte.
Negli angoli bui e tenebrosi
appena rischiarati da un lampione.
Nelle luci rosa ed arancione
dei suoi coffe shop ambigui ed invitanti.
Nella quieta tenerezza di coppie gay
finalmente libere di scivolare
le sue calli strette e variopinte,
intrecciando le dita delle mani.
In una viuzza affollata e colorata
due chitarristi trovano la scena.
In un angolo appena nascosto
quattro bulli tenebrosi vendono
miscele esplosive e dannate
di attimi di vita fuori tono
e certezze di morte della persona.
Tutta la follia dell’universo,
la creatività di una generazione,
ubriaca di utopie e rinunce.
Di un’altra affannata a cercare
senza ormai neanche trovare
lo spazio d’illudersi e sognare.
Tutta la pazzia frenetica e vitale
dello spirito dionisiaco e marginale.
Si ritrovano nel firmamento ossessivo
del tuo paradiso artificiale.
Nella dimensione onirica
di felicità malinconica e fuggente
come il flauto piangente
del messicano accovacciato.
Indifferente al turbinio
di un passante frettoloso e sorridente.
Atomo
Atomo schiantato
in corpuscoli
assenti.
Lemuria
naufraga.
Ebbra di gioie
e solitari
tumulti.
Villoso
antropopiteco.
Punto
senza fine
dell’universo
inconscio.
Empirei nucleari
nel futuro.
Uggia
perenne
nel tempo.
Vano sollievo
una tenue
illusione
subito sepolta,
nel deserto
di renelle
incenerite.
Barba.
Un amico ha la barba folta
e negli occhi un assurdo dolore.
Un pittore senza equilibrio
che dipinge figure bestiali.
Musi bloccati in cristalli.
Pupille cerchiate di donne.
Il sole non ha sfumatura.
Il cielo diviene più ombroso.
Le stelle punte sbiadite.
Le vette colore di terra.
I campi arancio di grano.
I laghi stagni di pietra.
Raffiche d’aria tra tuoni.
Pioppi spogli di suoni.
Foglie secche nel gelido vento.
Sangue bruno e corvi neri.
Una smorfia di debole vinto.
Un sorriso spoglio d’amore.
Sfiducia di corpi concreti.
Vomito, buio, squallore.
Fiacca di vuoto rimuginare.
Nessuna ricerca di idee.
Morto il bisogno d’azione.
Uno stupido antisociale.
La noia, lo schifo, l’oblio.
Finirà di sicuro suicida
o sarà celebrato dal mondo.
Basta
Non mi basta più
proiettarsi
e svestirsi
di vestimenta usati.
Non serve
a capire
il senso eclissato
nei giorni
lambenti le gioie
e gli umori alterati
di selci pensanti.
Non mi basta più
ubriacarmi e intontirmi
delle tue asciutte parole.
Rintronarmi e stordirmi
dei tuoi eloquenti silenzi.
Scavare e sterrare
in un guscio di brace
per riscoprire
nel bianco e nel nero
falde di sangue arrossato.
Creare
è possessione
se insegui
praterie inaridite,
traboccanti di pianto.
Una frenante esitazione,
sapida di stagioni
inumate nella ghiaia.
Un selvaggio rimescolio.
Un’annosa impazienza
di dominio.
Non mi va più
rimestarsi d’immaginazione,
smembrato il pensiero maligno,
se puoi ricomporre
i ciottoli sparpagliati
di un’epopea
di equivoci e rancori.
Una lapide
al povero e al negro
ammantata
di gigli e di rose.
Ti desti allucinato
da un delirio,
incroci occhi spiegati
nei tuoi occhi,
ti plachi nella dolcezza
delle labbra.
Non più derelitto
in questa valle estranea.
Tornando puoi ricominciare.
Basta il calore
di una mano buona
vibrante
nella tua conscia
di vita.
Buccia di verzura
Di duro in te
solo una scorza di fogliame.
Un gioco mutevole
di ombre turchine.
Senza trucchi.
Un dolce pasticciotto
di ricotta di capra.
Con la sua finezza.
Senza l’immancabile selvaticume.
Non un bastardino spelacchiato
abbandonato al cielo grigio chiaro.
sculettante e cedevole
ad ogni misericordiosa moina.
Né un mastino alla museruola.
Sei un’ape che sussurra
mentre cerca il miele.
Puoi anche pinzare per amore.
Con un brivido bruciante
di dimenticato incantare.
Diavoletto tosto e recidivo,
se ti saltello sulle punte,
come il ragazzino birichino
che ormai non sono,
il sole sulle rive amaranto,
spezza frammenti di luce.
Ed è una danza di ribellione.
Un’osmosi di arsenico ed eroina.
Un trip rapido e nauseante.
Capace di scoscientizzare.
Sognando infiniti pendii.
Sorrisi incandescenti nei tramonti.
Frinire di assordanti cicale
tra bianche cime innevate.
Non è inservibile parola,
se mi soffermo a frusciarti
ineffabili delicatezze argentine
sulla tua buccia di verzura.
C’è
Un marciume
brunastro
nell’anima
appannata.
Un annoso sgomento
di vivere bene.
Una gioia
selvaggia
di dare dolori.
C’è qualcosa
del bruto
sotto il sorriso.
Un istinto
bestiale
che torna
slegato.
Con te, Surfinia
Con te senza riserve.
Irruente e verace
Altruista e spontanea
Aperta a sperare.
Un fulgido baleno
Un’illusione
Di vita e batticuore
Rapida e sfuggente
Come un temporale
Di volubile marzo.
Non voglio pensarti
Con le labbra chiuse
Tappate da vili maramaldi
Lo sguardo mortificato
Dall’ultima delusione.
Una ferita bruciante
Per chi crede nell’uomo
Vive per gli amici
Esce di casa
Nel mattino rosseggiante
Per sentirsi accettata
Nella bellezza che ha
E non si rassegna
A spegnere nel fango
Dell’ipocrisia contorta
E nei sottili formalismi.
Una donna vera.
Forte e coraggiosa
Creativa e sicura.
Per gli altri.
Non già un misero
Calcolo egoistico
Di cui non sei capace.
Tutto quanto con te
Senza calcoli e strategie.
Con la tua follia
D’amore per le creature
Con il tuo genio sgretolato
Con la tua fantasia
Che sciorina dolcezze
Incomprensibili ai gretti
Meschinamente invidiosi.
Anche nei nuovi orizzonti
Svettanti nelle tue nuove albe
Di profumi di salvia
E cinguettii di cardellini.
Democrazia
Nei cortili acciottolati
schizofrenia di parole.
Di guerre atomiche e genocidi.
Di bastoni e granate.
Di pietà millantata.
Di morti di sonno.
Di carrierismo diffuso.
Di interessi corporativi.
Di cieli vuoti.
Di menzogne intenzionali.
Di plutocratiche videocrazie.
Di privilegi per oligarchie.
Di diritti negati.
Di speranze stritolate.
Di filosofi assenti.
Di verità assolute.
Di nichilismi relativi.
Tra i pinnacoli,
dardeggianti al sole,
rosoni multicolori.
Democrazia è rispetto della natura.
Garantire la vita alle api.
La purezza alle acque dei fiumi.
L’equilibrio dell’ecosistema.
Democrazia è condivisione.
Intervenire nelle decisioni.
Scegliere il proprio destino.
Mirare a interessi comuni.
Nelle piazze ariose
Democrazia è discussione.
Ragionare insieme.
Individui coscienti.
Menti produttive.
Fede in valori personali.
Allegria di scoprirsi in errore.
Democrazia è libertà.
Di pensare, esprimersi ed agire.
Di associarsi, ideare e attuare.
Di muoversi senza frontiere
Democrazia è tolleranza.
Accettare il diverso da noi.
Amare anche altri colori.
Imparare da un bimbo spontaneo.
Diffidare di mandati divini.
Assolvere ai propri doveri.
Richiedere a tutti un impegno.
Nella coscienza del proprio ruolo.
Democrazia è altruismo solidale.
Preferire il ciclista che casca.
Sostenere l’inerme e l’escluso.
Capire un’idea che oggi perde.
Rispettare i diritti di tutti.
Democrazia è informazione.
Parlare un linguaggio di eguali.
Discorsi accurati e puntuali.
Lasciare svelarsi le idee.
Democrazia è giustizia.
Un arbitro equo per tutti.
Vigoroso con prepotenti e forti.
Indulgente con poveri e deboli.
Ma democrazia non è eredità.
Successione scontata di beni.
Paranoia di disillusioni.
Letto morbido sul quale poltrire.
Democrazia è conquista quotidiana.
Ridiscutersi ad ogni mattino.
Adeguarsi ad un mondo che cambia.
Rinnovare speranza nell’uomo.
Francoforte
É dolce questo fluire
quieto e rasserenante
di battelli che slittano
sul Meno chiazzato di barche.
Gli intarsi rosa e rossi
sulle facciate ricamate,
protese in alto, ardite,
verso pinnacoli goticheggianti
sembrano sospensioni del pensiero.
Svettano, tersi e dominanti,
grattacieli vitrei smaglianti.
Vecchie e nuove magie.
Tensioni complementari.
Non come i frastuoni inconcludenti
della mente spossata e intorpidita
tra scontate illusioni di certezze
e palpitanti salti nel buio.
La geometrica linearità
delle tue strade silenziose
in questa domenica estiva.
Una città denudata
della sua anima commerciale.
Solo qualche scampolo sbrindellato
della sua vasta umanità,
tinteggiata, tollerante e policroma,
nell’indifferenza degli accoppiamenti,
ma rigida, tedesca e severa
nei musi duri e negli occhi neri
tra le ogive di terse cattedrali.
Sconterò la prudenza delle scelte
tra le arsure sonnolente dei miei campi,
quasi fili di fumo altalenanti,
delineanti possibili fantasmi
di paure mascherate di arditezze,
nelle albe brucianti di passioni.
Intanto bevo questa frescura
di foreste infiorate e inusuali.
Assaporo la carezza del chiarore,
lieve tra le foglie della quercia
e splendori verdi e azzurri,
che mi sfiora e mi dà tepore.
Ripercorro le strade del mondo,
dove il sorriso è parco e avaro,
ma non tradisce un ghigno sardonico,
né la piega amara dell’ipocrisia,
né la vile acquiescenza del terrore.
Dove sorridere è aprirsi inconsapevole
allo sconosciuto che ti degna di uno sguardo.
Dove sorridere è aprirsi alla speranza
di tramonti dolcemente svigoriti,
senza attesa di colpi di scena.
Dovessi un giorno aggirarmi
tra le brume e le rugiade,
che ammorbidiscono le pianure,
smisurate, quasi vuote, senza fine,
di questo Nord chiazzato di Sud,
con la mia testarda solitudine
di ragazzo solare e sognatore,
amante d’incognito e pauroso di buio,
che rifiuta ancora d’invecchiare,
di sentirsi arrivato a qualche punto
del suo percorso sinuoso ed ondeggiante,
rischierei certo l’angoscia,
nelle estati timide ed esitanti,
appena primavere percettibili,
tra le chiazze di nubi chiare
che non si arrendono al sole.
Affogherei probabilmente in silenzi,
fuori dalla mia natura comunicativa,
con il magone ricorrente
del ciarlare ripetuto ed assordante
nei cortili e nei circoli affollati.
Oggi,però, è un altro giorno.
Nel venticello che spira da ponente
sento l’ansia di vivere che torna.
Mi riconosco quasi un leviatano
che pregusta, perdutamente assopito,
il profumo di narcisi e tulipani.
Fumo di Londra
Fumo di Londra e salvifiche Sirene
nel cielo pungente di Oxford Street.
Tra fragranza di spezie indiane
e sgargianti vestiti orientali
incrocio jeans sfrangiati
nell’aria bisunta e bagnata,
ammantata di grigio e colori.
Troppe stelle filanti
per un errante navigatore.
Troppe cicatrici atemporali.
Troppe stregonerie vulcaniche
in giorni di scirocco siciliano,
incalzando farfalle di libeccio.
Eterno ragazzo, birbante e trasformista,
con un piede sempre fuori,
in procinto di salpare
verso moderne ribellioni,
un Ulisse quasi banale,
mi disperdo tra i grattacieli di Canary Wharf,
nella City dell’alta finanza.
Consapevole non rassegnato
dei miei temerari sessanta,
vagabondo tra parchi verdissimi,
mercatini d’antiquariato,
sensazioni di piatti amerindi,
vivaci locali in China Town,
baldorie di feste di droga,
eleganti teatri in Picadilly.
Tagliatore di teste a Meduse,
scrivo intinto dal fumo di Londra.
Lo respiro denso in un pub.
C’è penuria di magia di Nausica.
Nella Luna ambiziosa ed austera,
riaffiora il sortilegio di Circe
seducente, pericolosa dark lady,
se Penelope, spossata e inaridita,
attualizza daltonismi prospettici,
incombendo avide Menadi.
L’Old Crown è un tintinnio di bicchieri.
La biondina lentigginosa
spilla litri e litri di birra.
Il locale è pieno di gente:
per Ulisse sedersi a un tavolo
è sfidare Nettuno agitato.
Sopravvivere già è un mestiere.
All’irruenta fiumana dei sogni.
Al cinereo dello scontato presente.
A sussistere fuori dall’istante.
Alla sgobbata di rimpatriare
nella mia concretezza capricorniana.
Ma mi assiste il profumo del mondo
e questo mio caparbio vagabondare
tra le affascinanti favole dell’ecumene.
.
Gelosia.
Stiamo al fresco di un gelso riarso
proiettati per la Redenzione.
Dai vincoli di ogni rimpianto.
In una carrucola
senza fine.
Nel disgusto
dei corpi scomposti.
Nel perpetuo fluire
di stupidi eventi.
Nel sole che infiamma
l’azzurro vespertino.
Tra realtà impermanenti.
Praticando una sfera
rasente lo zero assoluto.
Da essenza vitale
a sussistenza struggente.
Dalla nescienza
alla vigile attenzione.
Con il viatico
delle nostre azioni.
Per l’estinzione
di ogni illusione esistenziale.
Sospettosi dei nostri pensieri.
Verso la percezione assoluta
del vuoto totale.
Consapevolmente dipartiti.
Da tentazioni e diavolerie.
Verso una coscienza immacolata.
Straordinariamente svincolati.
Da mostruosità e tirannie.
Dal folletto scattante
che inghiotte
un falcetto di luna.
Grati alla fame e ai malanni.
Alla pecora e al verme,
innati in ciascuno di noi
Incredibilmente svegliati.
Da schiavitù e prepotenze.
Inzuppati nella conoscenza
per identità scivolose.
Temperando il distacco dal mondo.
Palpitanti di compassione.
Dominando la mente che inganna
orienta, dirige, conquista l’Inferno
ed azzanna i sogni nel cuore.
Artigli pronti a chi sfugge.
Denti acuti e stomaci ampi.
Amorevoli verso i viventi.
Senza ingorda sete di vita,
né di unione con ciò che si adora.
Senza dire bugiarde parole.
Affilate come pugnali.
Svigorendo e svuotando
scampate frenesie d’illusione.
Senza pensieri osceni.
Senza condanne e competizioni.
Senza invidia di beni altrui.
Né molli pigrizie ed accidie.
Curiosi fino ai vizi disumani.
Imparziali verso il reale.
Parsimoniosi nell’oblio e nella memoria.
Né ire né dolci follie.
Ogni cosa che sorge gagliarda,
tanto, poi, muore avvizzita.
La passione di Dio è adolescenza.
Ogni fede è mutilazione.
Inettitudine a comunicare.
Ogni amore rinuncia a se stessi.
Ogni credo assoggettamento.
Assenza e spasmo di espiazione.
Un’istantanea visione intuitiva.
Sacrificio di Dio per il nulla.
Siamo intinti in meditazione.
Per andare oltre lo sguardo.
Nella grammatica dell’anima.
Pronti a osare ed espugnare.
Acquietati d’essere soli .
Gelosi del nostro dolore.
Goccia di sole
Una goccia di sole
sulla seta dei miei sogni
frantumati dal tuo amore
cieco e possessivo.
Totalitario come il muschio
della tua passione.
Mi accarezzi inconsapevole
e non ti scandalizzi.
Mi vedi come sei.
Colorata, avvolgente e affascinante.
Nella morbida caligine
delle tue pianure perse
a filo d’orizzonte.
Sterminate come le fantasie
che non si piegano
nei passi ritmati e monotoni
della vita inarrestabile.
Anche sotto i noci
di un inverno incredibile
di piogge e di brine.
Anche tra le arsure di Sicilia.
Tra i suoi profumi aspri
di limoni e mandarini.
Mi manca.
Mi manca da tanto ormai.
Quello sprazzo di follia
che illumina i giorni
e accetta le notti lunghe
di passioni spente e rassegnate.
Per questo anche il tintinnio
della tua goccia indifferente
rischia di avvampare
le stoppie di un agosto
improbabile e lontano.
Illuminata fantasia.
Il sole rimbalza
nel rione chiassoso
di piccini e comari
gracidanti alle finestre
Chi va di fretta
per pranzare.
Chi osanna la roba
non smerciata.
Chi ride di storie
del passato.
Chi frigna a vuoto
di dolore.
Chi sogna un aumento
di salario.
Chi sogna
di non sognare.
Esserci è sussistere
nel perenne banale.
Amo le inferriate
del mio davanzale.
Amo i marmocchi
che schiamazzano
a pallone.
Amo il barbone
del rione.
I bimbi scalzi
tra sterpaglie
e vetri aguzzi.
Persino la comare
linguacciuta.
E il paffuto benestante,
eternamente posteggiato
al Circolo dei Civili.
Ma i loro adocchiamenti
mancano d’amore.
Frasi pungenti.
Frecce di tossina.
La società si azzanna
senza tregua.
Pietra grezza.
Resistente
a sgrossare.
Banale ogni
parola costruttiva.
Breve l’amore.
Un rogo bruciante
testimonia la Fede.
Nel fulmine sulfureo.
In una mestruazione
vegetale.
Putrefacente
lo spirito fetido.
Che disintegri
le scorie,
purificando
l’argento vivo.
Levante nella notte
Inscindibile malinconia
nella nottata ventilata.
Se il levante infiamma
memorie incenerite
si fa dolce sdraiarsi
tra le spighe di grano,
nella pelle l’arsura
della terra scura,
nel cielo terso
nuvole di cotone,
al pallore della luna.
Frantumi sgranocchiati.
Brandelli sgretolati.
Ballonzolanti e vivi.
Nel turbine incalzante.
sul morbido fruscio
della lucertola amica,
sull’anima stanca,
insonne di crucci,
promesse di vita.
Tu non lacrimi rimpianti.
Rincorri mari erbosi.
Campagne mute.
Ulivi saraceni
contorti sotto il sole.
Invidio la tua pace.
Serena sul guanciale.
A fiotti subitanei
sbianca il mattino.
Per chi si guadagna il pane
si è già fatto chiaro
e la vicina si leva mattiniera.
Il vento copre e sottintende
ogni martellamento spirituale
e mi lascia svolazzar
tra mille mari.
Nel cinguettio garbato
di passeri di canali
crepitanti motori.
Un coro evocatore
di stravaganze amare.
Nel poggio inarcato
a sbarrare il panorama
stalloni vellutati
nell’erba scalpitanti.
Un micio si stiracchia
con pigrizia sensuale.
Un gallo ritardato
annunzia l’albeggiare.
Non tace la natura.
Bisbiglia sconfitte amare.
Tra incompiuti splendori.
Desolanti ricordi.
Danze illusorie
Nei giorni faticosi
Penanti e stentati
nello sguardo opaco.
Sorrisi idioti.
Eburnei cuori.
Lune calanti
su deserti gelati.
Stelle perplesse
su pianti universali.
Bisbiglia pace e rumori.
Terra odorante
fetido bitume.
Bombe nel sole.
Sprechi e fame.
Fredde solitudini.
Odi mortali.
Mete sfumate.
Zenit virtuali.
Stenta in salita
un vecchio ciuco,
bianco e sdentato,
di lavoro spelacchiato.
Ma lavorare duro
è l’unica consolazione
di narcisistici amori
e di passioni brinate
sotto mandorli immobili
e taglienti tramontane.
Liocorno
La reincarnazione l’ho già inventata
e in tutte le mie fantasie testimoniata.
More solito spara una calzata.
Non conosco Liocorno né mi piace.
Amo le sue parole dense e immaginose
Mentre il vento della notte si tace,
il leone -formica non ha pelli squamose.
Ha padre violento e carnivoro,
madre sensuale ed erbivora
perciò è indeciso ad ogni ora.
Non mangia carne a causa della madre,
ed ogni pesce è un’antipatia,
rifiuta l’erba a causa del padre
ed odia ogni sprazzo di goliardia.
Un piccolo animale, quasi un capretto,
un unicorno in mezzo pronto al duetto,
un cuore doppio e peccatore in petto.
Non conosco Liocorno né mi piace
la criminosa imperizia ad ascoltare in face,
ma ne amo la voglia di sognare in pace.
Gli consiglio nettare e miele al mattino,
per catturare il mistero delle cose,
profumati d’alloro e di timo,
per eludere ciglia smarrite e invidiose.
Un Re buono non vuole fil di ferro,
dantescamente infilzato, se non erro,
famelico e formicolante sotto un cerro.
Un Re buono diventa Imperatore
se il non amore si fa melodia.
All’Aquila non è precluso un cuore,
se non si lascia incattivire da malinconia.
Nessuno è veramente solo in un temporale.
Se sa inventare una parola sperimentale,
di brutture, gelosie e diversità poco gli cale.
Se Liocorno sfuggirà all’anoressia,
e non parlerà doppiamente in preghiera,
prenderà dimora nel ventre di Maria
e bacerà i fantasmi aleggianti nella sera.
Luxor
Nel primo albore, denso di brume,
nebbioline pressoché padane.
Il canto di Amon Ra,
poco meno di un fischio di vento
tra squarci sottili,
adombra la roccia
di rosa giogaie
sul soffice mare di sabbia,
se buchi ad intaglio
ne filtrano il soffio vitale.
Nelle palme inarcate
da sbuffi cocenti,
appena un salice piangente,
la città dalle cento porte
sonnecchia pacata sul Nilo.
La vita germoglia ad Oriente
e avvizzisce ad Occidente.
Selqet, Neith ed Iside
nel cartiglio d’ebano e avorio.
Rinnegato tra steli annodati,
esiliato in silenzi stuccati,
rispunto da un fiore di loto,
come al Tempo della Creazione.
Usciabiti mi dicono esistere
nelle palpebre d’oro all’entrata.
Nell’immenso del Tempio di Karnak
mi stordisco al Trionfo del Sole.
Mi ricreo nel deserto del Tempo.
Mi disperdo nel Viale di Sfingi.
Se respiro pulviscoli aspri
riascolto scalpellio di Maestri.
Mi rigenero, nera la pelle,
a squarciare la pietra grezza,
levigando lo spirito informe.
Marzo
Marzo di grandine
e raffiche taglienti
nelle notti palpitanti.
Edonistici lamenti,
ultimi a morire,
d’un’invernata gelida
di piogge incessanti.
Impavido resisti
alla tiepida stagione,
che già s’annuncia
nei giorni estenuanti
di malinconico calore.
Meriggi assolati,
prolungati,
si dileguano
in ostinati spasmi.
Incede Primavera,
sgombra di bollori.
Marzo indiavolato,
impazza di gragnola.
Sventola case
cenerine e gelate
da visioni bruciate.
Verdi montagne
di ghiaccio coronate.
Amori estinti.
Desideri indomiti
nei ceppi ardenti.
Nell’aria tremula
note di fiacchezza
logoranti.
Nell’erba brinata
le prime sfumature
di certezza
di un Risveglio
tra steppe popolate
di tribù di orsi
e renne vellutate.
Mentre scampi la mulattiera
Mentre scampi la mulattiera,
non posso vendere il cielo.
Che cosa è mai la mia vita,
senza il gaio ronzio delle api
o le docili vie di formiche
sul sentiero di crusca di grano?
Che cosa è mai la mia vita,
senza il triste lamento del gufo
o il grave gracidio delle rane
attorno ad uno stagno di notte?
Che cosa è mai la mia vita
senza il muto erotismo dei pesci
o le cozze sospese agli scogli
nell’olezzo di alghe verdastre?
Che cosa è mai la mia vita,
senza il giallo dei fiori nel prato
o i rifugi a cicogne ammaliate
sulle magiche sponde del lago?
Che cosa è mai la mia vita,
senza zagara di mandarini
o fragranze di gelsomini
negli erbosi terrazzi spagnoli?
Non posso vendere il cielo.
Comprarlo, sfruttarlo.
Schizzarlo di missili argentei.
Insozzarlo di nebbie nauseanti.
Appena un lustrino a colori.
Il cielo è mia madre e mio padre.
La terra non è mio nemico.
Questa crosta sotto i miei piedi
è cenere degli antenati.
Mentre scampi la mulattiera,
non posso vendere il cielo.
I fiori odorosi,
la lepre sfuggente,
la volpe birbante,
il cinghiale furente,
il topo da fogna,
l’asino brado,
la vipera nera
annusano ingordi
il tuo fresco di cielo.
Mi sfregano tutti.
l’ ingordo falcone,
le creste rocciose,
la lumaca schiumosa,
le essenze dei prati.
Non posso inventare
la tinta del globo,
il calore dei corpi,
il sole bollente
della mia mitica Sicilia.
Mentre scampi la mulattiera,
ogni insetto brusente
mi è sacro.
Non posso vendere il cielo.
Mi sento un lembo di terra
ed essa è ritaglio di noi.
Questo scolo di indegni liquami
scintilla nei fiumi morenti
il sangue dei nostri bisnonni.
Nel ruscello assopito nell’aria
eventi e ricordi di vita.
Mentre abbraccio le felci gementi
i torrenti mi sono fratelli.
Preferisco il frastuono del vento
che soffia sul lago spianato,
il respiro pulito di pioggia,
profumato dagli aghi di pino.
L’impennata di morbide querce
ospitanti calandre e cornacchie.
L’avvampante calura di stoppie
nei tramonti fumanti sul mare.
Mentre scampi la mulattiera,
non posso vendere il cielo.
Mentre bracco il linguaggio
che schiude i confini
il mio passo è tardivo.
Se i suoi sogni mi sono taciuti,
scorteremo i nostri pensieri.
Mi sono stufato
Una rocca inaridita,
minacciosa di verde,
digradante
a strapiombi inattesi.
Inabissato nei pinnacoli
di un caseggiato medievale,
mi sono stufato
di evocarti,
pensarti,
desiderarti,
premendo il cuscino
nelle notti infuocate
o la tovaglia insabbiata,
imburrata di sudore.
Un azzurro cedevole
si insinua nelle fondazioni giallastre,
che schizzano archetti svettanti,
a sesto acuminato
e a me non mi va più
stressarti di baci mancati.
Vivere di silenzi
non mi basta più.
E a te non piace più
giocare a nessun gioco.
Neanche al trittico
di soffici modulazioni sul levatoio.
Neanche alle parole mielate,
alle bugie compassionevoli,
agli occhi inesprimibili,
ai deliri inconfessati.
Tra il formicaio
tinteggiato sulla rena
mi riconosco solo.
Disperatamente solo.
Non ci sono più frecce
per striarti il cuore,
pietra squadrata e levigata
dalle onde incalzanti
sulla scogliera ostricata.
Il profumo della tua pelle
non mi pizzica anche ora il naso.
Ti sento ghiacciata,
geometrica e rigorosa,
disidratata ed essiccata,
narcisisticamente indifferente,
sfiancata e snervata,
stremata dalla passione.
Una falena incenerita,
senza voglia di lottare
per questo nostro povero amore.
Ma un effluvio di alga pulita
mi penetra i polmoni.
E mentre una brezza di zefiro
mi vezzeggia il viso
anch’io sono arrivato.
Un limone spremuto.
Un beccaccino spennacchiato.
Un gattino rifiutato.
Senza speranza di fusa.
Quasi la casa disabitata
a svettare sui fichidindia,
abbarbicati al vento,
nelle colline serpeggianti
a congiungere il golfo,
azzurro pallido,
nella parabola del crepuscolo
che va in fumo.
Miti
Domani radianti
di allucinazioni
tremano al chiarore
del pensiero.
Sentieri freschi
di verzura
si sperdono
tra asfalti
e sterpi secchi.
Nessuna fiducia
di rinnovo.
Nessuna vaghezza
di riflusso.
Miti adorati,
sfiorati
e mai incalzati,
baciati al primo albore
e al fiacco sereno
di quieti pleniluni.
Accarezzati
tra caligini felpate.
Miti fiabeschi
di una stagione sfocata
nella tremula memoria.
Sfuggono impenetrabili
essenze ed arcani.
Manca lo sbuffo
di ansanti galoppate.
Indolenza congenita
nei passi peregrini.
Foschie opache
tra i cirri turbinosi.
Miti di primavera,
avanzata nel declino,
palpitanti e vivi
nel fluido magnetico
dei vapori corvini
sprigionati da Osiride
sulla sostanza universale.
Miti inzuppati
di visibilii
nel rifiorire consapevole
di equilibri risolutivi.
Momenti
Momenti perduti.
Momenti ritrovati.
Teneri.
Inaspettati.
Momenti dolcissimi.
Roventi.
Appassionati.
Violenti.
Momenti languidi.
Focosi.
Bellissimi.
Con un retrogusto di vuoto.
Da colmare subito.
Per un cuore sincero.
Incosciente
ed ardente.
Momenti vissuti.
in un batter di ciglia.
Ma infiniti.
A lungo accarezzati.
Eternamente desiderati.
Difficili da cancellare.
Che ti fanno star male
se rimugini che possano sfumare.
Nei giorni.
Negli anni
ho cercato
cinque valori
per cui valesse
il vivere e il morire.
Negli anni
ho inseguito
il miraggio
di creare la Bellezza.
Nei giorni
ho penato
per una certezza.
Nei giorni
ho mendicato
una carezza.
Nei giorni
ho patito
per un segno
di dolcezza.
A vuoto
ho lottato
per riconoscere
la dignità della persona
e dell’onesto lavoro.
Inutilmente
mi sono roso
per una sillaba di tenerezza.
Dalle tue labbra avare
solo asciutti sospiri.
Temporalità e dimensione
di noi stessi finiti.
Non si piange la morte
radice di grazia.
Non esiste scienza
che redima l’uomo
senza amorevolezza.
Non c’è Fede
senza Speranza
e un mondo
senza luce di Dio
è privo di sogni.
Modernità
è avventura e trasgressione,
viaggio e costruzione
di mondi e rapporti nuovi.
Fecondare le patrie.
Navigare i deserti.
Lasciarli fiorire.
Come un gambo di rosa
tra rugiada e spine.
Senza Verità e Giustizia
questa mio stesso esistere
è una fandonia.
Ognuno è sbagliato
se rinuncia
ai propri ideali
e liquida
le sue persuasioni.
La libertà esige
convinzione.
Naturalezza antica.
Inventare le tende.
In assenza di nodi
si trasmuta
in disperazione.
Il bene ed il male
mi scivolano sopra,
appena un acquazzone.
Apparenze
dell’immenso vuoto,
per scarcerarmi
dalla sequela
dell’assurdo,
dello stordimento
e del dolore.
Nei giorni
ho desiderato
l’anarchica tensione
della responsabilità
e dell’autodeterminazione.
Nei giorni
ho compianto
il relativismo radicale
e il totalitarismo delle bandiere.
Nei giorni
ho rincorso
la solidarietà
e la tolleranza
degli eguali.
Il principio personalista
e sopranazionale.
Nichilista speranzoso
e sfibrato postminimalista,
snervato di affastellare
realtà insipide e banali,
ho alberato
per ingrati vicini,
per scovare la scorciatoia
che si inerpica
verso la collina
morbida di tulipani.
Per anni e per mesi
ho inciso le mie meditazioni
nei sassi della fiumara
ed ho fuso la mia corporeità
nella fluidità del mio pensiero.
Negli anni incessanti,
nei mesi sfuggenti,
nei giorni indefinibili,
con pazienza ho imparato
il rispetto e la stima
verso ogni creatura.
La perseveranza spirituale.
La purezza degli ideali.
L’amicizia duratura.
L’indulgenza nel criticare.
Il distacco da interessi meschini.
La schiettezza impegnativa.
La misericordia e la compassione.
La non violenza della Pace.
Il servire e l’amare.
L’audacia di rimanere.
Ed ora che sento
i miei giorni
vogliosi di fuggire
non voglio voltare
il groppone ricurvo
al sole bollente
che muore.
Nilo
La feluca ritaglia il fiume.
Una piuma sospesa nel vento
La mia mano appena a sfiorare
accarezza l’onda d’azzurro.
Stringo gli occhi nell’aria cecante
e risogno segreti e lussurie.
Ori, sfarzi, riti ed arcani.
Falco Horus, smagliante d’amore.
Obelischi stabili e forti.
Procedo estasiato e assolato
tra risucchi e scogliere deserte,
a strapiombo sull’acqua insidiosa.
Bianchi aironi e anatre nere.
Renelle dipinte di mare.
Gitanti a sfidare caimani.
Ambulanti alle navi e su rena.
Laghi Sacri a purificare.
Ippopotami esorcizzano il Male.
Formichieri per Nefertari.
Sacerdoti leopardati a modo.
Toth saggi e sagaci di Luce.
Scacchieri di giallo a grembiuli.
Ventagli a carpire i Segreti.
Consacrare la vita e la morte
nel Nilo che lava e deterge.
Questa terra è un dono del Fiume,
Dio Hapi dal ventre rigonfio.
Simbionte e viandante fellone,
stringo al cuore la linfa donata.
La speranza d’Amore e di Pace.
La Cultura e le Religioni.
Le Storie di gente comune.
Giochi antichi tra magiche rive.
Giulia inquieta di gioie e scoperte.
Tra barchette a corteccia e di foglie,
nella tersa purezza del cielo,
se anche Monica guarda e sorride
io ritorno straniero nell’Ara,
sulla soglia di miti perduti,
e sorseggio la mia nostalgia.
La tua acqua ha sapore di limo.
Di durevole genio del Bene.
Di Anubis, sciacallo nero,
che preserva la Pace alle mummie.
Di Athor e incanti musicali.
Di attacchi al rischio del Buio.
Corpi azzurri,velati di Nero.
Paradisi a ciascuna cultura.
Fedeltà di Isidi serene.
Volte blu a trapunte di stelle.
Fior di loto su teste di cobra
Babbuini per la saggezza.
Mari d’erbe e leonesse vitali.
Chiazze bianche e Chiavi di vita.
Pastorali come gazzelle.
Visi persi e anime lacerate.
Orecchie e nasi tagliuzzati
a smarrire identità pensose.
Serpenti a tre teste e due ali.
Tra lastre calcaree e turbini di rena
percepisco un sospiro divino
e resuscito carovane di sale,
misture d’avorio e preziosi.
Un Tempo fermo e spaccato.
Nel Sahara a corrodere il verde.
Nei caffé impolverati e fumosi
a bucarsi polmoni e narici
tra fragranze pregnanti di datteri.
Cieli estesi a avvinghiare il soffio vitale.
I crepuscoli inghiottono soli
e rischiarano il corpo infinito
nel deserto senza confini.
Ho bevuto anche l’acqua del Nilo.
Come Oceano sbuccia i pensieri.
Fugge l’Ora cullata nell’aria,
nelle sponde orlate di palme,
mentre albeggia la Storia dell’Uomo.
Se trangugio una duna oscillante,
intuisco eremi e asceti incalzanti
nel delirio di febbre bollente
a smacchiare lo spirito stanco.
La Parola è un rimbalzo infinito,
straziante follia di svanire,
nel Nilo che cambia e non muta.
Ninnato
Naufragato.
Assorbito.
Magnetizzato.
Smarrito
tra incerti tracciati.
L’abisso
ti ha spruzzato
di piacere.
Asprigna viene
a riconquistarti
l’apparenza.
Continue
emanazioni
sublimate
si avvitano
alla scala
misteriosa
di Giacobbe.
In una filigrana
biondo oro.
L’assenza
recingerebbe
l’infinito.
Un delirio
a svuotarti
e a ninnarti
nel roveto
della luce.
Forse ti fermi
dove sei fuggito.
Tra un ciliegio fiorito
e le more saporite
di campagna.
Non conosco
Non conosco
i ritorni
Tra pietre
invecchiate
amarezza
di baci salati.
Distacchi
ripetuti.
Non conosco
i ritorni.
Tagli netti.
Decisi.
Una fine
scontata.
Mi aggomitola
un drappo
corvino.
Una parte
di me
si dissolve.
Ho donato
i miei anni
spenti.
Entusiasmi
regalati
alla rinuncia.
Una vita
smorzata.
Ossidata.
Arrugginita.
Fra selci
incanutite.
Scemati
nella logica
i fervori.
Uccise
dall’accidia
le ambizioni.
Odiata
l’incoscienza
naturale.
Farsesco
riprendo
ad allignare
nell’opacità
e nel mutismo
del mio cielo.
Ossessione
Ossessione dolce e amara.
Che mi invade all’interno.
Del mio essere
Della mia anima
Del mio corpo.
Sensazione incredibile.
Per niente sperimentata.
Approdata in un baleno
improbabile dello spirito vitale
Spasmodica.
Martellante
ma gradevole.
Un sentimento puro.
Non volgare.
Per un amore irreale
senza il tuo calore.
Ti distrugge.
Ti soffoca.
Ti provoca un magone.
Ma ti fa sentire viva.
Papaveri rossi
I passeri saltellano,
vispi e cinguettanti,
nell’ombra di canali
muschiati e rugiadosi.
Il sole infrange
raggi screpolati
e infiamma l’acqua
statica del lago.
Tra molli spighe
papaveri rossi.
Dolcezza subitanea.
Squilibri eterni.
Destato dalle favole.
Nel vuoto oscuro.
Angosciante paura.
Abissi sfiorati.
Essere maligno.
Sadismo innato.
Vagare cieco.
Nell’anonima folla.
Tanti valori.
Un Cristo in croce.
Nessuna Fede.
Penose risalite.
Geli infranti.
Sete di calore.
Meteore abbacinanti.
Reiterati dolori.
Gelidi sorrisi.
Zombare assente
tra volti opachi.
Penosamente tacito.
I pioppi dondolano
speranze di sogni.
Un ciuffo nero
su una ciocca bionda.
Due occhi azzurri
lusingano gioie.
Sguardi palpitanti.
Amore di terra.
Rossi amaranto
di sulla e trifogli.
Simbolici veli
di Sfingi e smeraldi.
Serpenti sinuosi.
Incantevoli Streghe
tra rossi papaveri
carezzati da brine.
Piramidi
Sulle dune turisti a formiche.
Nel ghigno burlone di Sfingi
sostanziale la Nave di Ra
per viaggiare dal Tempo alla Notte.
Carenza di verbi consueti
sulle labbra fresche di aranciata.
Ghiaie sapienti di Storia,
carezzate dal Sole che ammalia,
mi scompigliano e ottundono i sensi
in ebbrezze e tremori assoluti.
Taciturno tra dossi di sabbia
mi intingo nell’ultima luce
fiammeggiante ad eclisse nel disco.
Intensi fulgori rossastri
vibranti nel ciglio che picchia
sul viso a pioli di Cheope.
Fantastico prismi smussati
a dondolare l’anima assediata,
ondeggiante in sensazioni abituali,
tra saracinesche di granito
cunicoli e camere regali.
Tra le linee squadrate di Chefren
smaglianti pavimenti d’alabastro.
Invito a perdersi raccolto
nella malizia inconscia della carne.
Una stele sogna la Luce,
scarcerata da sabbie roventi.
Micerino in granito rosa,
rivestita di bianco calcare,
mi consola di resurrezione
e mi parla di un ciclo perenne
di morte, risveglio e speranza.
Se ti pensa
Se ti pensa intensamente
nelle notti insonni
è la vita matta e rubiconda
che torna a sussultare
nelle acque chete
della sua freschezza calpestata.
Amore è soffrire.
Provare ansia scontenta.
Sentire vuoto cocente.
Sentimento sublime.
Per dire.
Per dare.
Ricevere tanto.
Che nasce con noi.
Di noi si alimenta.
Si nutre dei sogni dell’altro.
Se la sua pelle sussulta
ai tuoi tocchi lievi
e le sue gote sbiancano
alle carezze penetranti
dei tuoi sguardi, assetati
di ricorrenti allucinazioni,
se ti scongiura,
a palpebre dischiuse,
di non profanare e scompaginare
le blande armonie
del suo imbambolato vegetare,
ha paura di amarti
di un amore spontaneo e passionale.
Amore è patire
momenti infiniti di pena.
Amore è memoria
spruzzata di pianto e di luce.
Se la bramosia alimenta
il panico caotico
della forza devastante del tuo calore,
forse è legittimo rinunciare.
Ma se ti sgrana dentro
i suoi occhi trasparenti,
ti sciorini
nei frangenti dei suoi boccoli
rilucenti e sediziosi
e nella promessa di tenerezza
che ti accartoccia
nullifichi ogni capacità
di intendere e volere.
Amore è arcano di dolce fantasma.
Amore è interezza di vita.
Sentimento pieno e totalitario.
Esclusivo e irrazionale.
Capace di farti scoprire
in un istante inimmaginabile
tutto il tuo senso interiore
e l’essenza di felicità
di un’esistenza intera.
Se ti insinui,
soffice e cedevole,
nei suoi quaranta sogni,
fantastici e ansiosi,
quasi verdi primavere,
eludi il rischio di rimanere
un ulisside straniero
che turba i miraggi
della fanciulla mielata
dalle braccia lattescenti.
Se non resiste
alla creatività chimerica
della purezza del vagheggiare,
una tenerezza così,
fuori canone e stagione,
probabilmente potrebbe valere
anche l’ardimento di azzardare.
Senza te
Senza te
non è
vivere.
Senza il tuo odore
frizzante
è
vegetare.
Affossarsi
in questo cielo
plumbeo
trasparente.
Qualche fioca
luce.
Come di lanterna
cimiteriale.
Questo mare
piatto.
Solo qualche
lieve
increspatura.
I mulini
monotonamente
lambiti
dal vento.
Il lamento
greve
delle poiane.
I fiorellini
bianchi,
ribelli
alla rasatura
squadrata
del prato.
Non hanno
sapore
senza la tua risata
squillante
e contagiosa.
Lo sguardo
luccicante
negli occhi
innamorati
e birichini.
Pronti a
bucarti
l’anima.
A sconquassarti.
A illanguidirti.
A squagliarti
la ragione
come burro
al sole rosso
di Sicilia.
A rendere
scintillante
l’inesorabile
battito
degli istanti
in attesa
di sfiorare
la tua pelle
calda
e invitante.
Di perdermi
nei tuoi baci
mozzafiato.
Negli orgasmi
lunghi
e ripetuti.
Nell’eloquente
silenzio
dei tuoi abbandoni
prolungati.
In cui
vivere
torna
ad essere
vivere
e sognare.
Sguardo
Uno sguardo vero.
Profondo.
Intenso.
Passionale.
Penetrante.
Lusinghiero.
Che ti affascina.
Ti strega.
Ti trasmette emozioni.
Sensazioni attive.
Al settimo cielo.
Occhi dolci e buoni.
Bugiardi e leali.
Sconvolgenti.
Pigre vegetazioni.
Equilibri scontati.
Pregiudizi e certezze.
Identità e storia.
Da incrociare.
Inseguire in lande trasgressive.
In cui leggi le parole.
Uno sguardo particolare.
Tollerante e comprensivo.
Che sa ascoltare.
Inconfessati dolori.
Vergognose speranze.
Intuire.
Ideali e utopie.
Infinite lacerazioni.
Inquietante e sbarazzino.
Ammiccante ed ambiguo.
Che ti invoglia a dare.
A fantasticare.
Ti stordisce.
Ti annienta.
Ti senti mancare.
Ti esalta.
Ti deprime.
Ti fa svettare.
Ti immerge
in un miraggio
da cui non ti vuoi svegliare.
Sicilia, my love
Non c’è il cobalto e lo smeraldo del tuo mare
nell’ansa grigia e tra il rullio dei motori.
Non c’è la levità del tuo cielo di vino,
né il giallo di ginestre soffoca oleandri di rosa.
L’urlo dei pescivendoli nell’aria salmastra
è solo un brusio, avvolto nella nebbia cenerina.
Ci sono checche, candi, scrima,
stemperati di spleen,
a rimpinzare consumistiche ingordigie e smanie,
ma non ritrovi la poesia dei balconi spagnoli
che arpionano le crepe corrose dal sole,
né il fiaccolare ardente del fiore di melograno,
le chiazze di trifogli, malve e fiordalisi,
tra spighe riarse e assordanti assedi di cicale.
La mia isola è divenuta un sapore ubriacante
di finocchietto, cipolla e pinoli,
trippa al pecorino, polpette di neonata,
cassate di ricotta e soporiferi vini divini.
Mitici viaggiatori e bellezze sovrumane
danzano tra asfodeli e arance d’oro,
in questa terra di luce e di sole.
Nei carrubi assopiti alitano antichi misteri,
immobilità assorte e sospiri di passioni,
ma, nelle ventate di inebrianti gelsomini,
incalza il mal di mare della Storia.
I templi greci e le pietre islamiche
intonano nenie di pace e d’amore,
mentre i tuoi figli abbracciano il mondo,
fratelli di lingua, sudore e lavoro,
trasformisti, impegnati, onesti e creativi,
tra spiazzi e istanti senza frontiere.
Sei il mio vero, eterno amore,
isola della Primavera,
il sogno che rifiorisce
ad ogni scappatella e defezione.
My love, l’amore mio inestinguibile,
favolosa nei lamenti del levante,
sulle chiome degli ulivi saraceni,
nelle carezze di brezza
alle spighe baciate dal sole,
nei tramonti vibranti
e negli incendi delle aurore.
Solo
Solo.
con il mio fardello
di amarezza.
Solo.
Senza voglia
di ripresa.
Solo.
Con il rimpianto
che m’affoga.
Un bolide
verso la scogliera.
Il vecchio pendolo
continua
ad oscillare.
Chiarendo
il senso
della fragilità.
La mia vita
è un rintocco
del tuo sogno.
Sano
illanguidisco
nel mio letto.
Mi ubriaco
del tuo freddo polare.
Nel lago
del tuo dolore.
Ad un passo
dal baratro.
Un serpente
di fuoco
vespertino
sui capelli
di seta.
Estraneo
al mio suicidio.
Lento.
Inflessibile.
Procedo.
Per una promessa
non è
più l’ora.
Imperterrito
assisto
alla disfatta.
La mia fortuna
concretizza
una sterile vita.
Non mi tocca
un sorriso adolescente.
Mi manchi.
Sponsale
Rintocchi di campane
negli occhi tremolanti
tra il riso e il pianto.
Rintocchi rigeneranti
sul cuore assiderato.
Stampigliature irresolute
d’armonia e rimpianti.
Indistinte e svogliate.
Quasi una cantilena
posseduta e consumata.
Consapevole attesa
di ripresa vogliosa.
Lievito polveroso
di tenerezza ignara
nelle iridi nitide.
Dolce svestirsi
di orgoglio remoto
per ritrovarsi
briosi e pimpanti
d’acqua cristallina.
Stoccatello
Il silenzio.
Frinire di cicale
Nei cirri vespertini.
Il sapore del bosco.
L’odore del sale marino
Nella distensiva frescura
Di un’oasi mediterranea.
Ad ogni curva tra i rovi
Il mare pare sfiorarlo
E lo sguardo scorre
Mandorli cimanti
Ulivi lussureggianti
Zagare di limoni.
Stoccatello.
Casale di stampo medievale,
Immerso tra vitigni
Pregiati e svettanti,
Agavi turchesi,
Grano sparpagliato nell’aia.
Ricotta di fascina.
Latte cagliato.
Nella frescura
Di vetusti pagliai.
Stoccatello.
Una finestra dischiusa
Sul mare africano.
Una porta spalancata
All’Europa evoluta.
La fragranza inebriante
Di aromi di pietanze.
Il sorriso intrigante
Dell’ospitalità siciliana.
Ti sento
Ti sento tintinnare sulla pelle
asciutta e bloccata da paura.
Non ho più forza
per altre magiche pazzie.
Non ho più forza
per altri dubbi estenuanti.
Ti sento pizzicarmi le ciglia
che stentano al chiarore.
Assente il desiderio
della tua pelle profumata.
Soffocato dall’angoscia
delle tue bugiarde riscritture.
Persino il pauroso bisogno
di sentire le tue vibrazioni
mi mette agitazione.
Ho solo voglia matta
di riprendere il passo
sonnolento e luccicante
di una bavosa lumaca.
Senza rischiare smarrimenti
in altri dedali sentimentali,
da cui sarebbe utopistico
riemergere occhi luccicanti
e sguardo fermo sulla luna.
Ti sfuggo
Ti sfuggo.
Non voglio
sognare
il sapore
profumato
delle tue labbra
vellutate
di rugiada
mattutina.
Non voglio
imprigionarmi
in altri amori.
Il mio cuore
è rimpinzato
di palpitazioni.
Amore
è un piacere
lancinante
e doloroso.
Mi basta
la dolcezza
riposante
dei tuoi suoni.
Fantasticare
sui colori.
Saperti
lontana.
Irraggiungibile.
Corteggiata.
Accarezzata
da amori.
Un sogno
ha la magia
che gli vuoi
attribuire.
Qualcosa
da non sciupare
nella caducità
dell’effimero
quotidiano.
Sanguinanti
e corrosivi
i buchi insinuanti
da rimarginare.
Meglio volteggiare
una farfalla
gialla e turchina
nei raggi impietosi
tra la zagara
dei mandarini.
Ti sfuggo.
Consapevole
della gracilità
del mio fuggire.
Non voglio
impallidire
nella pregnanza
del tuo odore
di passione.
Tutankhamon, Grande Casa
Nella tua bocca ardente
solo povere e stanche parole.
Il papiro racconta
una storia bruciante:
la dolcezza di un re piccino
svelato da un altro bambino,
che ha ripescato il gradino
liberando un asino sprofondato,
inciampando in un fossato
e si dice campato
cent’anni spensierato.
Tutankhamon, Grande Casa,
vissuto Eterno nel Giorno
Infinito, tra papiri smaglianti,
infiocchettati di Ibis e amanti,
forzieri, troni e poltrone
nel calore della rigenerazione.
Se ogni selce elargisce una vita.
la mia essenza non muore
in monotoni giri di Sole.
Le viscere in un legno dorato,
cassonetto canopico alabastrato.
Sarcofagi in bende di lini,
contigui due feti bambini.
Remi spiegati al vento
per volare nel firmamento.
Arche quarzitate,
paste vitree policromate,
amuleti e ghirlande infiorate,
lapislazzuli e grani ceramicati,
quasi manti di piume stilizzati.
Il Dio Anubi, sciacallo meschino,
fa la guardia in scialle di lino.
Salvo ghirba in assenze avvilite,
in recinti serrati a passioni.
Non mi giova parlarmi di Grazia.
Uno solo, socievole e onesto,
vale più di dieci anni egoisti.
Un amico veramente speciale
Ho perduto in un solo bagliore
un amico entusiasta e vitale,
che con volontà eroica e tenace
ha lottato per sconfiggere il male.
Ora vaga in un vicolo cupo
alla fioca luce lunare,
senza scienza di cosa lo attende
tra le foglie ingiallite dal vento.
Un sorriso aperto e cordiale.
Una singolare capacità comunicativa.
La battuta a tono ed arguta.
L’umorismo fine e garbato.
Forte, consapevole ed umano.
Capace di ascolto e di soluzione
dei problemi di tutti i suoi amici.
Una vita per il lavoro.
Per i figli adorati e la gaia Patrizia.
Per i deboli e i bisognosi.
Con passione e dedizione.
Con impegno e abnegazione.
Verso Vito, Giulia, Robertina,
Nicoletta e Carolina,
mai intransigenza eccessiva.
Né uno scatto d’ira.
Sempre la sua dolcezza,
e la sua bonarietà tendenziale.
Ogni giorno ha seminato amore.
Ordinato, onesto, sincero, leale.
Un ragazzo veramente speciale.
Generoso, spensierato ed allegro,
dignitoso, bello e cordiale.
Sempre a fianco senza pretese.
La tua morte non è una finzione.
Non restare senza parole.
Riscrivi la storia con ribellione.
Già tu vaghi per cupi meandri,
abbagliato da abissi velati.
Hai reciso le funi alla vita
e ti adagi su un chiuso naviglio,
le gambe ciondolanti dalla barriera.
Piangere è legittimo e normale.
Non solo per sfogo e consolazione.
Il mio cuore è così sfinito
da non potere più volteggiare
nel tramonto delle emozioni.
Perciò sogno che tu ci rinnovi,
con il tuo straordinario amore
ed il tuo ottimismo paradossale.
Un Egizio triste
L’uomo Egizio è triste nel sole,
ma ride negli occhi di ogni creatura.
Dolce ospite e pellegrino,
vagabonda in periferie ad alveare,
traffica ansioso in banlieue marginali
discordanti tabelloni promozionali,
devotissimo in scorciatoie trasversali.
A metà tra passato e futuro,
esorcizza rovine e barbarie,
povertà e schiavitù ricorrenti,
tra splendori ed argille fatiscenti,
obelischi a guglie appuntite,
geroglifici e verità sbrindellate.
Nel deserto d’oro e petrolio,
tra assillanti richieste di mance,
un popolo onesto e ospitale,
prosternato nella preghiera,
smarrito d’incerto futuro.
Rispettoso di leggi e precetti,
sapiente di lettere e norme,
l’uomo Egizio professa la Fede,
carità, devozioni e astinenze,
ma si perde nei rossi semafori,
nelle donne che scoprono il velo,
nel ritmo delle trasmutazioni.
Né borghese, né grande Maestro,
né bramoso di fango ed oro,
sovrastato e protetto dal Falco,
generato dal figlio di Ra,
preservato da Hathor ed Iside,
ha negli occhi Tauret enigmatica,
i sistri vitali di Kawit,
mogli, amanti e concubine.
Un gabbiano nell’uragano.
Nei sarcofagi di quarzite amaranto,
vagheggiando graniti per letto,
gigantesche ossature sanguigne,
carcasse di sassi parlanti,
mentre sfrangia l’istante presente.
Uomini
Uomini come te
ne ho conosciuti.
Negli occhi cristallini
lo spettro della morte.
Nelle ciarle amarognole
ricorrenti titubanze.
Odiano l’inciampo
e si insabbiano incessantemente.
Hanno sperimentato il capitombolare
e si incaponiscono ripetutamente.
Rincorrono orizzonti
che mai scoperchieranno.
Per niente si deliziano
o si fanno muti.
Le tue pupille sono secche
e non hanno mai pianto.
Portano la bruma cenerina
di chi ama e non discerne.
Vivere
Cento volte si gioca e si perde.
Ogni ora bruciata è sciupata.
Ogni donna sfuggita amarezza.
Ogni terra ha il suo spicchio di cielo.
Fiori rossi hanno prati verdastri.
Vivere è stupefacente,
esaltante di gioia
e dormiente pensiero.
Se incroci una pausa,
se l’ora ristagna
in fondo alla nausea,
se l’acida pioggia
ricaccia indietro,
se osservi imparziale
l’alveo inquieto
di gente che ride,
se mediti, pensi e ricordi
vivi e sarà un’altra cosa.
Un bimbo gioca sereno
nei prati cosparsi di rovi,
due giovani fanno l’amore
al sole cocente di luglio,
un uomo intasca dei soldi,
un altro protesta di fame.
Esalta scendere in piazza,
vitali e allucinati,
correndo schiamazzanti un sogno.
Una capriola al monumento dei caduti
e un fiore in bocca alla baionetta.