Don Adalgiso e Fantasima Saracina romanzo

27.01.2015 11:02

 

 

 

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Don Adalgiso e Fantasima Saracina

 

 

 

 

Romanzo

 

Di

 

ENZO      RANDAZZO <!--msnavigation-->

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo I

 

Compieta

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                 Il parroco aveva chiamato a raccolta i propri pensieri, ritraendoli da ogni tumulto di negozi e di situazioni esteriori, per attendere con tutta la pienezza dell’animo a lodare Dio. Per ottenere attenzione e raccoglimento nel salmeggiare si era inginocchiato a recitare Actiones nostras e Aperi, domine, os meum, scritte nel principio del Breviario. Aveva indirizzato l’intenzione, proponendosi di voler recitare le Ore Canoniche non solo per soddisfare al precetto, ma anche per glorificare il Signore di vero cuore, offrendo, altresì, le sue preghiere per aiuto ai vivi, ai defunti e a tutte le necessità della sua Chiesa. Con umiltà e riverenza d’animo aveva dato inizio alla Compieta, dicendo, con sentimento cordiale, il Domine, labia mea aperies. La vetusta Chiesa Madre era ancora fredda ed assopita e lui non se l’era sentita di scendere tra le sue navate gotiche a pregare. Amava la sua splendida cattedrale, il suo portale barocco incavato, prelevato dalla Chiesa di San Nicolò in Adragna, l’ampia gradinata di quindici scalini, l’immenso rosone centrale, le statua di San Giorgio che trafigge il drago, incastonata nelle nicchia laterale, la fragile loggia di arcate a trifoglio, la cupola di netta ispirazione araba. Il tempo, la polvere, la pioggia ed il vento ne avevano modellato la veste esterna, sbrecciato e corroso la sua superficie. L’avvicendarsi di vinti e vincitori, di varia fede, cultura ed etnia, la collera e la violenza dei fanatismi politici e religiosi ne avevano lacerato le cesellature,  quasi cancellato le vestigia di moschea araba, spezzato le sue collane di arabeschi e di figurine, tuttavia questa stupenda Cattedrale incarnava sempre l’anima profonda ed autentica di Zabut e dei suoi abitanti. Nei suoi svolazzi di marmo, nelle sue volute e nelle sue modanature di ghirlande il parroco trovava serenità ed ispirazione. Solo per paura di assiderarsi rinunciava, qualche volta, alla sua bellezza e si accontentava della sua sacrestia. Quel giorno recitava l’Ufficio in ginocchio, senza fretta o celerità, con integrità nella pronunzia delle parole: chiare e distinte, senza sincoparle, o troncarle, o mutarle d’ordine. Proferiva con continuazione, guardandosi dall’interrompere la recitazione, con attenzione alla distinta ed intera prolazione delle parole, al loro senso, nella serietà che richiede il parlare con Dio. Leggeva i Salmi con alacrità d’animo, senza tedio o premura, considerandone le spiegazioni fattene da Sacri Interpreti, quali Titelmano e il Cardinale Bellarmino in Psalmos.

Non gli era mai andato a genio di recitare le Orazioni a pappagallo, senza capirne il significato; gli sembrava gran miseria e vergogna per un Ecclesiastico. Era un prete austero. Quando passava con studiata lentezza sotto le ogive del Coro, arcigno e meditabondo, con le braccia incrociate e la testa affondata sul petto, tutti i fedeli avvertivano un tremito di spiritualità. Nel lodare  e ringraziare Dio, nel chiedergli perdono ed aiuto godeva ad eccitare in se stesso simili sentimenti, con animo devoto, impiegando il fiato della bocca ed i pensieri della mente. Si sentiva un Internunzio, Legato dalla Chiesa a trattare con la Divina Maestà la causa del genere umano e a pregare per tutto il popolo fedele, collega e compagno degli Angeli nel glorioso impiego di lodare Dio e di celebrarne la grandezza, potenza, santità e beneficenza.

Gli Angeli, diceva S. Agostino, non arano, non seminano e non macinano, ma, come i preti, sono esenti dalle faccende mondane, per meglio attender a lodar Dio e a servirlo.

Pregava Iddio di insegnargli ad aiutare le anime dei Fedeli, ad istruire i più rozzi nelle questioni di Fede, ad amministrare i Sacramenti e la parola del Signore, ad avere la forza e la carità per assistere gli infermi ed i moribondi.

Stava intonando l’Ecce nunc benedicite quando una figura eterea ed evanescente entrò nella sacrestia, lo salutò e si installò vicino a lui.

La conosceva fin troppo bene naturalmente, ma  si guardò bene dall’interrompere la lettura, di risponderle o di darle spago, per non profanare con impertinenze il parlare con Dio.

Ma la ragazza trovava senza dubbio lungo il tempo di aspettare che finisse il suo Ufficio. Vedendo che non prestava alcuna apparente attenzione alla sua persona, si avvicinò e soffiò con tutte le sue forze sul suo Breviario, costringendolo a risfogliarlo tutto per tornare alla pagina iniziata.

Il prete le lanciò un colpo d’occhio incendiario e riprese dove era stato interrotto. Seguì un breve silenzio, un altro soffio dispettoso ed il testo era di nuovo smarrito.

- La vuoi finire? - la apostrofò.

Non rispose e il prete ritornò alla sua lettura, ma lei ricominciò a torturarlo, solleticandolo con una piuma d’oca sul collo e dietro le orecchie, quindi diede una spinta al libro e lo spedì a terra. Il religioso si fece la croce con la mano sinistra e si levò in piedi, verde di rabbia.

- Questa me la paghi cara! -

I corpi si fiorarono appena, ma fu come se tra loro fosse passata una scarica elettrica. Lei scattò veloce come una lepre e cominciò a girare intorno al tavolo, per sfuggire al suo inseguimento. Era agilissima e difficile da acchiappare, ma il prete, memore dei giochi con i bambini dell’oratorio, spinse il tavolo, ad angolo, contro il muro e la incollò alla parete, prendendola prigioniera e dimostrando come la sua resistenza fisica fosse ben poca cosa.

- Stai per ricevere la lezione che ti meriti - le gettava in viso, quindi l’afferrava, la stringeva fino a soffocarla, la girava e la rigirava e la piegava contro terra, riuscendo a distenderla a ventre piatto sul tappeto. Quel contatto incendiò i loro sensi. I suoi lunghi capelli biondo cenere, raccolti in un elegante chignon che lasciava scoperto il lungo collo, le sopracciglia ad ala di gabbiano, gli occhi azzurri leggermente a mandorla e la bocca carnosa e purpurea le davano un’aria esotica e sembravano sprigionare una forza ipnotica. <!--mstheme-->Con i sensi svegli, aspirava l’odore della sua traspirazione, pregnante ma meno aspro delle more del Serrone, che andava a raccogliere da bambino. Le piaceva farla sua prigioniera, distendendola con la faccia al cielo.  Le sue dita corsero sulla pelle nuda delle cosce. Aveva il corpo modellato ed aggraziato come una vergine santa. Fantasima si agitava, ribelle e sgusciante come un’anguilla e questa  sua apparente resistenza lo accendeva maggiormente, poi si acquietava e, placata, vinta e ansimante desisteva da  ogni antagonismo e si abbandonava esausta. La forza le squagliava le ginocchia. Le mancava il fiato. Ma il suo respiro arrivava caldo sulle sue guance ed era  come se lui respirasse per entrambi.

- Prendimi i seni - mentre slacciava la camicetta rossa.

Ancora la scoperta di un universo misterioso! Dai suoi studi di anatomia ne conosceva l’esistenza e la funzione ma ignorava che fossero capaci di sconvolgere solo a guardarli. Con tenerezza cominciò a palparli, a carezzarli, a baciarli, imprigionandoli nelle mani avide, succhiando i capezzoli che si allungavano. Anzi quello sinistro, a tratti, si ritraeva timoroso, mentre quello destro diventava sempre più turgido. Si scambiarono uno sguardo intenso. Fantasima osservava attentamente il suo volto magro e quel naso importante. Che richiamava alla memoria le raffigurazioni dei guerrieri arabi. Era decisamente bello! Attirò la sua testa sulla propria e le loro bocche si incontrarono: lei incollava le proprie labbra alle sue e la sua lingua si insinuava nella sua bocca; i suoi seni si irrigidivano  ed i suoi capezzoli turgidi si offrivano ai suoi morsi, a denti pieni. Lui si ritrovava svuotato dell’iniziale animosità, intento ad alzarle il  lembo dell’ampio vestito e si imbatteva in un elastico che bastava tirare per trovarsi le mani sulla sua pelle rosea e calda e sul suo sesso profondo e misterioso. Mentre le sfilava gli slip, la carezzava dolcemente e constatava che il suo corpo le rispondeva immediatamente; la premeva e la sentiva tendersi e ed incollarglisi. Con la mano sinistra si addentrava nella zona prima per lui proibita, mentre con la destra si insinuava sotto le natiche tonde e dure:  le sue cosce si stringevano su di lei, mentre una vampa di calore imprigionava le sue dita. Non riusciva a decifrare il proprio stato d’animo.

- Lascia che ti guardi tutta! - immerso con i suoi occhi pungenti nel panorama della sua carne nuda e fragile, divisa in mezzo da una fenditura che sembrava profonda, ma le cui due metà combaciavano perfettamente. Pochissimi i peli ed un biancore di neve con una sfumatura di rosa, lamelle di carne delicate come labbra o petali di fiori, che invitavano alle carezze.

- É fantastico! Posso toccarti? -

Gioia e confusione si rincorrevano nella sua mente senza sosta. Sapeva che per lui l’amore era una pazzia, ma non provava nemmeno l’ombra di un rimorso.    

- Se lo desideri  veramente... saremo solo un uomo ed una donna. -

Delicatamente vi portava la sua mano ed avvertiva una sensazione dolcissima come niente al mondo gli era mai parso così dolce. Più affondava le sue dita nello spiraglio più provava un senso di caldo, accompagnato da uno strano umore che aiutava la sua mano a insinuarsi in questo vicolo portentoso. Egli si attardava, si fermava e indugiava, perduto nella dolcezza dei suoi occhi languidi e luccicanti, mentre sfilava i bottoni della propria tonaca, abbassava le sue mutande e scopriva il proprio coso sbalorditivamente rizzatosi. Lei era distesa con le gambe strette, bianchissime e tonde, tese davanti a lui, che le appoggiava il suo affare cinese sulla pelle e provava una scossa elettrica per tutto il corpo, che lo induceva alla ricerca di un contatto più intimo e profondo. Era come dispersa in un sogno. Stranamente felice. Immerso tra le sue grandi labbra si sentiva come su un cuscino di fiori di campo, tenero, caldo, che lo illanguidiva e lo squagliava nel corpo e nell’anima, ma, anche se premeva con tutto il suo peso, stentava a penetrarla.

- Non puoi aprire di più le tue gambe? -     

- Come quando faccio la pipì? - ed  allargava lentamente le morbide cosce, mentre lui si alzava a sbirciare e distingueva uno squarcio scuro, che palpitava tra due bordure di pelle chiara. Sulla punta avvertiva uno strano bruciore, perciò indugiava immobile, in attesa di chissà quale rivelazione. Fantasima respirava rapidamente e sentiva il suo ventre scendere e salire verso il suo affare lubrificato, ondulando come un campo di grano sotto la brezza mattutina; gli passava una mano sulla spalla  e lo attirava a sè, tutta vibrante, i muscoli tesi come un arco, i suoi occhi fissi in un punto lontano. Preso da indicibile piacere, le infilava entrambe le mani sotto i fianchi, la spingeva contro di lui e cominciava un ritmico saliscendi con tutto il suo intero corpo, prigioniero in questo abisso di fuoco e di dolcezza, mentre lei gioiva con sospiri e piccoli gridolini. Eccitatissima,  dirigeva la sua punta verso i dedali della sua vulva, manovrandolo avanti ed indietro, girandolo e rigirandolo intorno al clitoride, a sfiorare il suo fiorellino e giocando a infilarglielo, il corpo sempre più pronto ad accoglierlo e a farlo godere. E lui non si sentiva più un Sacerdote, disposto a spendersi nel servizio e nell’amore per gli altri, ma un fragile essere umano, alla disperata ricerca di un’identità smarrita, senza Fedi nè certezze capaci di dargli la forza di resistere alla felicità che lo inondava e lo travolgeva come un torrente nella piena invernale. Sentiva  tutta la spinta della sua virilità soffocata ed il suo coso diventava rigido, esigente, duro come quando si svegliava, nelle albe inquiete, da un sogno dimenticato. Lei gemeva, agitava la chioma, con gli occhi fuori dalle orbite, mormorando parole senza nesso

- Bravo!... formidabile!... ancora....ancora...! -

Queste farneticazioni sconnesse lo facevano sentire vivo ed importante. Fuori dal nulla che lo angosciava e lo attanagliava sin da bambino. Quasi una Divinità, capace di dispensare gioia ad un altro essere umano e a se stesso. Si è qualcosa, si può divenire importanti e significativi solo se ci si sente importanti ed essenziali almeno per un’altra persona. In questo specchiarsi, vivere in un’altra e per un’altra persona, forse, consiste la vera grandezza dell’amore. Ma la gioia è prima dell’amore e lui non aveva ancora preso la sua parte di pieno piacere, perciò la voleva subito, prima che i fili del suo pensiero intrecciassero altri grigiori.  Era come al caldo, protetto dalla sua tenera pelle, all’esplorazione dei suoi angoli più nascosti e deliziosi e lei lo lasciava fare, alzando le anche, aprendosi e serrandolo sulla sua carne; d’un colpo si sentì invaso come da un sacro furore: l’assalì, la penetrò ripetutamente ed incessantemente, ad un ritmo martellante, pazzo delle vibrazioni della sua pelle, del suo odore, del suo sudore e del suo calore, mentre lei sbarrava gli occhi annichilita e accompagnava i suoi movimenti frenetici, mormorando un dolcissimo - Sì, amore mio!... Sì!.... Così... Per l’eternità!... - che si smorzava in un eloquente, immobile silenzio.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo II

 

Una relazione litigarella.

 

 

 

Il Cielo era altissimo, intarsiato di nuvole bizzarre, retrocedenti a lumaca verso le vette di Monte Genuardo, ricoperte di un molle manto arboreo. Ormai le tenebre si diradavano come un gran fiume tumultuoso, dalle rive minacciose, invadenti, perse ed incruente. Le brume sfumavano tra i tulipani e i bouganvillees, ingabbiati e svettanti nel cortile della Chiesa Madre. Zabut era ancora invisibile e silenziosa entro inattingibili boschi, con le sue immani fiancate oscillanti su dirupi di avambracci mutilati, quasi prometeici, formidabili, minacciosi edifici. Il clamore dei bimbi, inerpicati per erte e prati o in roride aiuole, verso la scuola Elementare, significava la ripresa della vita. Le botteghe riaprivano, lucenti e  rutilanti quali astri e il pizzicante odore delle vernici si fondeva con quello del candido gelsomino. Tutti gli zabutei tornavano a respirare a bocca aperta, alternando un colpettino di tosse con un respiro affannoso per le scale, patate bollite e salate con un pochino di prosciutto cotto, il caffè nero con un bicchiere di latte di capra appena munto,  ansia, panico e labbra strette con un filo di speranza. Rifiutando di specchiarsi nella propria solitudine, Onofrio si guardava intorno, ricercando nei muri e nelle pareti una spiritualità ormai assente. Sentiva come un groppo. Una sensazione inspiegabile di malessere. Una rapida impressione di accartocciarsi. Avrebbe desiderato risvegliarsi fuori dalla sua parrocchia. Ritrovarsi per città, continenti e mondi. Sempre uguale il cammino, regione su regione, con altri occhi e capigliatura; riconoscere luoghi e tracce, assaporare ambite certezze; schiudersi alla vita, ripartirne, indi soggiacere sotto la medesima lampada.  E rivivere in questa luce giochi e  burle innocenti, che lui aveva amato sin dalla sua infanzia. Se il pulviscolo non è altro che terra, soffio vitale intriso di favola e di funzione, squilibrata essenza di un medesimo sussistere, plausibile a patti terribili e misteriosi,  lui già percepiva di aspirare ad un’espiazione. La mediocrità lo aveva sempre schifato. Non gli diceva nulla la prospettiva di anni sereni fra lini turchesi e chiare bifore, disciplina di mucchi e  bicchierate al diritto di precedere, ramanzine e verdetti. Aveva cercato l’impareggiabile e non l'aveva ancora trovato.  Come un vagheggiare la persona per la persona. In singolari abboccamenti. In un mucchietto di piccole braccia avvinte. Entro ridondanti rivestimenti. Oltre sé. Su se stesso. Sempre vita. Accompagnatori scontati. Amicizie. Acque, ma amarognole o piovane. Sermoni cattolici e docenze arabe. Frizzanti scarpate. Mulinelli pescosi. Polpi da sferzare. Conviti di aragoste corazzate.  Ispirazioni  corrotte. Aveva sempre ondeggiato tra venti contrapposti. Ma aveva imparato a sopravvivere. A galla, dopo erratiche solitudini. Una coscienza assopita. Uscendo dalla Sacrestia, popolosa di argenti, quadri, ricchi scaffali, gran divani, leggii, cristalli, vasellame, lumiere, fiori di robinie, Onofrio stentava a dissociare le azioni ed i momenti della sua esistenza. In questo luogo sottili lamine aride, da quella parte bagni a spruzzo e confusioni. Rotture autunnali scoloranti le ibernazioni. Si trasportava quasi a sorvolare i suoi affanni con inettitudine, a liberarsene e vincerli.  Quel mattino la stessa Crocifissa si era spruzzati appena gli occhi, veloce come una gattina, e stentava a carburare. Sin da quando era piccolissima per lei spiccicare le pupille era stato un autentico dramma quotidiano.  Pur appoggiandosi ad un manico di scopa di palma nana, arrancava ancora traballante, sospettosa e più diffidente del solito. Scendendo dal letto, si era infilata in  un abito verde ramarro, liso e rattoppato, su cui spiccavano, quasi incollati e sedimentati, una treccia di aglio ed una di peperoncino che declinavano sulle guance tirate e sporche di cenere e fuliggine. Sentendolo mugugnare, non le parve vero potere scaricare su Onofrio il fastidio di dovere iniziare l'ennesima giornataccia di fatica.

- Piegati giunco che passa la piena! Ti decidi ad uscire, razza di furfante, invece di rintanarti lì tra le padelle a grugnire veleni e a sfoggiare battute di spirito contro di me? Vieni fuori, pezzo di consumapreti! Per tutte le rape secche ! Se campo e divento quella gran signora potente che sogno, te la farò pagare! Esci via da quella cucina asfissiante e  puzzolente. Perché ti nascondi?

Onofrio non era tipo da lasciarsi smontare tanto facilmente e la conosceva da troppi anni per non sapere come risponderle per le rime  Avvolto in un elegante doppio petto grigio, con un garofano rosso all'occhiello, calzini azzurri, una cravatta giallo - oro ed i capelli all'ultimo grido, tinteggiatigli verde e viola da suo compare Massimo,  si spaparanzava pigramente sull'uscio, assaporando i primi raggi dell'alba, che sembravano volerlo morbidamente pizzicare.  

- Maledetta campagnola, cosa hai da sbraitare? Sei più stomachevole di un infarto di notte! Ti credi di essere tra i porci? Stai lontana da questa sacrestia. Vai a farti inchiodare  al Vallone del Pisciatoio! Tirati via da questa porta.

E poiché lei faceva orecchie da mercante ed anzi gli si accostava dondolante e serpeggiante, le mollò una gomitata ed un energico buffetto su una gota. 

- Tò! È questo che bramavi? Per questo cominci a ronzarmi intorno appena comincia la santa mattinata?

Era bella Crocifissa, con le sue treccine bionde ed i suoi chiarissimi occhi azzurri,  nonostante l’aspetto trascurato. Ed era consapevole di esserlo. Quando scendeva per i Vicoli sentiva su di sé sguardi divoratori, che sembravano volerla divorare - Ma che ti credi Marlon Brando? O Alain Delon?? Sgarbato e tronfio d'un pallone gonfiato! tu sei simpatico come il puzzo dei piedi!  o come una spinta per le scale ! Sei il primo esperimento riuscito di clonazione del letame. - Replicava d'istinto inviperita, ma subito, frastornata dall'eco delle sue stesse invettive, accennava ad afflosciarsi in un tormentato vittimismo, offrendo la chance di una tregua. - Sono morta! Distrutta! Consumata! Perché mi maltratti e mi fai male?

- Perché esisti. - puntualizzava serafico Onofrio.

Crocifissa era stupefatta della sua protervia e della presunzione che ostentava. Non poteva veramente esserle indifferente. In fondo si trattava solo di un bluff. Un pupazzo di neve, pronto a squagliarsi ai primi bagliori di sole.

- Lascia che ritorni il Vescovo! lascia che rincasino sane e salve quelle quattro ossa che tu stai spolpando perché ora non ci sono! Ride bene chi ride in ultimo!

- Come si fa a spolpare uno che non c'è, scriteriata, villica e villanaccia e che non sei altro?

Tutto poteva subire! Le spinte, i pizzicotti, le botte, le minacce! Ma essere presa in giro per le sue origini non le andava proprio giù! Era come se le si formasse un groppo alla gola! Sentiva mancarsi l'aria! Le salivano caldane incontenibili! Bisognava che reagisse. Che lo colpisse in qualche sua paura certa.

- Buffone di città, zimbello del popolo, proprio tu mi rinfacci che sto in campagna? Per tutti gli asparagi! Tra poco ci sarai tu a rinfrescarti la testa, messo a zirlare in qualche sperduto podere. Intanto, fin che ti va bene, sbevazza, sperpera, deprava ... con Don Adalgiso, che era un bravo Sacerdote. Forza a bere, giorno e notte, a sballarvi e spassarvela alla grande. Invitate ragazze; ingrassate parassiti e spacciatori, spendete e spandete a tutta forza!

In effetti, da qualche mese, il suo parroco era irriconoscibile. Non aveva orario per il sonno, né per le preghiere. La sua Canonica sembrava diventata un autentico casino. Dalla sua modesta casetta, adiacente alla sacrestia Crocifissa ascoltava schiamazzi e bagordi a tutte le ore. Passerella notturna di fanciulle avvenenti, ma per niente costumate. Loschi figuri sconosciuti che si aggiravano nelle ombre. Un quadro nitido e niente affatto tranquillizzante. Crocifissa era sinceramente affezionata a Don Adalgiso. Aveva accudito alla pulizia delle sue stanze sin dal suo arrivo. Ne aveva visto crescere il prestigio e l'autorevolezza tra i parrocchiani. La capacità di predicare e di incantare i fedeli. Aveva conteso al birbante sacrestano uno spazio del suo cuore. E si era ritagliata un suo incavo esistenziale alla sua ombra rassicurante. Una nicchia piccolina, ma sicura. In cui passare le ore al riparo dai venti e dai marosi.  Teneva in ordine la sua biancheria. Inamidava i suoi colletti di un bianco purissimo, che spiccava sulla sua tonaca nera e si intonava con il suo sorriso aperto ed suoi occhi dolci e buoni. Onofrio non si era mai rassegnato al potere che le derivava da questo suo ruolo. Le faceva tutti i dispetti possibili. La irritava. La sfotteva ad ogni occasione. La denigrava e la metteva in cattiva luce agli occhi del prete. Cercava di renderle l'esistenza dura ed insopportabile. L’avrebbe odiato con tutte le sue forze, se non le si fosse rimescolato il sangue solo a vederla. Anche lui era legatissimo a don Adalgiso. Profondamente. Appassionatamente. Senza limiti. Fedele e disponibile a tutte le bugie per coprirlo. Pronto ad assecondarne i capricci e le voglie più strane, dal gelato a dicembre alle fragole in agosto. Vivendogli accanto si era allenato ad indovinarli in anticipo e, a furia di prevenirne i bisogni, aveva finito per suscitarne pure qualcuno. A poco poco la sua complicità, inizialmente deferente e passiva, si era resa attiva e colpevole. In fondo alla sua coscienza egli era consapevole di questa sua vivacità mefistofelica, ma recalcitrava dinanzi a chi gli sbatteva in faccia questo dato di fatto.

- Non è vero, né verosimile, razza di balorda e intrigante! È l'invidia che ti fa sparlare. L'amarezza di vecchia zitella inacidita. Chissà cosa daresti per una carezza di don Adalgiso!

La verità punge e trafigge dolorosa come uno spuntone di agave. Nonostante la sua avvenenza, la ragazza aveva superato i vent’anni e non aveva ancora accalappiato un marito. Ma non si sentiva ancora destinata alla solitudine. Crocifissa ignorò l'ultima stoccata per non acutizzare il bruciore e riattaccò la solfa, puntando l'indice, minacciosa. 

- È questo che ti ha raccomandato il Vescovo sul punto di partire per la Terra Santa? È in questo modo che si aspetta di veder curare i suoi parrocchiani? Ritieni che sia questo il dovere di un buon sacrestano? Di andar rovinando i beni della Chiesa e il suo Ministro? Perché io, il povero Don Adalgiso, lo considero rovinato, da quando si è infognato in questa vita scostumata. Tra tutti i giovani preti della Provincia, prima, era ritenuto il più promettente, il più parsimonioso, il più austero e integralista, ma ora è divenuto il più trasgressivo. E questo grazie a te e alla tua scuola.

Antipatica e rompiscatole sempre! Ma, quando assurgeva a moralista, diveniva assolutamente odiosa! In Onofrio scattava un desiderio di autenticità irrefrenabile ed un'intolleranza quasi fisica.

- Accidenti! Perché t'impicci in quel che faccio e che sono? Non ce li hai più in campagna i buoi da custodire? Il corvo è diventato nero per prendersi il pensiero che non gli apparteneva! Sì, mi piace sbevazzare, amare, sfumazzare, andare a puttane. Lo faccio e rischio la mia pelle, non la tua. Fatti gli affaracci tuoi! Vivi e lascia vivere!

Crocifissa si sentiva impotente davanti a tanta tracotanza. Neppure il pudore di sforzarsi di apparire! Una presunzione di impunità smisurata e sconsiderata! Il paese era pieno di dicerie. Fiorivano leggende sulle notti spericolate nella sacrestia della Chiesa Madre. I fedeli già si allontanavano scandalizzati. Che valore poteva avere una Comunione offerta da mani infognate nei vizi e nella lussuria?  Ormai molti andavano a Messa al Convento dei frati Carmelitani. Fra poco sarebbero rimaste solo le vecchiette zoppicanti, che non avevano né lo spirito né la forza di trascinarsi in qualche altra Chiesa. Possibile che fosse tanto cieco ed incosciente?

- Senti che faccia di bronzo! Quando il gatto non c'è, i topi ballano! Ma non ti rendi conto che rischiamo entrambi di restare con un pane senza una fetta? Hai un cervello così piccolo che un'idea per uscirne deve fare manovra! Inoculagli qualche fermentato lattico liofilizzato ogni tanto!

 Onofrio sentiva il sangue affluirgli al cervello. I nervi tesi. I capelli rizzati. Quella stupida serva era capace di fare affiorare i suoi aspetti più istintivi e violenti. Gli prudevano le mani. Fra poco avrebbe perso ogni controllo.  La vagheggiò distesa a terra. Immersa in un lago di sangue. Finalmente esanime. Priva di respiro e, sopratutto, di parola. Temette di trasformarsi in un assassino. Nella speranza di farla desistere, le vomitò addosso una scarica di maledizioni ed invettive sinistre.

- Che ti possa venire una pepita pulcinara sulla punta della lingua! Puh! hai l'alito che puzza di aglio. Sei peggio di un letamaio rustico, di una capra rampante, di una ghianda da porcile, di una cagna in calore, in un impasto di fango e di sterco! Gallina petulante... prima o poi muore!

Era come se ricevesse dei complimenti. Era più ringalluzzita e pimpante ancora. Certi rapporti non sono belli se non sono litigarelli.  Spesso dietro una manifestazione di indifferenza o di disprezzo si cela una passione ardente.

- Mi minacci? Vorresti cucirmi la bocca?  Mica possono tutti olezzare di esotici profumi come un signorino, né starsene sdraiati a sbafare i piatti più stuzzicanti! A te le tortore, i pesci, gli uccelletti; a me lascia che tocchi quel che mi tocca, aglio compreso. Tu sei fortunato, io no; a ciascuno il suo. A me il bene, il male a te.

- Non sarai mica gelosa! - Si meravigliò Onofrio - Mi pare quasi che tu mi porti invidia, perché a me tutto va bene e a te di male in peggio. È giusto così! Io debbo far l'amatore, tu la contadina pettegola; io devo vivere tra le rose e tu fra le spine.

- Non farti soverchie illusioni. Non ci sono rose senza spine. Credo proprio che diventerai un setaccio per il boia, tu. Sì, sì, ti trascineranno per le strade con il giogo sul collo e ti crivelleranno con i pungoli. Basta che il Vescovo torni a casa e comincerai a tremare come un coniglio.

Alla sola evocazione di Monsignor Petrone Onofrio smarriva la sua apparente baldanza. Il Vescovo era stato sempre la sua bestia nera. Un incubo dei suoi sogni notturni.

- E come puoi sapere che non tocchi a te prima che a me? Anche tu gli potresti sembrare complice di don Adalgiso.

Finalmente toccato! Era il momento di incalzarlo senza pietà!

- Perché io non me lo sono meritata. Tu sì, te lo sei guadagnato e te lo meriti. Ma voi, fottetevene! Sbevazzate, spassatevela, sbafate, ingozzatevi di bocconi grassi! Illuditi che durerà in eterno.

Disperato, tallonato, Onofrio ebbe un ulteriore guizzo per divincolarsi. Non si sarebbe fatto mettere i piedi sul collo da quella donna. Era chiaro come il sole il suo obiettivo di dominarlo! Le donne sono capaci anche di autolesionismi pur di vedere un uomo strisciare ai loro piedi.

- Risparmiati la fatica di discorrere, se non vuoi finire scannata come bestia da macello. Anche la mia pazienza ha un limite. Zitta e fila. Io voglio andare al Mercato a scegliere i pesci per stasera. Che c'è? Perché mi fissi, lazzarona? Che vuoi da me? Non hai capito che non ci esce niente per te?

Crocifissa era allibita ed umiliata. Disorientata e avvilita. Ma mai doma e rassegnata. Tutti i giovanotti di Zabut se la mangiavano con gli occhi quando passava davanti ai Bar e questo disgraziato di sacrestano la snobbava!

- Per tutte le rape secche! Hai ancora l'impertinenza di sfidarmi! Credo proprio che questo epiteto di lazzarone sarà  tua prerogativa fra non molto. Ti vedo già pezzente e mendicante agli angoli delle strade.

Onofrio ormai aveva riconquistato un certo autocontrollo. Riaffiorava il suo edonismo opportunistico e spensierato. Esibì una disinvolta scrollatina di spalle.

- O.K. "fra non molto". Purché intanto la vada come adesso. Ogni lasciato è perduto.

Era come parlare allo scirocco, che frastorna nella calura estiva! Si rischiava di venire travolti e trascinati dalle sue magiche folate. Crocifissa gli lanciò un altro messaggio pessimista.

- Buon tempo e maltempo non durano tutto l'anno. Ciò che ti spiace arriva prima di quel che desideri avidamente.

Ma Onofrio era con i piedi alla via. Nessuno è più sordo di chi non vuol sentire.

- Non fare la Cassandra rompiscatole. Vattene tra le tue galline e levati dai piedi! Per tutti i grani di melograno, non mi fare perdere altro tempo!

Crocifissa rimase sola con se stessa e con le sue angosce.  Onofrio l'aveva piantata infischiandosene altamente delle sue prediche. Aveva carattere, non c'era che dire. Se non fosse stato insopportabilmente arrogante, poteva anche risultare affascinante e seducente. Ma ogni legno ha i propri fumi! Peccato! Con la tempra della sua fede semplice e schietta si rivolse al Signore Gesù supplicandolo che il Vescovo ritornasse come una morte subitanea! Da troppo tempo era lontano. Se non faceva ritorno lui, in pochi mesi, nemmeno quel che restava della parrocchia avrebbe resistito più. Per Onofrio non c'era rimedio. Il suo legno era destinato alle voragini infernali. Era scettica anche sulla possibilità di recuperare Don Adalgiso. Chi va con lo zoppo... va piano piano! Era un bravo prete. Purtroppo si era guastato come il vino in fermentazione in una botte che prende aria. Intorpidito, quieto ed appagato tra i morbidi piaceri del vizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo III

 

La maliarda, la pivella e lo sbandato.

 

In realtà don Adalgiso non era per niente rilassato e sereno. Dubbi e perplessità lo attanagliavano. Si sentiva indolente e senza pace. Pigro, ma irrequieto. Stentava a riconoscersi nelle sue azioni quotidiane.  Un nomade. Un perditempo. Un fannullone insoddisfatto. Avvertiva l’urgenza di una trasmutazione pura dell’uomo, del reale, di Dio, un forte richiamo a liberarsi della ripetizione o della memoria, ma una dolce apatia lo assopiva e lo immobilizzava.

Finché era rimasto insieme a Monsignor Petrone, si era dimostrato onesto e bravo; ma poi, non appena libero di seguire le sue inclinazioni, aveva mandato in rovina tutte le sue fatiche e le sue privazioni. 

Era subentrata un'ignavia dolciastra e, come una tempesta, lo aveva inondato di grandine e pioggia. Scoppi d'ira, impazienze e distrazioni. 

Verecondia, virtù, se le era trascinate via. Fatto e disfatto. Nascosto. Travestito. Consapevolmente espropriato dell'essere se stesso. Con l'angoscia assillante di esser smascherato.

Dopo non si era curato di rimediare. Più tardi, al posto della pioggia, era sbocciato l'amore, nel suo petto. E mentre ci restava aveva alluvionato il suo cuore.

E ora, tutti insieme, beni e fiducia, fama e virtù e decoro se li era giocati su un asso di cuori. 

In realtà era diventato un buono a nulla. Un fuoriuscito che non si cura di rientrare. Ne era perfettamente cosciente. Le stesse travi della sua Chiesa trasudavano ignominie. Puzzavano di marcio! Aveva provato ad inserirsi nei suoi punti di caduta, di crisi ed aveva finito per fomentarne la degradazione. Non aveva fermentato nei fedeli libertà, purezza, plenitudine, ma ne aveva visualizzato i limiti, le immobilità, gli oggetti per chiudere ed oscurare. No. La sua Chiesa non poteva venire riparata. Niente e nessuno poteva salvarla dal crollo totale. Quando le fondamenta non reggono più, non c'è nessuno che possa darti aiuto.

Ne soffriva. Ne pativa. Gli faceva male il cuore al pensiero di quel che era e di quel che era stato.

Per frugalità e resistenza era stato di esempio agli altri. Era un parroco riflessivo, serio e posato, forse un po' triste e malinconico, che studiava con passione e imparava con facilità. Ultimati gli studi teologici si era gettato sui decretalisti, sulla medicina, sulle arti liberali e sulle lingue classiche. Aveva studiato con particolare interesse la scienza delle erbe e degli unguenti, divenendo esperto in febbri malariche e slogature, in piaghe ed ascessi. Nonostante questa spasmodica voglia e questa straordinaria capacità di assimilare, la sua fede religiosa era rimasta quella di un’anima semplice  Si svegliava di buon mattino, per tempo, e rivolgeva il suo primo pensiero a Dio, offrendo il cuore e l’anima a Gesù e Maria. Adorava Dio, riconoscendolo proprio Signore, Creatore e Redentore, a cui ogni onore è dovuto e dal cui ogni bene dipende. Lo ringraziava di averlo conservato la notte passata, chiamato a penitenza e allo stato Sacerdotale, proponendosi di non offenderlo mai.

Gli offriva tutto quello che avrebbe pensato, detto e fatto nella giornata incipiente e in tutto il tempo della sua vita, impegnandosi ad operare sempre ad onore e a maggior gloria della sua Divina Maestà.

Per i meriti di Gesù Cristo, suo Signore e padrone, gli chiedeva le grazie necessarie per fuggire il male, per seguire il bene e passare la giornata santamente e senza peccato.

Subito vestito, si inginocchiava, faceva le preghiere della mattina e, poi, almeno un’ora di orazione mentale. Si metteva di fronte a Dio, pensandolo presente e lo adorava umiliandosi profondamente di fronte a lui e riconoscendosi indegno di stare alla sua Divina presenza.

Gli domandava grazia di  far bene l’Orazione, implorando l’aiuto della Beatissima Vergine, dll’Angelo Custode e dei suoi Santi Avvocati.

Si rappresentava alla memoria il libro su cui meditare, in genere il “Buseo” o il “P. Ambrogio Spinola” o il “P.Luigi da Ponte”, e considerava e ponderava attentamente il frutto che ne voleva cavare.

Con tali considerazioni si eccitava a vari e pii affetti, come la detestazione ed il pentimento dei peccati, l’ammirazione per la bontà di Dio, che sopportava le sue iniquità, il desiderio di emendarsi e mutar vita ed, infine, il ringraziamento dei benefici ricevuti.

Faceva fermi proponimenti e risoluzioni di voler lasciare tutti i peccati, anche quelli di pensiero, impegnandosi in atti di virtù e di devozione.

Ringraziava Iddio dei buoni pensieri e gli offriva le risoluzioni fatte in unione dei meriti di Cristo, suo Signore, donandogli la Grazia di metterle in pratica, con l’intercessione della Beatissima Vergine, dell’Angelo Custode e dei Santi Avvocati.

Diceva le Ore lentamente, non per disobbligo ma con riverenza, quindi celebrava la Santa Messa, non per usanza ma con ogni possibile devozione.

Dopo la Messa, o in un altro spazio mattutino, con il corpo scoperto e genuflesso, leggeva un Capitolo del  Nuovo Testamento.

Programmava meticolosamente la sua giornata, persino il mangiare e il dormire, ma, particolarmente, determinava il tempo da riservare allo studio della Teologia Morale e della Sacra Scrittura.

Recitava Vespro e Compieta a suo tempo, “verbi gratia”, due ore dopo il mezzodì.

Dopo il Vespro faceva almeno mezz’ora  di lezione spirituale, con “L’introduzione alla vita divota di S. Francesco di Sales”, “L’istruzione dei Sacerdoti di P.Molina”, “La guida dei peccatori” ed il “Memoriale” di P. Granata, o, infine, “Revela oculos meos... (Psal.18).

Diceva il Mattutino, per il giorno seguente, sempre alla sera e, prima di andare a letto, faceva attentamente l’esame di coscienza. Ringraziato Dio dei benefici ricevuti nel corso della giornata, gli chiedeva grazia di conoscere i peccati commessi e di aborrirli. Ma ancora ignorava cosa fosse veramente peccare! Pensava ai peccati fatti con pensieri, parole ed omissioni, soffermandosi su quelli ai quali si sentiva pericolosamente inclinato. Non aveva indugiato troppo, con lo sguardo, sul volto, che traspariva dai veli della bionda signora, in  seconda fila dei banchi? Non aveva interrogato con curiosità morbosa quel marito che gli confessava una scappatella coniugale? Non aveva così offeso Dio? Considerata la bruttezza dei peccati, gliene chiedeva umilmente perdono e faceva proponimenti di non offenderlo più, meditando la sua grazia.

Procurava di mettersi nello stato spirituale in cui avrebbe voluto trovarsi nell’ora della propria morte, recitando il Confiteor, le Litanie della Madonna e il De Profundis per i morti.

Solo a quel punto spegneva l’abat-jour ed aspettava il sonno, contando le pecore ad una ad una.

Si confessava tutte le mattine con Monsignor Petrone, anche se non aveva commesso peccati gravi.

Vestiva sempre moderatamente, evitando colori e bizzarrie studentesche; portava i capelli e la chierica con l’opportuna decenza e modestia Ecclesiastica.

Se si trovava in compagnia, evitava di dire  o far cosa che potesse dar loro cattiva edificazione, consapevole che gli Ecclesiastici devono essere di esempio ai laici.

Fuggiva con ogni diligenza la frequenza intensa e ravvicinata delle donne ed evitava di trovarsi, da solo con qualcuna, in sacrestia o nella sua canonica.

Rifuggiva dai giochi, sopratutto di dadi e di carte; al massimo, ogni tanto, si concedeva qualche partita a scacchi e a dama con il Vescovo o con il suo sacrestano e, con entrambi, finiva quasi sempre per buscarle.

Schivava sempre la compagnia dei Sacerdoti in odore di mondanità e praticava quelli esemplari per spirito Ecclesiastico, con cui, annualmente, faceva gli Esercizi Spirituali.

Durante la giornata, spesso, alzava la mente a Dio specie ai rintocchi dell’orologio, con qualche breve ma fervente iaculatoria, verbi gratia, invocando la morte, per ricongiungersi a Lui in eterno ed essere tutto quanto del Signore. Insomma era un perfetto soldato di Cristo che anche i migliori  prendevano come modello di vita.

E ora? Che cosa era diventato? Uno straccio. L'ombra sbiadita e fuggente di se stesso. Una distesa d'altra espressione. A chi lo doveva? Solo alla sua testaccia matta e alla sua insaziabile sensualità. Il suo profumo inconfondibile tornò ad inebriarlo e a stordirlo. Fantasima gli veniva incontro, avvolta da una lunga tunica bianca e risplendente di una luce fosforescente.

- Per tutte le aragoste, mai l'avevo fatto un bagno freddo così tonificante! Sonia mia, non mi sono mai sentita così lustra e pimpante.

Sonia sfoggiava un provocante vestito rosso - porpora e dalla testa le fuoriuscivano due tirabaci così pronunciati che sembravano un paio di corna di montone. 

- Tutto ti gira bene, se l'amore ti riscalda l'esistenza.

Fantasima evidentemente non aveva ancora intravisto il suo Adalgiso - Che c'entra l'amore con il mio bagno?

Sonia la conosceva come le sue tasche. - Non più che il tuo bagno con la passione che ti arrovella. Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

Non rinunciava a conoscere le persone cui la legava qualcosa di essenziale, anzi le accoglieva nel rapporto con l'ignoto. Le due amiche erano così assorte nelle loro quisquilie femminili che non si accorsero che Don Adalgiso, entrando in punta di piedi, si appartava in un cantuccio, estasiato nella contemplazione. Una Venere bellissima! Questa tempesta lo aveva strappato dall'assennatezza e dalla pace religiosa, sotto cui si riparava. Cupido e Amore erano piovuti nel suo petto e ormai per lui non c'era più rimedio. Cosa desiderava veramente? Nel suo cuore le pareti erano fichidindia marce e la sua Chiesa andava tutta in rovina. Che voleva fare? Non gli importava un fico secco! Avrebbe voluto poter vivere mille vite per poterla amare in ognuna di esse. Non gli sembrava vero, intanto, poter restare a curiosare nascosto, mentre Fantasima era concentratissima nelle rifiniture del suo look serale.

 - Sonia mia, per piacere: guarda se mi sta bene questa collana di lapislazzuli. Voglio farlo uscire di senso Don Adalgiso, la luce dei miei occhi, il mio stregone. Che significa amarsi se non prendersi per mano e volare?

Da quella grande ruffiana e incantatrice che era, Sonia ne rafforzava la consapevolezza - Ma che indugi ad agghindarti? Sei morbida e sinuosa come una biscia! Gli amanti mica amano la collana, ma quello che c'è sotto!

- E allora?

- Allora che? Rilassati. I lapislazzuli sono un infallibile richiamo sensuale…

Fantasima non era certamente ignara del suo fascino e della sua forza seduttiva, ma, come ogni donna innamorata, non voleva lasciare al caso neanche il più piccolo dettaglio.

- Guardami, no? e dimmi se mi sta bene. Altrimenti mi metto questa di granati.

- Con il granato amore assicurato! Specie se lo tieni appoggiato al seno per un'intera notte. Infiocchettati con quel che ti pare, ti dona ogni cosa. Sei così erotica, demoniaca e sensuale da ridestare anche un cadavere!

Quale ragazzina non ama ricevere complimenti? Ma Fantasima non era così allocca o presuntuosa da non percepire le esagerazioni - Non voglio che tu mi lisci e mi spalmi come una marmellata di more sul burro!

 Sonia tornava materna e protettiva - Che scimunita sei! Io, per me, preferisco che mi offrano lodi sperticate e bugiarde piuttosto che critiche sincere e graffianti, o che gli altri deridano il mio aspetto o mi costringano a guardare impietosamente dentro me stessa.

Fantasima già si sentiva eterea.  Quasi priva di peso - Invece io amo l’autenticità e la schietta verità. I bugiardi, io non li sopporto. Né gli adulatori, i lecchini e i calati - calati! - Sentiva la pelle sgranularsi. Un chiarore ovattato intrappolato nelle palpebre socchiuse - Se un maschio mi ama profondamente, deve farlo senza alcuna riserva mentale. Come io lo amo. Con tutto il mio corpo e la mia anima. L'amore è un bicchiere d'acqua da sorseggiare lentamente nel deserto.

Se iniziava a sognare ad occhi aperti Sonia si allarmava. Sentiva la gravità delle sue ginocchia anchilosate. Dimagrite. La propria carne molliccia, chiazzata. Le ossa dolenti, i denti traballanti, i cappelli esili e fragili. Annichilita da amori e delusioni. Spesso una dolcezza, una mestizia le pervadevano l'anima. La rendevano energica e reattiva.

- Per tutti i carciofi spinosi! Sbagli se tu pensi solo a lui, per lui solo sei così compiacente  e tutti gli altri li disprezzi. Un solo amore? Roba da gentildonne ricche e pasciute, non da popolane avventuriere e affamate. L'amore è una cosa meravigliosa e devastante, che, se ti colpisce, fa molto male...

A questi discorsi Don Adalgiso sentiva il sangue salirgli alle tempie. Per Dio! Che razza di diavolo tentatore si era infilato in casa sua? … un tesoro... che fortuna averla dissotterrata!   Che tutti i Santi lo facessero morire di mala morte se non la faceva crepare, questa stronza, di fame e di sete e di freddo. Ma Fantasima era troppo presa dalla sua immaginazione per accettare i richiami alla concretezza della realtà. Stormi  di passeri pigolanti alla luce  si accordavano al concerto del suo cuore, in crescente tachicardia.

- No, Sonia, l'amore è il riverbero che illumina il mondo e unisce i dissimili in armonia. Non bisogna spegnerlo mai. Non voglio che tu mi dia dei brutti consigli. Amare Adalgiso è come saltare in un istante assoluto avendo cognizione che lui è sempre lì, pronto ad accogliermi tra le sue braccia.

Anche Sonia sapeva le strade che fanno entrare nella follia di un altro. Il calore potente del galoppo inatteso dei cavalli sull'asfalto. L'angosciante musicalità della sospensione. Era stata amante appassionata e tenera. Incosciente e spericolata. Aveva incespicato nella grande distesa dei giorni. Non  voleva che la sua giovane amica  rischiasse di imprimere gli stessi segni leggeri sulla sabbia.

- Sei proprio illusa, se credi che lui ti sarà amico ed amante per tutta la vita. Quest' amore non ti darà la felicità, ma la sua fatale illusione.. Un prete rimane sempre officiante nel profondo del suo cuore, anche se si spoglia dell'abito talare. Io ti avviso: quando lui sarà sazio delle tue calde cosce e dei tuoi sodi seni, ti pianterà, per tornare nell'abbraccio avvolgente del suo Dio.

Era come se i suoi ragionamenti si perdessero nel nulla assoluto. Fantasima sentiva tutto e sentiva zero. Una papera che nuotava indenne in uno stagno. Il niente. Le parole erano dolci figurazioni in moto ascensionale. La voce, il respiro di Sonia bizzarri e spigolosi contrappunti che non era disposta a prendere in considerazione.

- Ma lui si è liberato della sua Fede. Ha scelto me sola, per lui solo. E io penso di dovere fedeltà e amore esclusivamente a lui.

Nel suo ingenuo trasporto Sonia riassaporava la propria adolescenza. Balzi. Slanci. Guizzi inattesi. Brividi baluginanti. Intervalli senza specchi. Serpentine impensabili. Ampie nenie. Malie indefinibili. Pesanti colpi. Espedienti. Sconfitte brucianti. Troppo vecchia e stanca per tentare di riannodare i fili. Si sentiva esclusa dal flusso della vita.

- Guarda me! Vedi come sono ridotta! E com'ero una volta! No, non ero amata meno di te. Anch'io ne tenevo uno, uno solo, di amante assatanato, ma poi, quando gli anni mi sbiancarono i capelli, se ne andò, piantandomi in asso. Capiterà anche a te, ne sono convinta, con una rivale così totalitaria e pervasiva come la Santa Madre Chiesa!

Nessuno è più sordo di chi non vuole sentire. Fantasima era prigioniera del cobalto della sua passione e non sopportava quei discorsi odiosi. L'arsura dei sentimenti. I ripudi. Le ceneri delle illusioni. Voleva smarrirsi, naufragare, lambire l'incendio.

- Bugiarda! É la gelosia della mia spensieratezza che ti fa sparlare! La consapevolezza che, per te, è passato l’attimo vitale. Ma, tranquillizzati. Gli amori non sono tutti monotonamente opportunistici e tragici. Ogni storia ha un suo sviluppo ed una conclusione originali. Non tutti gli uomini sono demoni egoisti e sanguisughe. Adalgiso è l'angelo che mi aiuterà a volare quando non ricorderò più come si usano le ali....

Don Adalgiso seguiva questa discussione in silenzio e vi trovava conforto alle sue scelte. Che donna amabile, che animo cristallino! Per tutte le ostie consacrate, certo che aveva fatto bene a rovinarsi per lei! Folgore e abisso non lo preoccupavano. Le sue carezze paradisiache ben valevano il rischio di una scomunica pontificia. Meglio coltivare un sogno impossibile d'amore, sorvolarlo, bagnarsi dei suoi umori, che convivere con l'incubo d'una Fede perduta. Sonia non era rassegnata ad arrendersi all'irragionevole ubriacatura di sensi di Fantasima. La sua amicizia, il rapporto senza dipendenza, senza episodio, che la legava a lei, passava anche attraverso il riconoscimento dello loro estraneità di opinioni, della distanza infinita, della separazione insite nella loro intesa e familiarità. Si sentiva incapace di rientrare nel momento compiuto, deciso dell'amica. Insieme al desiderio inconfessato una riserva. Un'invidia colma di desiderio la svuotava d'amore.

- Per tutti gli asparagi perforanti, tu non capisci niente.

- Perché?

- Perché ti affanni per essere amata da lui.

- Perché non dovrei?

- Sei libera dalle tue voglie, ormai. Il piacere che volevi l'hai ottenuto. Quello, se non ti amerà più, ti rinnegherà come un figlio ingrato. Gli uomini sono angeli con un'ala soltanto: possono volare solo restando abbracciati.

Don Adalgiso sentiva prudersi le mani. Aveva voglia di accopparla quella pettegola, nella maniera più atroce... Di spremerla come un'escrescenza… Gli corrompeva il suo tesoro quella ruffiana. Giocava a guastarle la testa! Linguaccia di impicciona, intrigante e tragediatrice! Talmente brutta che, quando rideva, ti bucava gli occhi! Si trastullava a sconvolgerle i sentimenti! Ma non c'era alcun pericolo! La passione di Fantasima era più forte di ogni calcolo e di ogni bassa insinuazione.

- Quella a cui pensi di rivolgerti non sono io. Il tuo ingranaggio non scatta nella mia testa. Non gli sarò mai grata abbastanza, per quel che ha fatto per me. Per la consapevolezza di genuinità che mi ha donato. Da quando ho la sua voce nel mio orecchio, la mia vita è cresciuta come erba in un giardino. Non esiste amore sprecato. Sonia, non cercare di persuadermi ad amarlo con minore passione ed intensità.

Sonia tentava di proiettarla tra pallide effigi del futuro, forme labili, gravitanti diramazioni dei condoni della memoria, bivi distrutti da compiacenti simulazioni.  - Se ti tieni per lui solo, adesso che sei pimpante e seducente, te ne pentirai amaramente quando il suo Vescovo suonerà la campanella di richiamo al Catechismo.

Don Adalgiso non ne poteva più di quei veleni. Rimuginava e ripensava.  Avrebbe voluto diventare un'angina per stringerla per il collo e farla crepare, quella maledetta consigliera! Si spazientiva, rimpiangeva e ardeva in un mareggiare di solitudine interiore. Non gliene fotteva niente di Catechismo e di richiami vescovili. Il suo Paradiso e il suo Inferno li voleva tutti qui e subito. Perduto tra il profumo della sua pelle e gli umori dei suoi bassifondi… addormentato coccolato dalla brezza calda della sua tenerezza... coricato tra le nuvole…appoggiato alle stelle e abbracciato ad una di esse, credendola il suo viso...

Fantasima non era meno folle ed ubriaca. Si sentiva mescolata in una lunga risacca. In un violento baratro accogliente. Tra una frangia di ciliegie e nidi verdi. - Io debbo essergli grata con tutto il cuore, ora che ho assaporato il tocco delle sue dita. Così come una volta, prima di accaparrarmelo, gli facevo le moine, entrando furtivamente nelle sue notti placide, per renderle inquiete e vibranti di insoddisfazioni e di desideri.

Sconfitta nei tentativi di indurla a riflessioni egoistiche, Sonia provava ad agitare lo spauracchio dell'oppressione. Un laccio che sbocciava al ciglio. Una ghirlanda inseminabile.

 - Se proprio sei convinta che lui ti manterrà in eterno e che sarà tuo per tutta la vita, bene, pensa che dovrai dedicarti a lui solo... e annodarti i capelli e farti sposare. Tu che sei sempre stata trasgressiva e vitale, ti sentiresti di sfidare l'ossessiva ripetitività di un carcere coniugale? Questo tuo Amore mi pare una malattia di cuore, con delirio e vaneggiamenti al cervello.

Ma Fantasima era completamente astratta da qualsiasi paura. Dissolta nella minuzia delle sue fibrillazioni.  Del pietriccio trasandato su cui saltellava.  Del profumo sensuale dei ceri che si consumavano nella sacrestia. La forza della sua smania le dava una tensione prospettica positiva immodificabile.

- Le sbarre di una prigione sono semplicemente una percezione soggettiva. Ma noi non rischiamo di sposarci! Adalgiso è sposato per l'eternità con il suo Signore. Del resto, se conserverò i miei sogni e le mie fantasie, sarò ricca quanto basta. Non amare è un lungo morire...uno svenarsi … un inevitabile sfiorire!

Don Adalgiso era rapito e coinvolto senza riserve. Disposto a vendere il suo stesso Dio!  Per tutti gli Angeli azzurri! lo avrebbe venduto davvero piuttosto che lasciarla come un'Essenza inappagata, a mendicare, mentre restava a dire Messa, recitando un Rito dal significato sbiadito, indifferente alla vita che gli pulsava  nelle tempie. Sonia tentava di richiamarla alla sua Storia. Alla sua identità immateriale e transeunte. Alla sua schiuma intarsiata in lino.

- E gli altri Spiriti Saraceni che ti colmano di attenzioni? Che congettureranno di te?

Era senza dubbio un tiro mancino! La rievocazione della sua vicenda tormentata era ancora una ferita lancinante, non rimarginata. Fantasima rischiò per un attimo di venire meno. Si sentiva inclusa in una dimensione più complessa e distaccata. Avvertiva uno stato di malessere quasi fisico. Come se un velo la avvolgesse, assillante e sfibrante. Risalita la cunetta, scrutava i bivi rotti. Ma persino la Storia, anche la più truce e drammatica, si ferma, si trasforma, si piega e si lascia incorporare dalle ragioni dell'amore.

- Mi vorranno ancor più bene quando vedranno che scomputo un fante dalle milizie Cattoliche. La mia attrazione verso Adalgiso è il prodotto anche della brutalità e del sangue che hanno insozzato la mia veletta da sposa.

Quest'ultima non la capiva bene. Non gli risultava chiaro il senso preciso dell'affermazione, ma non vi prestò soverchia attenzione. Davanti a tali e tante reiterate prove, Don Adalgiso finiva di estinguersi e disintegrarsi. Ah se gli avessero potuto annunciare che poteva sbrogliarsi di tutti i suoi lacciuoli!  Il suo amore era una rosa che cresceva nel giardino dei suoi pensieri, un sogno che cominciava nel momento in cui si svegliava, una pioggerellina fine e leggera …che poteva far straripare i fiumi! Come avrebbe voluto lacerare i suoi paramenti bugiardi per renderlo sovrano di tutta la sua esistenza! Non volendo darsi per vinta, Sonia attaccava il disco della parsimonia.

- Qui la pecunia presto sarà dissipata: giorno e notte ci si abbuffa, si beve e si gozzoviglia; nessuno economizza: siamo messi all'ingrasso.

Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Sempre più adirato Don Adalgiso, immobile su un fodero in pelle sdrucito, faceva proponimenti di cominciare a risparmiare da quell'ipocrita paraninfa. Per tutti i martiri! Per dieci giorni filati l'avrebbe messa a stecchetto: rinchiusa nella sua abitazione senza ingerire alimenti e senza sorseggiare.

Dopo l'ultima manifestazione di tirchieria Fantasima invitava l'amica ad esternare qualcosa di carino su di lui, minacciandola di buscarle, se non si fosse espressa come si doveva. Don Adalgiso era sbalordito dalla sua lealtà. Diavolo! Come lo idolatrava dal profondo del cuore!  Se fosse stata una delle sue lacrime, non avrebbe pianto più, per la paura di perderla. Le doveva regalare una collana di brillanti per preservarla dai veleni di Sonia.

Quest'ultima si apprestava a battere la ritirata - Capisco bene che te ne infischi di tutti, tolto Don Adalgiso. E allora, per non prenderle per causa sua, io ti voglio assecondare, se proprio ti sei convinta di aver trovato in lui l'uomo di tutta la tua vita.

- E allora passami lo specchio e lo scrigno degli altri gioielli. Voglio essere chic e avvenente quando incontrerò Don Adalgiso, la gioia mia.

Sonia ritornava a toni adulativi - La specchiera serve alla femmina che di sé, della sua età, non si fida. Ma tu che bisogno ne provi? Tu vivi nello specchio. Sei tu lo specchio più delizioso di te stessa.

Fantasima era insicura ed inquieta. Il capo reclinato e nascosto da un braccio. La tenda azzurra le sfiorava la spalla. - Tu, scrutami. Sono a posto i miei capelli? Sono sistemati bene?

- Questo specchio ha riflessi più magici e nitidi della realtà: se sei a posto tu, anche i tuoi capelli sono a posto.

Don Adalgiso constatava stupefatto l'improvviso capovolgimento di toni. Si stava divertendo come una mosca in una valle di stitici! Ma dove la scovava, donde la snidava una donnaccia peggiore di quella? Ora la lisciava e la coccolava, razza di briccona, ma prima le dava contro! Fantasima era, però, troppo impegnata a farsi bella per notare il voltafaccia dell'amica. - La cipria, prego.                                

- La cipria? Che bisogno ne hai?

- Per schiarirmi le gote.

- É fatica sprecata. Vuoi sbiancare l'avorio con l'inchiostro? Il nero è una macchia di pece. L'ombra è una massa che assorbe.

Don Adalgiso stavolta era completamente d'accordo e ammirava estasiato. L'avorio e l'inchiostro erano proferiti correttamente. E brava Sonia! Quando ci si metteva, riusciva ad essere proprio una grande lusingatrice!

Fantasima non trascurava alcun dettaglio - Allora il rossetto, per favore.

- Macché rossetto. Vuoi raggrinzire con inedite sfumature una sembianza che è già abbagliante? All'età tua non c'è bisogno di ricorrere ai cosmetici, alla cipria, agli unguenti e a simili trucchi.

- Porgimi almeno lo specchio. Voglio insinuarmi nei suoi riflessi baluginanti! 

Don Adalgiso diveniva invidioso persino del vetro. Un bacio gli aveva dato, allo specchio. Si sentiva escluso. Se fosse stata la luna, il suo splendore non avrebbe fatto più esistere la notte. Avrebbe voluto avere uno spuntone tra le mani per frantumargli la cocuzza, a quello specchio. Vedeva i loro corpi avvinghiati in un letto con baldacchino.  A chiudere ogni spazio. In una stanza oscenamente rosa ed arancione.

Sonia si trasformava in un'assistente perfetta - Prenditi questo panno e pulisciti le mani.

- E perché? Che bisogno c'è?

- Hai tenuto in mano lo specchio, no? e io ho paura che le tue mani sappiano d'argento. Che a Don Adalgiso non gli venga il sospetto che tu abbia accettato dell'argento da qualche cascamorto.

Don Adalgiso era sempre più sbalordito della furbizia e della ruffianeria di Sonia. Che idea carina e astuta le era venuta per lo specchio, a quell'imbrogliona!

Fantasima si preoccupava anche del suo odore - E non pensi anche che mi debba spruzzare del profumo?

- Ma niente affatto.

- E perché no?

- Per tutte le borragini spinose! La donna sprigiona una piacevole fragranza quando non sa di alcun profumo. Le vecchiacce, che si spalmano di unguenti, quelle rimesse a nuovo, cadenti e sdentate, che camuffano coi belletti le magagne della persona, quelle lì, quando il sudore si mischia alle pomate, puzzano come le salse che il cuoco rimescola in cucina. Non sai di cosa ammorbino, ma di sicuro lo annusi che sanno di rancido.

- Presto, Sonia! Guarda se mi stanno bene questi zirconi azzurri e il mantello.

- Gli zirconi sono indicatissimi a scacciare ogni malinconia, ma di queste scelte io non mi debbo intrigare.

- E chi allora?

- Don Adalgiso. Lui deve regalarti solo quello che immagina che ti piaccia. Chi s'innamora di una Fantasima, ne compra l'amore con l'oro e la porpora. Che bisogno hai di sfoggiare quel che non gli sta a cuore? Con la porpora si nascondono gli anni, con l'oro la bruttezza. Una fanciulla avvenente sarà sempre più desiderabile nuda che tappezzata di porpora.  Non conta nulla essere elegante per una donna sgraziata, tozza e goffa. Modi villani rovinano una sfarzosa toilette più di un pantano di fanghiglia. Se una ragazza ha classe come te, risulta anche accattivante, seducente e ammaliante.

Ben detto: attraente, affascinante e stregante. Don Adalgiso ne era perfettamente consapevole. Stavolta le parole di Sonia coincidevano con i suoi pensieri e con le sue sensazioni. Non c'era più motivo di rimanere nascosto. Troppo a lungo era rimasto fuori del gioco. Ormai smaniava dalla voglia di starle più vicino, perciò fece sentire la sua voce. - E voi due, che cosa state combinando?

Fantasima gli rispose con il più radioso dei sorrisi.  - Mi sto facendo bella per piacerti.

- Incantevole lo sei già senza bisogno di trucchi… e dolce come uno zucchero filato! - Con lo sguardo e con un gesto invitò Sonia a filare dentro casa, portando via cianfrusaglie ed ornamenti, quindi si lasciò andare. - Sono qui di nuovo a perdermi nei miei pensieri... ma non faccio altro che incontrarci sempre te. Mi è venuta una gran voglia di bere, saltare, ballare, folleggiare in tua compagnia. Vorrei amarti alla luce del sole, stringerti al chiarore del giorno e sussurrarti dolcemente: ti amo.

L'autenticità era stato il suo sogno di ragazzo brillante e spensierato. Prima che sparassero a suo padre, era stato libero e appagato. Frivolo quanto bastava per essere accettato dagli amici e corteggiato dalle ragazzine. Serioso con i grandi e impegnato a scuola da fargli schivare tensioni e conflitti con il complicato mondo degli adulti. Rimasto orfano la sua esistenza si era trasformata. Quella morte lo aveva richiamato dalle fantasticherie alla realtà del mondo. Gli aveva cambiato la vita. Che era diventata stentata e faticosa. Le giornate monotone e prive di gioia. Per continuare gli studi, a cui teneva tantissimo, l'arciprete gli aveva offerto di entrare in Seminario. Aveva rinunciato così all'immediatezza della sua fanciullezza  e si era immesso nel cammino faticoso dei compromessi. Il pallido chiarore della luna si era insinuato nella sua vita e ne era diventato l'elemento regolatore. L'irruzione violenta ed incontrollabile di Fantasima lo aveva ricondotto a se stesso. Alla sua personale verità. Lo contagiava la sua ricerca di naturalezza e di schiettezza.

- E pure a me, insieme con te. Ciò che ti piace, piace pure a me, vita mia!

Le sue parole, il profumo della sua pelle, i suoi immensi occhi verdi gli trasmettevano delle sensazioni intraducibili. Come se cento spilli gli punzecchiassero le viscere. Avvertiva un vuoto nella bocca della stomaco. Una sensazione di malessere fisico. Quasi un abbassamento di pressione. Un principio di svenimento.

- Se mi parli così, mentre mi buchi gli occhi, non capisco più niente; non m'importa più neanche d'avere tradito il mio voto di fedeltà a Gesù, né di avere screditato la mia veste sacerdotale.

Davanti al richiamo della sua Fede Fantasima si turbava - Forse me lo rinfacci? Per me stringerti è abbracciare l'Infinito. Ti amo da morire! Mi vuoi colpevolizzare per l'attrazione che ci incolla?

Don Adalgiso viveva una sospensione d'identità. Non sentiva Fantasima come un limite smisurato che rischiava di frantumarlo e annichilirlo. L'amava da impazzire, tuttavia la sua presenza  lo costringeva ad uscire da se stesso, a fare i conti con le proprie insufficienze e inadeguatezze.

- Biasimartelo? Qualcuno dovrebbe stigmatizzare me, perché non mi era mai successo di smarrirmi con la mia Storia e le mie determinazioni. Ti ho dato le labbra per un bacio e mi hai preso il cuore per la vita. Per la mia fragilità di determinazione, meriterei dieci giorni di fucilazione continuata!

Anche Fantasima era immersa in uno spaesato tacere con la propria personalità. Oltre la linea. Lacerata. In un velleitario tentativo di solipsistica ricomposizione. Prigioniera in un frammezzo.

- E io? Incatenata dalla mia passione, ho mollato la mia bramosia di vendetta e ho deposto la mia maschera di fiele. Anch'io sto abiurando il mio Allah e la mia Storia.

Don Adalgiso era un esperto dell'inutilità delle riflessioni teologiche. Erano buone solo a fargli venire il mal di testa. L'equilibrio non è l'armonia delle differenze, ma la fuga dalle loro essenze.

- Perfetto! Stupendo! Anzi stupendolone! Mi ami, ti amo. Non ti amo perché ho bisogno di te. Ho bisogno di te perché ti amo. Se qualcuno nutre invidia, possa schiattare come un rospo bilioso.

Neanche Fantasima era disposta a farsi contaminare da influenze esterne. A farsi schiacciare dal peso dei giudizi altrui. Voleva vivere la realtà del possibile.  A costo di forzarla. Di vivificarla con artifici.

- Presto, mettiti a tavola. Ci fumiamo un po’ di erba o sniffiamo cocaina?  Vuoi del profumo?

- A che serve? Non ho bisogno di droghe e sto giacendo vicino al profumo. Sei tu la nia droga. Tu splendida emozione... tu splendida proiezione... tu splendida certezza... ti seguirò fino  in Paradiso … se San Pietro mi consentirà di entrare!

Il cielo, che fino a quel momento era stato senza l’ombra di una nuvola, cominciava ad intorbidarsi. In certi punti era tutto una vampa per le continue fettucce che i lampi, serpeggiando, facevano guizzare tra le nuvole. Fantasima gli si  accostava tremante di paura e lui l’attirava a sè, stringendola dalle spalle, quasi a rassicurarla, con una carezza gentile. Avvertiva una serie di leggeri brividi lungo la schiena. La sua pelle calda e morbida, incollata al suo ventre, lo faceva sbandare paurosamente. Lo confondeva. Chiuse gli occhi e si abbandonò al pensiero di come era favoloso tenerla stretta a sé. I capelli contro la sua guancia sembravano seta. Poteva anche sentire il suo respiro carezzarle le guance. I tuoni brontolavano in lontananza e le saette zurrichiavano stracciando il cielo nero. Adalgiso le slacciò la camicetta azzurra e le sue mani si posarono su due gioielli di carne, grossi come il palmo della sua mano, sodi e tesi. Cominciò a giocherellare con loro, pizzicando e tirando il bottoncino duro al loro centro. La pioggia si rovesciava senza smettere un solo istante e scrosciava una fiumana grande e precipitosa. - Il nostro amore si situa prima delle nostre parole. Chi ne gode, goda in eterno il suo bene. Sono straordinari i tuoi seni... stanno per ingrandirsi sotto le mie dita...-

Era uno dei suoi punti deboli. Quando le carezzava dolcemente le mammelle o gliele stringeva, quasi a soffocarla, era come se si sfarinasse. Attraverso la stoffa lo sentiva crescere insistente e, istintivamente, faceva alcuni piccoli movimenti per strofinargli addosso le sue morbide chiappe.

- Non esiste stella che splenda come il mio amore per  te.  Non è difficile amarti; il difficile è non amarti. Come sei eccitato! É perché mi desideri alla follia come ti voglio io?-

Continuando a baciarsi si spogliavano a vicenda con ardore ma senza fretta. assaporando ogni centimetro della loro pelle. Lui era sicuramente folle ed ubriaco. Appena le si avvicinava era come se si trasmutasse interiormente. La Chiesa, i parrocchiani, i suoi doveri sacerdotali non esistevano più. Come se una saracinesca si calasse nel suo cervello a celargli l’altra sua vita. - Sicuramente. Vieni, distendiamoci su questo divano -

Il vento mormoreggiava per le campagne e, sotto la porta della sacrestia, pareva che urlasse con toni misteriosi e minacciosi. I due amanti restavano avvinghiati mentre i vestiti che erano di troppo cadevano per terra. Lei aveva già divaricato le gambe dritte, sottili e prive peluria, invitandolo nella sua corolla rosa. Era come stregata dalla sua carica erotica. Non poteva nè voleva resisterle. Lui la stringeva con voluttà, le baciava le spalle nude, le infilava le mani sotto  il sedere e con le dita gliene esplorava tutte le colline e le insenature, mentre, con la lingua, la leccava freneticamente dal collo bianco, al ventre piatto, all’ombelico, fino alla punta dei piedi. c’era in lei una sorta di freschezza e di innocenza inaspettata che lo eccitava profondamente.  Intorno al fiorellino i peli sembravano accartocciarsi per lasciargli il campo libero. Non sapendo resistere a quest’invito, egli la sfiorava con le labbra, la stringeva quasi a stritolarla, la succhiava e le affondava dentro con la lingua. Ma non glielo ficcava ancora. Era pronto. Teso e duro. Ma non la voleva ancora penetrare. La voleva fare impazzire di desiderio. Nella sua attesa. E lei stava spasimando per averlo tutto e subito. Respirava affannosamente avvicinandogli le parti del suo corpo ove desiderava che lui portasse le sue carezze. Lui succhiava i suoi piccoli capezzoli, che si rizzavano e divenivano turgidi come un piccolissimo dito. Vi trovava un gusto squisito. Salato. Ma non eccessivamente. Proprio al punto giusto. Nello stesso tempo, con il mignolo della sinistra eplorava l’orifizio dove stava per intrufolarsi. Carezzava, divorava, spremeva, si induriva. I baleni dei lampi illuminavano a tratti il Crocefisso appeso al muro di fronte, che sembrava guardarlo con espressione di mestizia e di compatimento. Se lo guardava rischiava di deconcentrarsi e di afflosciarsi, perciò tornava ad immergere la testa tra i suoi capelli odorosi e la nuca madida di sudore. Ad un tratto sentì che tutto il suo intero corpo partecipava a questo godimento. Il ventre si sollevava, si apriva, lo aspirava. Fantasima mormorava dolcemente - Ah! Dammelo ora... ora...

Mentre aveva questi sussulti, Adalgiso si allungava su di lei e avvicinava la sua punta. Il tempo di sussurrargli

- Dolcemente... ti prego...

Ma lui sapeva che intendeva con forza. Quasi una dolce violenza. Finalmente le entrava dentro. Senza il minimo sforzo. Al caldo. Nel tenero. In Paradiso. Era l’approddo. Il porto sicuro. Non cercava più niente. Era la prima volta che provava un senso di unione completa con un altro essere umano e lo trovava meraviglioso e sconvolgente. Nessuna un’altra cosa meritava sforzi di esplorazione. Non pioveva più. L’acquazzone si era dissolto con la stessa rapidità con cui era esploso. Il sole giocava a rimpiattino in mezzo alle nuvole cinerine, che andavano fuggendo per il cielo come una mandria sparsa. - Ascolta... non è formidabile? -

- Sì, sì ... tutto in fondo - implorava, mentre lui faceva il va e vieni con tutto il corpo, senza lentare, immerso nei suoi capelli.

Lei indugiava un poco per prendere coscienza dell’attimo. Per assaporare interamente il suo piacere. Lui sentiva la sua giovane carne serrarsi intorno alla parte che teneva dentro come prigioniera. Lui spingeva e lei lo attirava. Lui pigiava e lei gli si apriva. Non erano che un’unica inscindibile cosa. La tramontana soffiava furiosa, sbatacchiando tra i pini della Risinata. I cipressi dei Cappuccini mugghiavano come Rusulidda, quando, dal crinale della collina dell’Indovina, chiamava il vitellino straviato. Dalla finestra entrava l’odore acre e vivo della terra bagnata. La natura parlava la sua lingua immutabile ed eterna in questo momento di pausa e di silenzio. L’immobilità dei loro corpi prolungava il loro piacere. Adalgiso riprendeva a carezzarle un capezzolo ed, inevitabilmente, interrompeva il contatto meraviglioso dei loro ventri. Lei si girava su un fianco. Gli tornava voglia di palpare il suo culetto. C’era un non so che a calamitarlo. Perciò le passava una mano dietro e incontrava una doppia fenditura. La punta delle sue dita le percorreva in tutta la loro lunghezza, fino ad imbattersi nella propria carne, ben piantata, che si divertiva a ritirare e a rientrare, lentamente, come un coltello nella guaina. Il suo fiore si apriva per riceverlo e si rinserrava per tenerlo più lungo dentro. Le dita di Adalgiso vagavano in questa calda vallata, piena di insenature, soffermandosi sui punti in cui sentiva il suo corpo rispondergli meglio. Gli pareva che forzando potesse entrare. Per lei doveva essere una sensazione piacevole perché gli chiedeva - Ma quante mani hai? che cosa mi stai facendo? Sono qui, sdraiata su una dolce nuvola di pensieri, mentre spero di essere uno dei tuoi sogni... Oh! Sì.... ancora... dolcemente ...

Lui perseverava. Tornava. Riusciva Penetrava. Presto, con sua grande sorpresa, tutto il suo dito era inghiottito e sentiva attraverso il contatto lo sfregamento della propria pelle nell’altro buchetto. Ritmicamente faceva andare e venire tanto il suo dito quanto il suo sesso, tutti e due insieme. Fantasima sembrava avere perduto la ragione. Era come ipnotizzata dalla sua voce soffusa. Davanti a lui le sue difese cadevano come barriere di carta al vento.  I suoi movimenti, le sue carezze, le sue strette improvvise, le sue esclamazioni appartenevano ad un’altra persona che lui non conosceva. Infine dei movimenti riflessi li gettarono l’uno contro l’altro. Adalgiso avrebbe voluto mangiarsela, rosicchiarle il naso, le orecchie e spolparle la pelle fino all’osso. Sperdersi nella sua carne. Ficcarglielo ancora più profondo. Crepare di piacere. Lei gli passava le mani ed i piedi dietro e lo serrava così intensamente da farlo soffocare. Stavano per gridare entrambi, ma le loro bocche si congiunsero per aggiungersi alla voluttà che divorava i loro ventri, le loro parti intime e tutto i loro corpi. Adalgiso le scaricò dentro tutta la vita che era in lui, la sua passione ed il suo immenso amore. Poi le giacque addosso, mentre lei appagata lo ripagava con uno splendido sorriso. Sentiva il battito del suo cuore fattosi regolare e il tocco lieve del suo respiro fra i capelli e, per la prima volta, si sentiva veramente al sicuro.

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo IV

 

Tra un bicchiere e una canna.

 

Don Adalgiso era disteso sul suo lettino e guardava sconsolato il tavolo vecchio e malsicuro, il caminetto grigio e sporco di cenere ammassata, le pile di libri ammucchiati sulle sedie sgangherate e sparsi disordinatamente a terra, negli angoli. Desiderava che il mondo cambiasse, che l’uomo cambiasse, voleva trasmutarsi come le stelle che filano veloci in cielo, nelle notti d’estate, ma si sentiva debole ed impotente. Dalla campagna quasi disabitata saliva l’odore di erbe amare, la fragranza della salvia e del rosmarino e qualche rabbioso ringhiare di cani.

Dalla finestra si distingueva l'amico Don Malachia, sulla soglia del cancello malandato, insieme con la sua Chimera, avvolta da un fascio di luce soffusa e ricoperta di veli verdi e trasparenti, che reclamavano la loro parte di spasso. Al  Circolo Operai c'era da sopportare un'ora di fila prima di poter entrare per fare un valzer e al Circolo dei Nobili la ressa non era inferiore, perciò i due giovani avevano pensato di dirigersi verso luoghi più accoglienti e sicuri. 

- Ho tagliato la corda là dov'ero, perché mi scocciavo della confusione e del frastuono. Ora me ne vado da Don Adalgiso a far baldoria. Là ci accoglieranno felici e contenti. E ché?  ti sembra, a te, che io sia sbr... sbr... sbronzo, canniato  o fatto?

Non era certo facile rispondere alla sua domanda in termini alternativi, poiché il giovane sacerdote quella sera aveva ingurgitato tanti di quei veleni da perdersi il conto.

Chimera procedeva con passo felpato tra la folla che circondava i carri allegorici ballando all'impazzata.   

- Sempre incorreggibile, tu! Con gli stravizi che ti ritrovi, dovevi nascere Bin Laden o figlio di Berlusconi! Perché oggi sei arrivato così tardi?

Don Malachia avanzava ondeggiando tra il trattore e il carro " Primavera cercasi", splendidamente curato nel fulgore dei suoi azzurri e dei suoi verdi ed eccezionale nei suoi movimenti.

- Il naso mi colava e ho dovuto... aspettare l'idraulico! Vuoi che io ti stringa al mio cuore, che tu ti avvinghi me?

Chimera gli si strusciava nell'ombra del riverbero e nella sua fulgenza. Lei amava i bagni di folla. Fosse stato per lei sarebbe rimasta fino all'alba tra i carri che sfilavano cantando inni assordanti e saltellando per strada. Era giovane, fresca e del tutto disinibita.

- Perché non smetti di chiacchierare? Se ti va di darmi una strapazzatina, accomodati pure!

Lui si sentiva le gambe pesanti. Non aveva neanche la forza di immaginare di far sesso e,  a stento, riusciva a giustificarsi facendo dello spirito.

- Ho le labbra con la cerniera aperta e si è bloccata!

Ma Chimera non  si abbatteva per così poco. Sapeva ciò che voleva e non lo mollava.

- Dammi prima una spremutina! Bada di non cadere. Dritto, non ciondolare!

Don Malachia fantasticava in un gioco di relazioni e di differenze, al di là dei limiti e delle sue stesse frontiere interne.

- Vorrei essere una lacrima per nascere dai tuoi occhi, scorrere sul tuo viso e morire sulle tue labbra.

Lu... lu... luce dei miei occhi, io sono il bimbo tuo e tu sei il mio miele!

Chimera guadava ogni senso. Come il carro che le transitava accanto, riteneva la vita "Tutto un giallo", fatta di imbrogli e di cattive azioni. Una continua lotta per la felicità. Mancava ogni protezione e nulla era trattenuto nella qualità e nel calcolo. Desiderava solo lasciarsi andare. Ridere. Folleggiare.

- Attento a non adagiarti sulla carreggiata. Qualche calabrone potrebbe pizzicarti!

Come un gioco da ragazzini irresponsabili. Don Malachia assaporava la massima vertigine dell'indifferenziato. La sua passione lo inebriava di voglia di trasgressività ripetute e continue.

- Lasciami… lasciami cadere … ho voglia di capitombolare sull'asfalto spruzzato di brina!

Chimera lo assecondava mollando la presa. Padrona di lui. Esposta ad un'espansione, che colmandola ne esaudiva l'interna consistenza. Giocava con il suo corpo pencolante come una gatta tigrata con un topolino che le sei cascato tra le grinfie.

- E casca! Ruzzola! Ma stramazza sulla capoccia! È così dura che di sicuro non ti faresti male!

Don Malachia sentiva il rischio che si spalancasse il significato ancestrale dell'antisenso della sua balorda esistenza. Una latenza che dischiudeva la via da un ordine all'altro. Non era il caso, né il momento di diventare serioso! Né di cominciare a prendere decisioni. Aveva trascorso una vita camminando come un asino ancorato a Don Adalgiso. Da quando si era incontrati nel Seminario arcivescovile di Favara, si era agganciato  a lui come  un rimorchio ed aveva seguito la sua scia. Con il paraocchi. Senza prendere nulla sul serio. Nemmeno le sue stesse stramberie.

- Casco anche con ciò che tengo stretto.

Chimera veleggiava come uno stelo verde nella brezza d'autunno. Libera dall'origine e dalla fine. Saltellava al ritmo dell'inno di "Peppi 'Nnappa",  che invitava allo scialo e alle risate carnascialesche. Nell'immobilità dei suoi orizzonti. Certa della sua leggerezza e della sua felicità.

- Se cadi, non illuderti ch'io ti cada dietro!

Per il giovane prete la sua vicinanza e il suo odore erano scioccanti. Lui e Chimera insieme. La sua passione, il suo amore li aveva ardentemente sognati. Elemosinati in qualche angolo di se stesso pudicamente velato. Ma non era sicuro di sapere gestire una storia così elettrizzante. Si sentiva irrelato e sublimato. In una situazione che sopravveniva e non trovava qualificazione certa e oggettiva.

- Ma poi qualcuno ci tira su. Amarti è precipitare nelle viscere della terra e risalire in un'esplosione di felicità.

Chimera cominciava a preoccuparsi della sua frivolezza. Lei non era una di quelle che cercano nel partner un punto di riferimento. Un bastone cui appoggiarsi rilassata e fiduciosa. Ma don Malachia era più flessibile di una canna al vento.

- È sbronzo, l'uomo o si è fatta una pera!

Nel fragore della musica le orecchie di don Malachia tremavano. Era come se una lastra di vetro interiore lo soffocasse. A furia di ridursi a niente, di non avere alcuna volontà distinta dal suo amico Adalgiso, si sentiva sgranato come un melograno maturo.

- Che dici? Sbr... sbr... sbronzo … pera?

Non solo non le dava affidabilità e sicurezza, ma svelava un bisogno continuo di sostegno. Le sembrava una forma instabile. Distante dalla sua memoria e da ciò che ancora non le apparteneva. Ma non riusciva ad avercela con lui. Gli appariva privo di personalità ed indifeso. Così fragile da risvegliare i suo naturale istinto materno.

- Dammi la mano. Non voglio mica che tu vada a sbattere o a scaraventarti sul bus che fende l'aria oscura! Perché continui a correre?

Don Malachia voleva gustare la persistenza del galoppo all'aperto. Del varco ignoto. Dell'imprevedibile. Le brucianti folate di contemporaneità erano lo stesso pensiero della sua crisi.

- Perché voglio tenermi al passo con i tempi! È la cosa più difficile per un prete. Se rimane osservante dei suoi doveri di riservatezza, rischia di diventare un orso, un alienato. Completamente estraneo alla società che lo circonda. Se si immerge in essa, se vive da giovane con i giovani, finisce per essere travolto dalla corrente. Procura scandalo. Egli stesso si fa scandalo. Ecco, tieni - le porgeva la mano quasi a tranquillizzarla e subito la ritraeva - … ma solo in prestito per stasera! - Era proprio sballato. Procedeva instabile come un acrobata su un sottile filo. Senza volerlo le calpestava  un piede - Oh, scusami! Ti ho pestato un callo!

Era completamente conquistata dalla sua capacità di farla ridere. Con idiozie e futilità, prive di peso e significato. Per lei sorridere e ridacchiare costituivano il sale della vita. L'unica ricetta in grado di narcotizzare la percezione della fine che le abbrancava il cuore.

- Non preoccuparti: ne ho un altro! Forza, vieni con me!

In Don Malachia nascevano nuove interrogazioni che la parola non cessava di promuovere. Tutta la sua vita era un'incessante sciarada. Gli sfuggiva il senso delle grandi cose, ma anche quello degli eventi minuti delle sue  giornate.  In assenza di illuminazione becchettava.

- Dove debbo andare?

Chimera cercava di riportarlo alla spensieratezza. Fuori dall'immobilità e dai collegamenti con l'antico letargo. Aveva sempre pensato che l'unica arma per non lasciarsi impastoiare dalle tristezze, per non lasciarsi soffocare dalle ineludibili necessità dei contesti, per vivere insomma, fosse l'ironia.  

- E non lo sai? Non solo sei l'ultima ruota del carro, ma hai pure le gomme sgonfie!

Don Malachia adorava questa sua capacità di dissolvere ogni cruccio in un sorriso. Doveva impedire all'angoscia interiore di irrigidirsi e di solidificarsi. Dissolvere lo sfumìo di esilissima polvere delle reliquie della sua coscienza, annidata entro impervi crateri.  Non aveva alternative plausibili all'allegria. Né alla dissolvenza degli acidi e al torpore dell'eroina. Staccare l'errore dalla sua esistenza equivaleva a toglierle il respiro.

- Lo so, lo so. Mi è venuto in mente: vado a far baldoria.

Chimera avvertiva la malinconia insita in questa sua ricerca di piacere soporifero e un groppo le saliva alla gola. Gli voleva un gran bene. In modo semplice e istintivo. Senza grandi complicazioni intellettuali. Amava il suo modo scanzonato e fanciullesco di sfuggire ai problemi. Di rifiutare di sprofondare lo sguardo in fondo al pozzo. 

- Ma è proprio qui.

Sbandando notevolmente a destra e a sinistra, il prete era arrivato davanti all’uscio della parrocchia. Stava male. Come avvolto da un'errante minaccia. Pizzicato da un cattivo presentimento. Per fortuna la consapevolezza del suo modo di essere per lui era solo un optional.

- Adesso sì che mi ricordo.

Don Adalgiso, riconoscendone la voce, piantava in asso Fantasima. Anche lui era legato da uno stretto cordone ombelicale all'amico. Non apprezzava la sua mancanza di spina dorsale, ma ne intuiva la lealtà e la vicinanza. Dai tempi del Seminario erano stati il secchio e la corda. Insieme avevano affrontato difficoltà e peripezie. Si erano aiutati a scuola e nell'inserimento nella Chiesa. Si erano sostenuti nella carriera ecclesiastica e, naturalmente insieme, erano sprofondati nelle deviazioni e nei vizi.

- Anima mia, se non ti spiace io gli vado incontro. È lui che preferisco tra tutti gli amici. Ritorno subito.

In Fantasima si disfacevano tanti ritmi mescolati al punto di intorpidirla. Anche una dichiarazione di amicizia aveva il potere di ingelosirla. Furore e potenza dei nervi si annodavano. La sua passione si connotava di possessività. Indurendo lo slancio, ma anche richiamandola alla gracilità della sua condizione. Rinserrando il tempo. Rafforzando la sua cognizione di caducità.

- Subito è già tardi, per me. I miei momenti di chiarore si dissolvono nei riverberi avari del sole. La luce della vita e l'apparenza implicano debolezza, disfacimento, morte. Non trascurarmi mai. Neppure per uno dei secondi che ci appartengono.

Don Malachia procedeva a tentoni, fracassato da pulsazioni opache. Aggrovigliato sotto pastiglie di luce indifferenziate.

- Ehi, c'è qualcuno qui?

Don Adalgiso era avvolto in una dolcezza temeraria. Incantato come un rivolo dal naso. Anche se amico intimo,  Don Malachia non risultava apprezzabile per tempismo! 

- C'è… c'è! Non sono ancora riuscito a smarrirmi del tutto. A perdermi a me stesso e agli altri. A sbriciolare l'inalterabilità definitiva del mio nome…

Ma Don Malachia era troppo sballato per cogliere il suo tono scocciato. 

- Ehi,  Don Adalgiso amico mio! Come è bello qui, da te!

Don Adalgiso si rassegnava a fare buon viso e cattivo gioco.

- Che Dio ti protegga, Don Malachia. Mettiti a tavola. Da dove sbuchi?

Don Malachia era del tutto privo di autocontrollo. Affondato tra l'ambra e il verde. Tra la sabbia e la squama.

- Proprio da dove sbuca uno  sbronzo … canniato!

Anche Fantasima finiva per rassegnarsi alla loro intrusione.

- Chimera, cara, perché non vieni a tavola? Adalgiso, dalle qualcosa da bere.

Don Malachia non si reggeva più in piedi. Sentiva che stava per crollare.

- Chimera, che fai lì imbambolata? Vieni con me a farti una dormitina!

Don Adalgiso li osservava divertito e compiaciuto.

- E che fa di inusitato? di dissonante dal banale? Una Fantasima è una Fantasima perché ogni tanto fantasimia. Ogni nome si salda alla vita. La sua forza irradiante e ammaliante la determina e la paralizza. Inalterabile. Inestinguibile. Irrevocabile. Dipendiamo dai nomi. Ad essi ci attacchiamo e ci abbandoniamo. È quasi un modo di morire.

Chimera ascoltava a bocca aperta. Sbigottita e intontita. Le sfuggiva la forza del suo nome.. La sua valenza nel mondo aperto. La sua stessa natura era un enigma.

- Ma , cara, che significa fantasimiare?

Fantasima era certamente più consapevole della propria identità e condizione esistenziale. I suoi numerosi passaggi di stato e di condizione l'avevano maturata.

- Senza nomi saremmo muti. Illegittimi. Isole incomunicabili. Scogli corrosi dai marosi Con un nome il mondo ci riconosce e ci legittima  a esistere e a comunicare. Fantasimiare è sconfinare. Uscire da noi stessi. Fantasimiare è sognare. Fantasimiare è impaludarsi. Perdersi nell'infinito dello sguardo di Adalgiso. Fantasimiare è sballarsi. Annullarsi nei vortici della nostra pazzia. Fantasimiare è innamorarsi. Illudersi d'essere immortali. Di sfuggire alla maledizione del tempo e della Storia Se rifiutassimo di fantasimiare, resteremmo senza forza. Inerti e indefiniti. Sfibrati.  Irriconoscibili e dimenticati. Su, svelto, Adalgiso! Non lasciarti irretire dall'opacità delle ombre.  Passa in giro il boccale e l'erba.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo V

 

 

 

Un fulmine a ciel sereno

 

 

Onofrio ritornava dal porto, con aria allarmata. Che aveva veduto? Un grandissimo monte di malanni. Mentre gironzolava alla ricerca di pesce fresco, confusa tra i pescatori che strillavano qualità e prezzi delle loro cassette, aveva intravisto la sua sagoma inconfondibile e i suoi paramenti. Il Vescovo era ritornato dall'estero, con largo anticipo sul previsto. Sentiva che il sommo Dio lo voleva a tutti i costi perduto. E così il suo giovin signore Don Adalgiso. La speranza era morta, per loro. Per loro non c'era più scampo. Manco la Salute in persona, se pure lo avesse voluto, avrebbe potuto salvarli. Era ritornato dall'estero il Vescovo e Onofrio era liquidato.  Qualche merlo voleva guadagnarsi un bel po' di soldi facendosi mettere alla tortura al posto suo? Dove erano i buscalegnate, i masochisti e gli scassacatene? Dove quelli che per tre centesimi si fan sotto ai cannoni dei nemici, là dove qualcuno finisce trapassato da cinque o dieci colpi di mortaio? Gli avrebbe dato un millEuro, lui, al primo che fosse stato disposto a salire sulla croce, a condizione che venisse inchiodato due volte ai piedi e due volte alle braccia. Quando sarebbe stato sistemato così, avrebbe potuto chiedergli il pagamento a pronta cassa. Ma lui, era o non era un disgraziato? lui che arrancava verso casa? Vedendolo affannarsi come un asino di gessaio, Don Adalgiso si rallegrava.

- Barca che ritarda, giunge carica! Amici miei, arriva la spesa! Onofrio fa ritorno dal supermercato appesantito da un sacco di leccornie!

- Non ti entusiasmare, Don Adalgiso! Il cibo più piccante è arrivato con il postale!

Don Adalgiso lo guardava perplesso.

- Che c'è? Che intendi dire? Ho ben altro peperoncino tra le mani!

Onofrio non sapeva da dove cominciare. Anche per una faccia di bronzo come la sua era imbarazzante scombinare una festa!

- C'è che io e tu...

Don Adalgiso lo fulminava insofferente e spazientito. La reticenza del suo sacrista lo sorprendeva ed irritava.

- Io e tu che cosa? Ti si è incantata la puntina?

Onofrio infine metteva fuori tutta la sua paura. La sua furbizia e la sua sfrontatezza non si coniugavano con equivalenti doti di coraggio.

- Siamo morti. E, se ancora respiriamo, soffocheremo tra poco.

Don Adalgiso si sentiva tutt’altra smania addosso. Il gelo della morte distava anni luce dalle sue immediate prospettive. Le sue narici erano ancora impregnate del profumo di Fantasima.

- E perché? Che uccellaccio di malaugurio ti  perfora per la testa?

Onofrio non voleva passare per uno iettatore. Preferiva vomitargli addosso, d'un solo fiato, tutta quanta la verità.

- Monsignor Petrone è rientrato a Sambuca.

Don Adalgiso non batté ciglio. Il ritorno del suo Vescovo era nella logica degli eventi. Prima o poi doveva succedere. L’anticipo dei tempi lo avrebbe indotto  a fare subito chiarezza. Non si era mai sentito predestinato per la regolare vita canonica, né per la liturgia o per la contemplazione mistica a tempo indeterminato. Fece spallucce.

- Non me ne frega un tubo!

Onofrio lo guardava sconcertato. La sua incoscienza non lo coglieva del tutto alla sprovvista, ma, comunque, lo preoccupava. Cercò di trasmettergli un po' della sua fifa. 

- Non capisci? Siamo in trappola. Monsignore sta piombando come un falco sulla mandria.

Don Adalgiso cominciava a prenderlo sul serio, ma, come San Tommaso, voleva elementi più concreti, prima di arrendersi alla cattiva notizia.

- Ma chi l' ha visto?

Onofrio era in grado di garantire di persona.

- Io, ti dico. Con questi stessi occhi.

Improvvisamente Don Adalgiso sentiva il terreno franargli sotto i piedi. La visione del Vescovo che irrompeva improvvisamente in Canonica gli fece perdere tutta la sua baldanza. Dopo decenni di sacerdozio era rimasto un uomo debole ed imperfetto, che non poteva vantarsi delle proprie virtù, ma unicamente confidare nella misericordia di Dio.

- Guai a me! Ed ora, io, che faccio?

Adesso che sembrava averlo scosso dal suo torpore, Onofrio non lo mollava, ma continuava a incalzarlo impietosamente per richiamarlo alla realtà delle cose. Non solo per lealtà e spirito protettivo verso il suo parroco, ma per legittima difesa. Se Don Adalgiso fosse stato travolto da uno scandalo, la sua stessa posizione, il suo stesso lavoro, la sua esistenza rischiavano di restarne sconvolti. 

- Accidenti, mi chiedi che cosa devi fare o che stai facendo? Te ne stai lì a tavola a bamboleggiarti con quella Fantasima. Hai il cervello d'un asino! Una cosa è godersi la vita, un’altra è giocarsela per un fuggevole capriccio passionale.

Don Adalgiso aveva un cuore di leone ed un altro di somaro. Ostentava spavalderia e menefreghismo, ma in lui affioravano anche disorientamento e vistosi cali di zucchero. Per mesi aveva rifiutato la società degli uomini, l’universo, le leggi della Chiesa, la memoria della Storia, le Fedi troppo distanti e le certezze troppo vicine, le religioni impure e le rivoluzioni inutili perché non gli sembravano verità. La sua esperienza con  Dio gli aveva fatto comprendere il senso più profondo del male, lo aveva educato a lottare con il suo mistero, ma l’amore per Fantasima aveva fatto naufragare la sua fede nell’oceano dei desideri che quotidianamente lo agitavano.

- Il mio amore non è un capriccio passeggero. Non essere invidioso della mia felicità! Non spingermi a comportamenti precipitosi, magari per sostituirmi. Tu, proprio tu, l' hai visto? Sei certissimo che fosse il Vescovo? Sono finito, morto, se dici la verità.

Nelle sue ultime parole Onofrio ritrovava la sua diffidenza di seminarista, il suo solipsismo, la sua tendenza  a impaludarsi nei sentimenti, ma anche la sua appena mascherata coniglieria, la sua pretesca incapacità a fronteggiare gli imprevisti, a non perdere la lucidità mentale.  

- Che ci guadagnerei a mentire? Fantasima non mi piace neppure. Troppo esile. Fragile. Eterea  per i miei gusti. E poi chiunque fotterei volentieri, ma  a te non farei  mai un torto. Né cercherei di spaventarti per il puro gusto di farlo. Devi scegliere. É tempo che tu decida cosa fare da adulto.  

Man mano che si convinceva della fondatezza delle sue preoccupazioni, Don Adalgiso sentiva il sangue montargli alle tempie e le orecchie ronzargli. Persino se stesso aveva rifiutato perché non si sentiva vero. E la stessa verità, convinto che bisognava andare oltre, verso la novità. Ma il suo presente ed il suo futuro erano verità? Era solo con i suoi fragili silenzi e non c’era il tocco creatore e risanatore di Dio, dolce come la mano carezzevole di sua madre, a scomporgli e ricomporgli i capelli.

- E io, adesso, che faccio? Scegliere? Lasciare Fantasima? Rinunciare alla sua dolcezza? Al suo calore? Non c’è grazia, ma solo sgomento e dolore nell’abbandonare le persone care. O spogliarmi dell’abito talare, che mi avvolge come un pioppo napoletano? Privarmi del suo involucro protettivo? Questo fogliame ha il suo doppio nel mio cuore. Perché mai dovrei scegliere? Perché non cercare di mantenere il piede in due scarpe contemporaneamente? Come posso salvare capra e cavoli? Preferisco addossarmi alla sua ombra. Raccogliere il brusio delle sue foglie al vento nel mio intimo. Dove nessuno riesca  penetrare. 

Per fortuna Onofrio era di temperamento freddissimo. Le frasi del suo parroco non lo sorprendevano, anche se non le comprendeva in tutte le sfumature. Ma era consapevole che ogni comprensione totale si risolve in una forma di cecità rispetto alla pretesa di capire. Sapeva che non coltivava vocazione alla coerenza ed al martirio. Non lo avrebbe assecondato nelle sue sbandate e nelle sue follie trasgressive se non lo avesse giudicato pronto a tirare i remi in barca al momento opportuno. Dubitava, però, della  sua capacità di organizzare una ritirata ordinata o di fronteggiare serenamente un’emergenza, perciò cercò di assumere il controllo delle operazioni. 

- Usa la testa. Non ci sei abituato? C'è una prima volta per tutto! Prima di pensare alla sostanza dei problemi, evita di affondare in un baratro da cui non potresti più risalire. Bada a salvare le apparenze. Evita pubblicità. Impedisci lo scandalo. Guadagna tempo. Comanda che qui sgombrino tutto...  E quello là che russa, chi è?

Don Adalgiso non si sentiva Quinto Fabio Massimo, il grande dittatore romano che aveva logorato Annibale con la tattica di temporeggiare. Non ne aveva l’autocontrollo e la spregiudicatezza calcolatrice, perciò si mise nelle mani di Onofrio. Come un asino con il paraocchi. A seguire le sue redini. Senza sapere il sentiero. Del resto da sempre stava dietro a dogmi inspiegabili. Si era stufato di porsi inutili domande, senza ricevere alcuna risposta.  Tutta la sua vita era diventata un atto di Fede. Un incubo abbandonato a se stesso. Un ripararsi dietro l’alibi dell’onnipotenza di Dio. Un Dio incomprensibile, che tastava con circospezione le piaghe doloranti di un’umanità malata e ne sosteneva le membra spezzate, senza odio né disprezzo per  quanto era opera delle sue stesse mani. Un Dio sereno e giocoso, che lasciava scorrere rivoli di dolore, fino a che si tramutavano in lacrime di rimorso e di penitenza. Capace di rendere i carnefici dell’umanità carpentieri dell’immensa croce della redenzione. Di sopportare l’odio sterile e la diabolica ansia di distruzione dei tiranni e dei persecutori con lieta rassegnazione e dolce pazienza. Di rovesciare i troni degli spudorati campioni d’ingiustizia, ai quali aveva concesso potere, per saziarli, a loro volta, di tormenti. Un Dio pronto a benedire la lotta e le sconfitte umilianti degli incompresi, dei calpestati, dei reietti come lui.  Anche in Seminario gli avevano insegnato a non fidarsi delle sue sensazioni, dei suoi sentimenti, della sua ragione, ma ad affidarsi all’esempio, alla condotta, alle indicazioni di quelli più esperienti.  Aveva così scarsa fiducia nelle sue possibilità di dominare gli eventi, che seguiva subito chi mostrasse un po' di convinzione e qualche idea su come sbrogliare una matassa. Purché evitasse di spingersi oltre la luce. Di camminare dentro se stesso. Verso la propria notte. Contro l’amore di Dio fino in fondo.     

- È Don Malachia. Tu, Chimera, dagli uno scossone. Sveglialo.

Chimera aveva seguito la crescita della concitazione con crescente partecipazione.

- Don Malachia, Don Malachia! Stai dormendo? Svegliati! Datti una smossa!

Don Malachia era del tutto intontito e stentava  a ricevere. Gli occhi pesanti, le gambe leggere. Stentava a stare in piedi su un solo piede.

- Sono sveglio io. Ho sempre quest'espressione quando faccio jogging! Su, dammi da bere.

Chimera si era lasciata contagiare da Onofrio.

- Ma non capisci? Dall'estero è ritornato Monsignor Petrone. Stai ancora bevendo? Sei proprio un incosciente!

Don Malachia aveva solo voglia di continuare a babbiare.

- No, vorrei riempire le piscine di  vino! Benvenuto al nostro Pastore! Come sta? Ha fatto buon viaggio e un felice ritorno?

Don Adalgiso ormai era teso come una corda di violino.

- Lui sta bene,  … io, invece, sono morto e stramorto!

Don Malachia tentava di mascherare il suo stordimento assumendo un’aria canzonatoria.

- Due volte morto? E come è possibile? Scredibile! Peggio di una Fantasiminina!

Don Adalgiso avvertiva il fastidio della sua fragilità. Ne era una spia inequivocabile la sua incontrollabile inquietudine.

- Alzati, te ne prego. Su, sta arrivando il Vescovo. Che ti metti a strimpellare  la chitarra?

Ma Don Malachia si rivelava solo un ragazzino discolo e impertinente.

- No, sto accordando i miei pensieri con i tuoi! Monsignore è arrivato? Tu digli che riparta. Ma perché ci deve venire a rompere le uova nel paniere? Che frittata vuol fare?

E vedendo che Don Adalgiso si nascondeva sotto il tavolo, lo incalzava.

- Perché strisci per terra come un serpente?

Don Adalgiso si sentiva goffo e impacciato. Inutile tentare di mascherare il suo sfasamento. Molti cattolici credono di possedere il cielo e la terra, ma presto avrebbero stretto in pugno un fascio di spighe vuote. Nella sua estrema interiorità, il suo soffio vitale, il suo spirito era infrangibile. Duro e puro come un diamante. La sua debolezza cominciava nell’esistenza. Esistere era una sfida insostenibile. Implicava eccedere la concrezione cementata nel suo intimo. 

- Sto brucando l'erba … anzi sto trivellando un pozzo! Mo' che faccio? Il Vescovo è qui che arriva: mi troverà ubriaco e sballato, la sacrestia piena di gaudenti e di ragazze... È inutile mettersi a scavare un pozzo mentre la gola ti brucia già dalla sete. Povero me! che cosa posso fare?

Onofrio era stufo di quei balbettii inconcludenti. La casa rischiava di bruciare e i due amiconi si gingillavano nella ricerca della battuta più efficace. Roba da matti!

- E questo invece ha reclinato il capo e se la dorme. Sveglialo!

Don Adalgiso era leggermente più consapevole di Don Malachia.

- Ti svegli? Te l' ho detto, Monsignore tra poco sarà qui.

Don Malachia si divertiva ad impersonare un eroe del Pulci.

- Sua Eccellenza, dici? presto, a me i sandali, che io impugni la spada! Per tutte le lepri, lo faccio fuori io questo girovago! Completamente scredibile! Più vagabondo di Papa Giovanni!

Don Adalgiso non era una persona stabile o prudente, ma constatare il menefreghismo dell’amico e compare di baldorie era come guardarsi allo specchio. Estrarsi e tracciare lo schizzo di una divisione. Di una dissociazione lacerante e traumatica. Una scissione virtuale. La linea sottile di una decollazione possibile. L’atteggiamento dell’amico lo inquietava e lo disturbava. 

- Tu mi vuoi rovinare del tutto.

La stessa Chimera, che, in genere, non brillava per buon senso ed equilibrio, si sforzava di riportare Don Malachia con i piedi per terra.

- Sta' zitto, per favore. Perché non tiri su il naso, ti fai la doccia e anneghi?

Onofrio si rendeva conto che non ci si poteva perdere in indugi. Occorrevano maniere forti e decise contro quel livello di ubriachezza e di inconsapevolezza.

- Questo salame ha inghiottito del propellente liquido! Prendetelo e portatelo dentro di peso. Subito!

Per la verità a Don Malachia l’alcool cominciava a scendere dalla testa alla vescica e a stento si tratteneva dall'orinare all’aria aperta e al vento. La sua pipì non voleva sentire ragioni e la sua ubriachezza lo liberava da ogni freno inibitorio.

- Per tutte le osterie! Userò voi come un pitale, se non me lo date subito, un pitale.

Don Adalgiso si sentiva perduto nel constatare il penoso stato dell’amico. Completamente fatto! Incapace di qualsiasi autocontrollo. Un sentimento d’angoscia lo attanagliava. Un malessere. Una minaccia errante. Un cattivo presentimento. Si sentiva fluido e rammollito. Gli veniva da piangere. Onofrio, che ne conosceva gli umori altalenanti, cercava di scuoterlo e consolarlo.

- Perché stai singhiozzando? Su coraggio. Lo troverò io il rimedio giusto contro la tua paura.

Ma Don Adalgiso si sentiva un papiro fuori dall’acqua. Mentre cercava di darsi un contegno spiritoso e deciso, viveva una profonda crisi d’identità. I granelli della sua vita erano caduti e morti e solo l’amore di Dio poteva ridargli crescenza e fertilità. Se la sua vita gli sembrava malleabile ed elastica, la sua esistenza gli appariva priva di plasticità.

- Non sto singhiozzando. Ho inghiottito il cercapersone e mi si è grippata l'epiglottide! Io sono una nullità. Mi sono lasciato fottere da una Fantasima! E adesso rischio di finire scaraventato in mezzo ad una strada! Non riesco a sopportare questa tensione di esistere. Sono giunto ad un punto di rottura.

Era come se parlasse a se stesso. Onofrio non lo stava proprio a sentire. Era concentratissimo su un altro versante. In tutt’altre faccende affaccendato.

- Zitto. Mi fai venire il mal di testa, con le tue elucubrazioni. Io mi sto spremendo le meningi, per sistemare tutto. Monsignore che arriva, mica lo lascio entrare in casa, anzi, lo induco a svignarsela il più lontano possibile! Voi, basta che entriate in sacrestia e sbaracchiate tutto. E subito.

Don Adalgiso era in preda ad uno choc confusionale.

- Io dove starò?

Meno male che Onofrio aveva ormai attivato la sua corda mefistofelica. Non aveva ancora un progetto preciso, ma il suo istinto non lo tradiva mai.

- Dove meglio ti pare. Sarai con Fantasima o con Chimera. Questa o quella per me pari sono!

Chimera era la più sintonizzata sulle onde del sacrista.

- E se noi scomparissimo per magia?

Onofrio cominciava a pregustare la costruzione del suo inganno.

- No, Chimera, non un passo. Dovete sparire senza sparire! Mimetizzarvi senza allontanarvi! Stai tranquilla! Malgrado tutto questo pandemonio, non berrete un sorso di meno, in sacrestia.

Don Adalgiso lo ascoltava con diffidenza e scetticismo.

- Ahimè, sto sudando dalla paura, io, se immagino dove ci trascineranno le tue belle ciarle. Se la montagna va da Maometto allora scappa... é una franaaaaa!!!

Onofrio non poteva rischiare che la situazione gli sfuggisse di mano. Anche se ne costituiva l’anima nera, in genere lui era rispettosissimo, quasi strisciante, verso il suo parroco. Specie in presenza di altri. In questo caso non poteva, però, rischiare di lasciarsi  coinvolgere dalla sua fifa incontrollata. Doveva prendere in mano la gestione delle operazioni apertamente, senza alcun infingimento.

- Ti decidi a star calmo e ad agire come ti comando?

A Don Adalgiso la paralisi sensoriale era straripata nella sfera intellettiva. Si sentiva vuoto. Incapace di connettere e di agire.

- Mi decido. Mi affido nelle tue mani. Se  in questo momento ingerissi un moscerino, avrei più cervello nello stomaco che in testa.

Per il diabolico sacrista questa sviluppo della scena non era inconsueto. Sapeva del suo potere su di lui e sulla sua vita.

- Non ti preoccupare! Sei in una condizione così pietosa e deplorevole che i germi ti evitano: non vogliono ammalarsi! Dunque calma e sangue freddo! Punto primo: tu, Fantasima, rintanati  in casa. E anche tu, Chimera squagliatela immediatamente.

Fantasima era sconvolta e delusa dall’atteggiamento passivo ed opportunistico del suo idolo. Si era rinchiusa in una sorta di mutismo e si muoveva come un’ automa. Anche Chimera era calamitata e soggiogata dal suo piglio deciso ed autorevole, ma conservava la sua avvolgente malizia.

- Hai una voce suadente come un'asma musicata! Ti saremo obbedienti tutte e due.

Onofrio non si lasciava fuorviare dalla sua sirena. Preferiva affidarsi alla benignità del Cielo, alla volontà e alla protezione dei Santi e della Madonna dell’Udienza, ma era convinto che Dio aiuta chi s’aiuta, perciò inquadrava  Don Adalgiso.

- Apri le orecchie, tu; ecco quel che voglio sia fatto a regola d'arte. Anzitutto bada che la sacrestia sia ben chiusa; e, dentro, fate trambusto e rumori di sferragliare  .

Don Adalgiso non si formalizzava per il suo tono irriverente ed autoritario. Avrebbe chinato la testa a chiunque gli offrisse uno spiraglio di salvezza.

- Sei un tilt nel flipper della mia vita! Stai tranquillo. Lo farò.

Onofrio cominciava a vederci sempre più chiaro. Il piano si andava delineando più nitidamente man mano che andava sistemando i pezzi al loro posto.

- Come se, in casa, si aggirassero dei fantasmi, dei poltergeist senz'anima che cantano canzoni dolci e tristi.

Don Adalgiso si rincuorava e assumeva un atteggiamento collaborativo.

- Va bene. Magari faremo volteggiare qualche oggetto nell'aria…

Onofrio cercava di mettere a punto i dettagli.

- E nessuno si sogni di rispondere quando il Vescovo busserà alla porta. Se il nemico avanza.. mettilo in frigo!

- Nient'altro?

Onofrio si prefigurava la scena.

- Sì, rumori e suoni misteriosi. Parolacce oscure e blasfeme. Datemi il telecomando elettrico. Chiuderò io la casa dal di fuori.

Don Adalgiso ormai intravedeva qualche spiraglio di luce.

- Onofrio! La mia persona e le mie speranze per il mio futuro sono nelle tue mani. Tu sei una testa d'aglio nel respiro della mia esistenza!

Onofrio rifletteva sulla responsabilità che gravava sulle sue spalle. Tra lui e il suo  prete chi era il migliore? Chi doveva mettere il buono? Don Adalgiso voleva cavare le castagne dal fuoco con la zampa del gatto! Onofrio doveva mantenersi sveglio perché i piani giungessero in porto sicuri e senza danni e perché non gli capitasse un castigo di quelli che tolgono la voglia di vivere. Avrebbe provveduto a che ritornasse limpido e tranquillo tutto ciò che aveva intorbidato e, intanto, avrebbe fatto il possibile per tener lontano il Vescovo e per impedirgli di entrare. Avrebbe fatto in modo che non osasse nemmeno guardarla, la sacrestia, e che anzi tagliasse la corda nascondendosi il capo per la fifa. Chiusa la porta di dentro, l’avrebbe chiusa anche da fuori.  Avrebbe fatto dei giochetti, a Sua Eccellenza vivo e presente, che non avrebbe avuto neanche da morto. Ora si sarebbe piazzato lontano dalla porta. Si sarebbe messo a spiare all’arrivo del Vescovo, mentre dal nulla sarebbero usciti poltergeist  volteggianti… sarebbero corsi all'impazzata tranciando i capelli… gli avrebbero stretto la gola quasi a soffocarlo e sul collo e sul viso gli sarebbero spuntati morsi e graffi...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VI

 

Agonia

 

 

La chiamata era arrivata più presto del previsto. Si sapeva da tempo che don Luigino stava lottando con la morte, ma, quando Crocifissa era venuta a prelevarlo,  bianca come un cencio lavato e con una Torcia in mano, Don Adalgiso ne rimase sorpreso e sconvolto. Attraversò rapido la Cattedrale, così scura e deserta che le navate minori, ovattate di tenebre, e le lampade delle cappelle cominciavano a sembrare stelle. Soltanto il grande rosone della facciata sfarfagliava intrecci di colori, come una manciata di diamanti, e riluceva, ravvivato da un raggio di sole orizzontale, sfolgorante come uno spettro. Mentre si affrettava per le viuzze strette che portavano al Rosario cercava di rientrare nel suo ruolo. Davanti ad un moribondo un Parroco incarna l’Angelo Raffaele, che deve preservare l’infermo dalla divorazione del serpente infernale ed il Mosè, che deve condurlo alla salvezza, perciò deve esser tale che chiunque l’osservi  si stupisca e l’ammiri e lo riconosca uomo di Dio, un uomo straordinario, che, disprezzando tutte le comodità ed i vantaggi, non cerca che la salvezza del prossimo. Negli ultimi mesi lui non era stato certamente un modello di virtù, ma non aveva del tutto perdute l’umiltà, la carità e la prudenza indispensabili a così grave Uffizio. Conosceva, inoltre, don Luigino, che non era neppure uno stinco di santo, gli era affezionato e non si sentiva di lasciarlo in isolamento nel momento del trapasso. Si confortava ancora riflettendo che la misericordia divina è maggiore della miseria umana e rammentando che il Samaritano non disse all’oste “guarite costui” ma “abbiatene premura”  e che Iddio “humilibus dat gratiam” , non secondo il vantaggio arrecato, ma secondo le fatiche. Don Luigino era un nobile decaduto, noto a tutti gli zabutei per la sua bontà d’animo e la sua generosità nell’offrire pranzi e cene nella taverna di don Ciccino. Rimasto solo, per la prematura morte della giovane moglie e l’allontanamento dei figli, soffriva tremendamente di solitudine, cosicché, pur di avere compagnia, abbordava il primo conoscente che passava per strada e lo invitava a bere e a banchettare a sue spese. Pochissimi i paesani cui non aveva regalato una serata di spensieratezza e di allegria. In quegli anni anche i ricchi erano scarsi e, se non si faceva economia, era difficile mantenere attivo il bilancio. Da autentico nobile, don Luigino al lavoro gli sparava, i gabelloti ed i mezzadri, appena si girava la testa, erano pronti a fargli sparire gran parte del raccolto  e tutti erano disponibili ad anticipargli soldi ad interessi altissimi e a rinnovargli il prestito, magari dietro la firma di un’altra cambiale per i rendimenti nel frattempo maturati. Firmò tante di quelle cambiali che perse la bussola. In paese tutti erano suoi creditori e lui finì per sentirsi inseguito e perseguitato a tal punto che, se qualcuno lo salutava, lui subito cacciava fuori la penna, pronto a firmare l’ennesima cambiale, per procrastinare il saldo del debito. Da ricco divenne poverissimo e finì per dichiarare fallimento. Non tutti i creditori poterono essere soddisfatti e così, a dispetto della  sua magnanimità, finì per divenire inviso a molti e, comunque, venne abbandonato da tutti. Ancora più solo di prima ed amareggiato del suo destino, si ammalò di malinconia e trascorse gli ultimi anni in dispettoso isolamento, rintanato a casa. Amicizia a parte, Don Adalgiso ricordava che il Rituale gli imponeva di accorrere al capezzale di un infermo, povero o ricco, come il sole indora con i suoi raggi le cime dei monti e le profondità più fangose della valle. Mentre si avvicinava alla sua casa si ricordava che Gesù assunse la forma di servo, fu schiaffeggiato, coronato di spine, versò il suo sangue e soffrì un genere di morte obbrobriosa per salvare l’uomo. Era ancora un apostolo di Cristo? Prima di varcare la soglia della sua porta indossò la Stola violacea e la cotta e chiese aiuto a San Carlo Borromeo, che gli ispirasse salubri consigli ed opportuni rimedi, per potergli giovare con ogni santo conforto. Don Luigi aveva il volto stravolto della morte incombente. La sua faccia, un tempo gioviale e rubiconda era pallida, smunta, lurida, con le tempie contratte, gli occhi concentrati e macilenti, il naso e le labbra ritirate e fosche. Il suo respiro forte ed affannato era il sintomo inconfondibile che la sua carrozza era già inesorabilmente partita.

- Pax huic domui e a tutti i suoi abitanti - Dopo aver posato il vasetto con l’Olio Santo su un tavolino, Don Adalgiso aspergeva l’infermo e la stanza con l’acqua benedetta, mentre lo salutava con volto cortese e benigno, per insinuarsi nel suo animo con soavi maniere  - Non essere così disperato. Il malessere di cui soffri discende da Dio. Rassegnati al suo Divino volere. Non spazientirti, anzi ringrazialo e  bacia il dolore che ti percuote. La tua infermità non è pericolosa; se farai tutto ciò che ti ordina il tuo medico, in breve riacquisterai la salute. Ora Dominum et ipse te curabit: da lui dipende la tua morte o la tua salvezza. -     

 C’era freddo nella stanza. Neanche i soldi per comprare un po' di legna, negli ultimi tempi. Ma sudava lo stesso e le gocce gli scendevano sulle guance livide fino al mento.

- Don Adalgiso, non mi sono mai rivolto a Dio... insegnami a pregare. -

Dove attingere la forza di dargli questa forza? - Affinché la tua preghiera sia efficace ed ascoltata conviene che ti metta in uno stato di grazia. Devi concepire un odio sommo verso il peccato, pentirti cordialmente di tutti i tuoi falli, e mondare la tua coscienza con un’umile ed  ingenua confessione. Sei pronto a scavare dentro te stesso e, se necessario, a rinnegare gran parte della tua vita? Se ti indurisci nel tuo egoismo, non avrai più tempo e sarai vittima della giustizia divina. Rifletti. Arrenditi e piangi i tuoi peccati. -

Gli occhi di don Luigino, un tempo vivi come quelli di un uccello, si velavano di un grigio biancastro. A tratti, se li apriva più del solito, quasi si invetriavano ed uno sembrava rimpicciolirsi più dell’altro.   

- Le tue parole trafiggono il mio cuore come una spada acutissima. La mia vita è piena di ferite e geme sotto lo sdegno di Dio. Risanala. Restituiscile lo spirito che il Demonio tentatore le ha tolto.

Don Adalgiso indossava i paramenti e lo segnava con il segno della croce.

- Qualis vita finis ita. Come un uomo si è diportato con la misericordia divina in vita, così questa si diporta con lui in punto di morte. Nella tua esistenza sei stato un Cristiano tiepido e rilassato, perciò c’è bisogno di una confessione generale di tutta la tua vita, se desideri che la grazia ti corrisponda.

Era lento e respirava faticosamente. Alternava lamenti a mormorii incomprensibili.

- La mia è stata un’esistenza ripetitiva fino alla monotonia... senza una luce  vera .... priva di significati profondi....

- Ti sei confessato altre volte? hai scandagliato impietosamente dentro te stesso per conoscerti? - a tratti il prete sentiva di interrogare se stesso.

- No, mai che io ricordi... forse.... qualche volta... da piccolo... Ho sempre avuto rossore di dire i miei peccati... anche ora ho timore a scavare nella mia memoria...

Per vincere questa ripugnanza Don Adalgiso poteva offrire la sua sincera solidarietà umana e tutta la sua umiltà cristiana.

- Perché ti vergogni di dirli? Io Sacerdote sono peccatore come te: sono uomo e ciò che è proprio dell’uomo non è alieno da me. Dunque tu uomo confessati ad un altro uomo peccatore. Non ti sei vergognato di infrangere le leggi divine e vorresti aver pudore di confessartene? Per recuperare la tua sanità devi comunicare i tuoi tormenti, i tuoi rimorsi, la tue malefatte. Non puoi tenerti chiuse tutte le amarezze che ti annebbiano la vista e ti attanagliano l’anima .-

- Ma io ne ho sempre parlato con i miei amici... alla taverna ... specie dopo qualche bicchiere di Nero d’Avola non c’erano segreti tra noi ....

Don Adalgiso conosceva bene il calore dell’amicizia e la forza disinibitoria del vino.

- Li hai confessati ad amici e ad amiche e temi a confessarli privatamente a me solo? Se rifiuterai di palesarli in segreto, al dire del profeta Nahum, nel giorno del dì finale, Iddio li svelerà, segnandoti a dito e svergognandoti alla presenza di tutto il mondo. Fatti coraggio! Confessali una sola volta in questo mondo, altrimenti li confesserai ogni giorno nell’Inferno e griderai disperato ergo erravimus.-

Don Luigino avvertiva la sua vicinanza e la sua Carità, ma la sua coscienza ancora opponeva resistenza. Sentiva la lingua secca ed infiammata. Sincopava e tartagliava.

- Ho paura di non poter dire tutti i miei peccati ... di non ricordarmene .... di non fare in tempo ... sento che la vita mi sfugge... ho un dolore vago.... or in questa or in quella banda ....è come se qualcuno strappasse il mio torace... se lo tirasse lontano dal resto del mio corpo....dammi un limone .... un mandarino.... delle fragole... ho bisogno di qualcosa che mi plachi quest’arsura.... 

Don Adalgiso conosceva quelle sensazioni. Non era la prima volta che si trovava al capezzale di un moribondo.

- Non essere puerile. Credi che non t’aiuterò e non saprò, con l’aiuto di Dio, richiamarteli alla memoria? E poi sei obbligato a confessare solo quelli emersi ad un tuo diligente esame. Se sei confuso di mente e ne dimentichi alcuni, Iddio li considera come confessati. Se sei attaccato alla tua roba, malamente acquistata, e hai paura di privarne i tuoi parenti, lasciane la cura al Signore. Senza ricchezze, li allontanerai dall’ozio, che è l’origine di tutti i mali  -

L’ammmalato balbettava tra rantoli. Torceva la bocca e stralunava gli occhi, che divenivano crespi dal di dentro, con un giro violaceo intorno al nero della pupilla. Ormai la sua ora era vicina.

- Ma io sono povero... ho dilapidato tutte le mie sostanze in schiticchi e bevute... non ho mai saputo porre un freno alla mia gola.... ai miei vizi.... -0

Per il parroco della Chiesa Madre era come specchiarsi in uno stagno limaccioso, che gli rimandava ombre dai contorni confusi.

- Ecco, goloso e scialacquatore! Ma chi non lo è stato per  un tratto del suo percorso terreno? Hai ripugnanza anche per qualche storia d’amore insensata e disonesta?

Il corpo morbido ed invitante di Mariuccia illuminò per qualche istante il suoi occhi spenti. Quella ragazza era stata la passione che aveva risvegliato i suoi sensi assopiti dall’avanzare ineluttabile degli anni. Ma non era più venuta ad aiutarlo a tenere pulita la casa da quando era caduto in disgrazie finanziarie!

- Mi era quasi scordato ormai della mia donna di servizio! -

- Ormai dovrai lasciare anche lei! Il tuo male avanza e fa perdere ogni speranza di vita. Fra breve sarai pascolo dei vermi. Un mucchio di ossa spolpate. Consunte dalla putredine. Che ne sarà della tua anima? Lascia per sempre questa passione non benedetta dalle nozze. Anche se occulto è sempre un Concubinato. Un taglio netto nella tua anima. Una scissione definitiva.... - e, come tanti suoi colleghi, si riscopriva a predicare bene e a razzolare male!

- Se non confesserai tutti i tuoi errori e traviamenti e morrai impenitente, ti farò abbandonare anche dai Medici, non ti potrò dare sepoltura Ecclesiastica ed anche il tuo stesso nome sarà obbrobrioso a pronunciarsi.

Don Adalgiso non era stato scomunicato, né  degradato, ma, per la sua condotta, si sentiva un irregolare, quasi un apostata. Non poteva comunque sottrarsi all’ obbligo di confessare ed assolvere un infermo in pericolo di morte. Come una partoriente di parto rischioso, un soldato che stia per entrare in una battaglia sanguinosa, un navigante che intraprenda un viaggio a rischio di naufragio, un condannato a morte, don Luigino rientrava nell’articolo di morte. Ormai tremava da una spalla e biascicava con affanno, ma con cenni, segni ed espressioni comunicava di volersi pentire, anzi cominciava a prevalere la sua naturale tendenza agli eccessi. A firmare cambiali in bianco persino con il Creatore!

- Tutto un fallimento la mia vita ... non ho fatto altro che peccare! Ho infranto tutte le leggi umane e divine....

Vedendolo dare in smanie e delirante, il prete accendeva una torcia, rivolgeva le spalle al vento e si ungeva le mani con l’olio santo.

- Sei disposto a perdonare ogni offesa? A deporre ogni odio e rancore? A riconciliarti con i tuoi nemici?  - lo incalzava attento ai suoi accenni di assenso - Se, in casa hai statue impudiche, devi farle ridurre in pezzi; allo stesso modo, farai bruciare i libri cattivi e le pitture oscene.

Don Luigino scuoteva il capo, indicando sconsolato le pareti nude - Amavo l’arte ... forse anche qualche oscenità.... ma i miei creditori mi hanno portato via tutto! -

La luce pigra del tramonto, che si insinuava tra le tende giallognole del balcone, danzava sulla magnifica volta del soffitto, in parte ammuffito per l’umidità che si infiltrava dai tetti trascurati, illuminando putti e fanciulle, che si intrecciavano appena coperti da veli trasparenti. Non si poteva certo chiedere al moribondo di liberarsene immediatamente. Né gettarlo nella disperazione con il troppo rigore. Né, con  eccessiva indulgenza, nel baratro dei misfatti. Sarebbe spirato portandosi quelle immagini incise negli occhi e nel cuore.

- Ti assolverò da quest’ultimo peccato sub conditione. Se dovessi guarire, farai ridipingere tutta l’arcata. Ma dovrai fare un esame scrupoloso e diligente dei tuoi peccati veniali e mortali, con un’attenzione pari a quella di un mercante di valore, nel rivedere i conti delle entrate e delle uscite nei suoi traffici. Hai mai bestemmiato in  modo ereticale? Hai mai dubitato in materia di Fede? Hai disperato della Divina Misericordia? - il mento di don Luigino, caduto a cascata, sembrava dire sempre di sì - Hai aderito a sette ? Hai praticato Riti magici o superstiziosi? -

- Una volta ... avevo preso la malaria e mi portarono dalla ‘gna Tana per farmi guarire....

- Hai santificato le Feste? Hai osservato il digiuno o hai mangiato cibi proibiti durante la Quaresima, le quattro Tempora e Vigilie? Ti sei mai ubriacato, perdendo il controllo di te stesso? Hai dato scandalo con il tuo comportamento in Chiesa? Hai nominato invano il nome di Dio, della Vergine  e dei Santi? Hai commesso sacrilegio nel ricevere i Sacramenti? -

Aveva già ammesso di essere un incontenibile goloso ed un incallito frequentatore di bettole ed osterie. Stavolta scuoteva la testa. Verso il Cielo aveva peccato solo di indifferenza.

- Hai detto bugie? - 

Quelle sì e frequentemente. Per lungo tempo mentire gli era sembrato indispensabile al mestiere di vivere. Il sale adatto a condire ogni minestra. A velare ogni follia. A lasciare il prossimo contento di ascoltare ciò che desiderava sentirsi dire.

- Hai mai perduto, con fatti o con parole, il rispetto verso i tuoi genitori? Li hai sovvenuti nei loro bisogni? Li hai mai disubbiti in cose gravi? Dando loro disgusto? -

Anche quello decisamente no. Il rapporto con sua madre era stato dolcissimo. Ne ricordava le tenere carezze ed il sorriso aperto. Il padre era  stato un uomo severo. Ma molto compito e dignitoso. Si era sforzato sempre inutilmente di somigliargli. Dispiaceri per le sue azioni quasi mai. Se ne erano andati quando era ancora un bravo giovane. Per fortuna, non erano vissuti tanto a lungo da assistere alla sua rovina. 

- Hai mai nociuto al prossimo? Fatto contumelie e gravi mormorazioni? Sparso calunnie? Portato odi gravi? Violenze o percosse? -

No, non era mai stato capace di fare del male intenzionalmente. Nociuto, però, forse ... sì... A furia di offrirgli saporite bistecche al suo amico don Ciccino era venuta la gotta ed a suo compare Calogerino le spaghettate notturne avevano fatto arrivare il diabete.

- Prima di sposarti, vi è stato commercio con la tua sposa? e, dopo, l’hai mai tradita? Hai copulato con parenti di tua moglie in primo o secondo grado?  Oltre a Mariuccia, hai peccato altre volte di pensieri contro il sesto precetto o di mollizie? Si è trattato di semplici toccamenti e baci o è seguita gravidanza ed è stato procurato aborto?  Con zitelle o con donne maritate? Hai mai commesso sodomia con i maschi? Vi è stato qualche sorta di atti con animali?  -

Parlando gettava fuori una certa spuma sottile dalla bocca e la sua voce era ora un sibilo appena percettibile. Come un fischio di levante nelle notti estive in Adragna. Quando Mariuccia sgusciava dalla sua camicia da notte... Ma con i maschi! .... e poi con gli animali!.... Ed i pensieri! e le fantasie! Che gli frullava per il capo a quel mostro nero che gli graffiava la mente e la milza? Gli offrì un sorriso di compatimento.

- Hai mai desiderato o invocato la morte? -

- ... mai come in questo momento ... - sospirò flebilmente.

Grave! Gravissimo! La vita è un dono del Signore che solo Lui può ci può togliere e tu, che l’hai vissuta così malamente, vorresti pure arrogarti il diritto di rinunciarvi?  Comprendi veramente il male che hai fatto?  Quali affronti ti hai mai fatto Gesù per offenderlo così gravemente? Bene. Non ti resta che pentirti di tutti i peccati commessi in pensieri, parole, opere ed omissioni, anche di quelli non conosciuti o dimenticati. Dio vuol dimenticare tutte le tue iniquità, abbracciarti e stringerti al tuo seno come se fossi il più caro figlio che abbia avuto. domandagli dunque perdono -

La voce del moribondo era  sempre più impercettibile. Grosse lacrime gli scendevano dagli occhi, miscelandosi alla gocce di sudore che colavano dalla fronte giallognola.

- Padre mio.... ho peccato... me ne pento... e me ne dolgo ....sono stato un figlio discolo ... sozzo... perverso ... ma voi siete infinitamente buono... accoglietemi nel vostro perdono... - appena in tempo prima di tornare a socchiudere le palpebre.

Don Adalgiso era concentrassimo. Nulla di ciò che era stato prima e di ciò che poteva tornare ad essere aveva senso  o rilevanza. C’era solo lui, il Sacerdote della Salvezza, tra un uomo che abbandonava la luce della terra e la sua Speranza di Luce eterna. E nessuno, come lui, in questi momenti, era così capace di far alitare la presenza divina.

- Dio onnipotente possa avere pietà di te e, rimessi i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna. Nostro Signore Gesù Cristo ti assolva ed io, per sua stessa autorità, ti libero da ogni vincolo excomunicationis, suspensionis et interdicti, in quanto posso e tu ne hai bisogno. Quindi ti assolvo dai tuoi peccati, in nome del Padre, del Figlio e della Spirito Santo. Amen -

Anche lui stava meglio. Come si fosse liberato un peso, faceva una genuflessione.

-  Fratello mio, amico mio, mi rallegro con te. Gesù  ti ha sanato con il suo sangue preziosissimo. Eri suo nemico e ti ha perdonato. Eri reo dell’Inferno e ti ha reso degno del Paradiso. Prega che ti dia la Grazia di non offenderlo più. Preparati ad accogliere il Viatico, come un viandante che si appresta ad un lungo cammino. Ecce Agnus Dei, ecco  chi toglie i peccati del mondo. -

Ma la carrozza di don Luigino correva ormai troppo veloce nel tempo e nello spazio infiniti. Tra abissi di silenzi profondi ed inaccessibili. Anche la sua voce amorevole e benevola  era un’elusiva carezza di rugiada ristoratrice nella notte eterna. Senza sole. Altre stelle più infuocate ed abbaglianti lo coprivano. Era leggero. Ormai quasi impalpabile a se stesso. Aveva i pori aperti, il naso affilato e bianco alla punta. Tossiva ripetutamente e, a tratti, rigurgitava. Si mordicchiava le mani ed i suoi denti stridevano. La giugulare pulsava visibilmente in dentro e in fuori.  Affinché non restasse privo dell’Eucaristia, il Sacerdote spezzava una particella di Ostia, gliela posava sulla punta della lingua e, con la pisside, gli impartiva la sua Benedizione e gli somministrava l’Olio Santo. Aiutato da Crocifissa, appena entrata nella stanza dell’agonia, girandolo delicatamente su stesso, gli ungeva i reni, indi la palma della mano e le piante dei piedi, che conferiscono maggiormente a quei peccati che si commettono per gressum. Con la punta del pollice della mano destra gli oliava la fronte,gli occhi e le orecchie, a mondare i peccati della mente, della vista e dell’udito. Mentre la fedele Crocifissa diceva il Confiteor, recitava le Litanie dei Santi e della Vergine e pregava intensamente, egli scandiva - Per istam Sanctam Unctionem indulgeat tibi Dominus. Quest’Olio Santo ti rimette tutti i peccati  veniali e mortali e ne cancella le reliquie, quel languore, quella tristezza, quel torpore, quel fastidio, quell’ansietà che potrebbero spingerti alla disperazione. -

Diceva il Kyrie eleison, si mondava le dita con una mollica di pane, si lavava e gettava l’acqua sul fuoco della torcia; intanto la donna nettava i luoghi unti con un po' di bambagia, che conservava accuratamente. Più tardi l’avrebbe portata in Chiesa e bruciata, gettandone le ceneri nel Sacrario. Don Adalgiso era triste vedendo una amico che se ne andava, ma, nello stesso tempo, era soddisfatto del modo in cui lo stava guidando nel difficile trapasso. La sofferenza, le afflizioni, la morte stessa possono essere un dono di Dio se vissuti con atti di rassegnazione e di identificazione con il destino di Gesù Cristo. La giornata che scemava nelle tenebre si chiudeva con un bilancio positivo. Era riuscito a suscitare nell’anima dell’amico moribondo atti di contrizione, di fede, di carità e di speranza così intensi e profondi da fargli desiderare di congiungersi con Dio, come un cervo desidera l’acqua di una sorgente di montagna. Anche lui si sentiva più forte contro l’impazienza e l’insofferenza verso i patimenti, contro le tentazioni della carne e l’infedeltà alla Santa Chiesa Cattolica, contro la malizia e la disperazione di non essere all’altezza degli impegni assunti, contro gli scrupoli, l’odio, la presunzione e la vanagloria. Era un Sacerdote di Dio, capace di opporre a tutte le angustie del corpo, della mente e del cuore un  rimedio nel grande mistero della verità del perdono e della consustazione della grazia divina su ogni singolo uomo.

Apprestandosi ad un ultimo saluto ad un uomo che ormai non c’era, Don Adalgiso levava un’ultima Orazione.

- Anima Cristiana partiti da questo mondo in nome di Dio Padre Onnipotente, che ti ha creato, di Gesù Cristo, che per te patì e dello Spirito Santo, che sopra te è disceso. E voi, Dio misericordioso e clemente, liberate l’anima di questo Servo vostro come liberaste Noè dal diluvio, Giob dai suoi patimenti, Isacco dal sacrificio, Lot da Sodoma e dalle fiamme, Mosè dalle mani del Faraone, Daniele dal lago dei Leoni, i Tre fanciulli dalla fornace accesa, Susanna dal falso delitto, David da Golia, Pietro e Paolo dalle carceri, la Beatissima Tecla Vergine da tre atrocissimi tormenti. Ricevetelo nel luogo della salvezza ed, in vostra compagnia, fategli godere i beni celesti. -  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VII

 

Un insolito benvenuto.

 

 

Appena arrivato sulla Piazza, Monsignor Alfio Petrone espresse la sua riconoscenza a San Giorgio, perché gli aveva consentito che, sia pure a stento,  giungesse ai piedi della sua Chiesa Madre, che svettava maestosa sui bassi Vicoli Saraceni, a memoria imperitura del trionfo dei Cristiani e della rovina degli infedeli. Da diversi decenni l’esistenza di questo nerboruto gigante era un continuo pendolare tra la sua Diocesi e il mondo da aiutare e convertire. Dopo una giovinezza da miscredente era stato chiamato alla vita religiosa, nonostante il fatto che, proprio in quel momento, fosse perdutamente innamorato di un’avvenente collega di studi. Il sacrificio chiestogli gli era costato tantissimo. Se avesse riflettuto a lungo, secondo il suo costume naturale, probabilmente avrebbe rifiutato la vita che gli si prospettava e le rinunce che comportava, ma prevalsero la sua temerarietà ed il suo ardire, forse più grandi delle sue stesse forze fisiche e morali. Con gli anni era diventato uno di quegli urlatori le cui grida sfondano la porta delle anime e la cui misericordia finisce per cavar pietà dai cuori di pietra. Apriva la bocca per proclamare che Dio aveva fame. La grande miseria del mondo piangeva in lui. Era divenuto padrino di una moltitudine infinita di cuori afflitti. Gli oppressi da tirannie politiche, religiose ed economiche erano i suoi figliocci. Aveva sposato la povertà e si era vestito da grande mendicante di Dio. Si era fatto responsabile dei poveri e non aveva esitato a scendere nei bassifondi, dove vivevano gli sventurati. La sua ingenuità, il suo ardire, la sua fede, il suo entusiasmo rendevano i ricchi debitori di coloro che nulla possedevano. I portamonete si chiudevano e si dischiudevano. Gli veniva dato e ridato ed egli raccoglieva e porgeva a quanti avessero fame e sete. Con la tenerezza e la schiettezza di un girovago dello Spirito Santo quest’insaziabile accattone di Dio vagabondava alla ricerca di consolare e di rifocillare tanti di quei diseredati, di quei desolati, di quegli affamati, senza concedersi sosta. Peregrino attraverso le contrade dove Iddio piange o alla ricerca di persone che volessero aiutarlo ad asciugare le Sue lacrime. Aveva scoperto che Dio non piange nei cieli, dove dimora in una luce inaccessibile e gode eternamente della sua felicità infinita. Dio piange in terra. Dove sopravvive e soffre affamato e perseguitato. Nelle lacrime dei poveri, in tutti gli afflitti e in tutti i sofferenti. Non poteva amarlo senza asciugare le loro lacrime, perciò aveva cominciato a condursi attraverso i deserti di macerie dei Paesi sconfitti nelle guerre, attraverso le repubbliche popolari comuniste e atee, attraverso l’America Latina cristiano - feudale e, infine, attraverso i territori contesi da ebrei e palestinesi, musulmani e cristiani. Quest’ultima missione era stata particolarmente lunga ed estenuante, perciò il suo ringraziamento al Santo protettore era più intenso e vibrante. Anche Onofrio parlottava con San Giorgio, rimproverandogli di averla fatta grossa a  salvare il suo temuto Vescovo dal drago musulmano!  Dopo tre anni, ritornando a casa da Gerusalemme, Monsignore si illudeva che sarebbe stato atteso bramosamente dai suoi trepidanti fedeli e dai parroci della sua Diocesi, ma, in quei paraggi, tra gli inquilini della Chiesa Madre, nessuno sarebbe arrivato più gradito di uno che avesse annunciato che era crepato e stecchito! Il Vescovo era, altresì, meravigliato che la porta della sacrestia, in pieno giorno, era chiusa. Per tutte le gramigne inaridite! Est modus in rebus!  Si rassegnò a bussare, ma nessuno gli rispose o  aprì la porta, anzi una voce adirata lo apostrofò.

- Che bestia è mai questo che ha osato accostarsi alla nostra Chiesa?

Dal timbro inconfondibilmente arrogante Monsignore riconobbe Onofrio, il suo sacrista, che, subito dopo, gli si fece incontro, fingendosi visibilmente sorpreso e meravigliato

- O Monsignor Alfio! o Petrone! Non l'avevo riconosciuta!. Sono felice che lei sia arrivato sano e salvo. É stato sempre bene?

S'inchinò quindi a baciargli l'anello di ametista, profondendosi nelle consuete, esasperate manifestazioni di ossequio.

- Ma ha uno splendido anello nuovo! Baciamo le mani!

- Nuovo? Ma che dici! Ho solo lavato il braccialetto e mi si è ristretto! Sin qui, sì, come vedi…. l'ametista mi ha protetto da malefici e stregonerie…

- Magnifico! Spero risulti efficace anche contro i fantasmi… - Abbozzò subito Onofrio, mentre la pendola rintoccava l'una e un rumore metallico sempre più vicino si faceva sentire, come di passi pesanti.

- Che fantasmi d'Egitto? Non esistono i fantasmi. - ribatteva prontamente Monsignore -  I loro lugubri gemiti sono solo dei soffi di venti tra le fronde degli alberi. Siete diventati tutti matti qui? O mi prendi per un perfetto idiota?

Onofrio non rinunciava alla battuta di rimbalzo. Conosceva l’intelligenza e la sagacia del suo interlocutore, perciò sapeva di poterselo permettere.

- Monsignore, nessuno è perfetto! Ciascuno di noi nasconde un fantasma dentro di sé.

Monsignor Petrone cominciava a mostrare qualche segno d’inquietudine.

- Tu, piuttosto, perché ti aggiri qui fuori come uno spettro vagante? In sacrestia non c'è nessuno che stia a far la guardia e a rispondere. Li ho quasi scassati, i due battenti, bussando coi piedi.

Onofrio andava avanti imperterrito con  il suo programma

- Oh! I fantasmi attraversano porte e muri, quasi diafane fotografie, impresse nella coscienza della pellicola spazio - temporale. Questa dimora dell'oblio, l' ha forse toccata?

- L' ho toccata sì, ti dico, ed ho bussato. Ma non m' ha risposto nessuno spirito. I Fantasmi sono pure allucinazioni, che esistono solo nella  mente di chi li vede.

Mentre così sentenziava si sentì un tintinnare di catene, per cui Onofrio gli si rivolse con tono cospiratorio.

- Oh! Si sbaglia, Monsignore. Mentre lei era laggiù a predicare la sua Fede, questa è diventata la Chiesa dell'oblio. Dentro c'è una Fantasima diversa, metà donna e metà animale. Vive da sola al buio. L’alito della sua carne non esala una sola ombra. E’ crudele, violenta, cattiva. Ma è anche pura perché non è corrotta da nulla. Ogni fuoco è nel suo corpo e combatte prigioniero come il calore dei boschi di pini. Lascia apparire il suo essere solamente mediante la sua precarietà. Quando conosce un amore è la sua fine. Diventa debole. Il suo mondo crolla, il suo mistero è svelato e lei non ha più ragione d’esistere.

Monsignore lo guardava negli occhi rapito, mentre una folata di  vento faceva  frusciare le foglie secche.

- Che c'è? Che farfugli? Non esistono gli sdoppiamenti telepatici. Il nostro pensiero non riesce a cogliere un essere che si sottragga all’apparire degli enti. Può focalizzarlo solo cercando nelle differenze.

Ma Onofrio incalzava con la sua faccia di bronzo.

- Ogni ombra è uno sdoppiamento. Alcuni di questi Fantasmi sono Stay-behinds, spiriti rimasti indietro perché deceduti di morte violenta. Capperi, ha fatto male a toccare la porta! Cosa dice una mosca davanti a un cancello? Ogni essere accade sopratutto come sottrazione.

Le ultime  parole vennero quasi coperte da uno scricchiolio di rami. Monsignore non si lasciava suggestionare tanto facilmente. Era un vero tomista: pensava che ogni cosa avesse una spiegazione razionale.

- Che storia è questa? Che mosca d'Egitto? L’essere non ha una struttura stabile; è semplicemente l’alone di mortalità che circonda ogni ente.

Onofrio si rifugiava in allusioni oscure e volutamente ermetiche.

- Che guaio ha combinato, che disastro: roba da non dire! Essere è evento. Accadimento. Bussando alla porta lei ha determinato un evento. Un indebolimento. Ha messo in moto un’anima dormiente. Cosa fa un chicco di caffè sotto la doccia? Ogni ombra è un ricordo che trattiene il futuro assente. Raccoglie una traccia. Segna una natura incorporea ed inafferrabile.

Monsignore conosceva bene il suo sacrista e ciò lo induceva a un atteggiamento più guardingo e circospetto. Spolverando nelle sacrestie Onofrio si era imbattuto casualmente nei più disparati volumi. Siccome era  di natura curiosa ed arguta si era dato alla lettura. Nelle interminabili sieste pomeridiane, ardenti di calura, nelle nottate di scirocco e di levante, che rendono instabili ed insonni, i libri erano diventati i suoi amici più fedeli. Del resto egli era scarso di amici, perché tutti stavano alla larga dalle sue furbizie e dalle sue ricorrenti birbanterie. Aveva letto di tutto, ma con disordine, come sempre succede agli autodidatti. E le sue idee erano un autentico parapiglia. Un impasto di concetti profondi male assimilati. Sovrapposti senza linearità. Frammenti di verità appena masticate.   

- Ma cosa mai farnetichi? Dici parole di cui non conosci il senso. Impalpabili. Sospese. Deformate come in un’anamorfosi. Quasi un’eco visuale. Risulti viscido ed equivoco. La tua presenza mi fa desiderare la tua assenza.

Onofrio non si lasciava smontare per così poco. Era avvezzo a resistere a ben altri insulti ed improperi. Aveva preso ordini e rimbrotti per tutta la vita. Anche se astuto ed intrigante, un servitore rimane sempre un servitore. Gli tocca indovinare il pensiero del suo padrone, assecondarne le intenzioni, adoperarsi per portarle a buon fine con tutte le sue forze. Ma la gloria mai! Se le cose vanno bene, merito del padrone!  Appena un ingranaggio si inceppa o qualcosa non gira per il verso giusto, di chi la responsabilità e la colpa? Ma di quel pasticcione, cretino, intrigante e piantagrane di Onofrio! Manco a dirlo! Era lui il muro basso su cui scaricare ogni peso. Con il tempo  e l’esperienza aveva affinato le sue arti difensive. Aveva imparato a mimetizzarsi e a scansarsi all’arrivo di una bufera, ma, sopratutto, aveva imparato a fare orecchie da mercante. I rimproveri, le invettive, la maledizioni da un orecchio gli entravano e da un altro gli uscivano. Era come immunizzato. Impermeabilizzato e prontamente reattivo. Freddo e calcolatore. Capace di visualizzare e infilzare con precisione il nervo scoperto dell’avversario. 

- Le mie parole sono scevre di intenzionalità. Immagini della proiezione. Vive come ombre. Scappi, la prego! Via dai paraggi di questa Chiesa, fugga! Venga vicino a me. L' ha toccata, la porta? Non ha avvertito una sensazione di freddo e pesantezza? Quasi un ristagno d'energia?

Monsignore sostanzialmente non stimava Onofrio. E gli era pure antipatico per i suoi atteggiamenti, a tratti, irriverenti. Lo sentiva staccato, ostile. Un uomo di Don Adalgiso. Fedele al suo parroco, non già alla Chiesa. Ma la sua forte personalità, la capacità di fronteggiare lui, che nessuno aveva l’ardire di contrariare, gli incutevano una certa forma di rispetto. Perlomeno delle sue opinioni.

- L'aria è umida e odora di muffa stantia. Certo. L' ho toccata. Come potevo bussare senza toccarla?

Al sacrista non sfuggiva questa propria intensa capacità di condizionarlo. Sentiva di averlo agganciato. Di tenerlo in pugno.

- Ahimè, lei ha ucciso! Ha ucciso uno spirito saraceno incatenato nella dimensione terrestre. Sull’orlo del regno delle ombre che sopravvivono. Di coloro che non hanno più corpo ed errano tra la vita di cui sono ormai irrimediabilmente privi.

- Chi avrei ucciso? Come si può uccidere un morto? Come si può colpire un’ombra evanescente ed eterea? - si scherniva il Vescovo, a cui cominciava ad ingrossarsi il sangue.

Onofrio si rendeva conto della sua progressiva agitazione e affondava ulteriormente la lama.

- Ogni ombra risale spontaneamente il suo estuario verso la morte. Il divino. L’immagine. Tutti i suoi parenti ha ucciso l'oblio! In questa Chiesa, per la diabolica volontà dei fantasmi saraceni, i preti dimenticano Dio, il povero sacrista trascura i propri doveri religiosi e lei stesso, partito per la Terra Santa, rischia di essere dimenticato da tutti noi…

Queste ultime battute insolenti suscitarono la prevedibile reazione di Petrone. Cercò rifugio nella sua autorevolezza vescovile per cercare di rintuzzare gli  straripamenti del suo interlocutore.

- Per questo presagio, che Dio ti faccia...sentire la forza del suo perdono!. Dimenticare è quasi  morire, sciogliersi inconsapevoli da se stessi… nessuno può sentirsi vitale se non vive nella coscienza di qualcuno.. Gli annientati non hanno voce.

Quasi a  smentire la sua affermazione  si sentivano tutt’intorno vocine leggere, sospiri, gemiti. Onofrio era pronto a commentare e ad animare lo psico dramma.

- La loro voce è remissione di pena. Teatro di immagini. Temo forte che lei e tutti i suoi chierichetti non riuscirete mai a purificarvi. É un fantasma leggero come una nuvola, ma ostinato come un mulo: per convincerlo ad andare verso la luce, bisogna purificare la sacrestia, lavare pavimenti e vetri, spolverare i tappeti, pulire a fondo, bruciare una mistura di sale marino e alcool e spargere sale in circolo attorno alla stanza lasciando un piccolo varco in corrispondenza di una finestra o di una porta per permettergli di uscire. La sua voce è luce solo perché di giorno si spegne.

Nonostante fosse visibilmente stravolto Petrone, cercava di mantenere un aspetto controllato e dignitoso, ostentando incredulità. Nella sua attività pastorale si era abituato a sentirne di cotte e di crude. Nel segreto del confessionale i fedeli non solo gli aprivano il loro cuore e gli raccontavano la loro vita, ma si abbandonavano ai loro sogni, mettevano in moto la loro galoppante fantasia. I più narcisisti e millantatori confessavano anche colpe mai commesse. Desideri irrealizzati e irrealizzabili. Omicidi di nemici che, ancora vivi e vegeti, attraversavano i sentieri della vita. Amori strani, incestuosi, proibiti, con donne o uomini virtuosissimi, del tutto all’oscuro di quelle segrete passioni. Spesso gli risultava difficile separare il grano dal miglio, perciò era diventato un ascoltatore attento al dettaglio, al particolare rivelatore. In ogni caso prudente e cauto.   

- Ma che seccume d'oliva mi vuoi fare inghiottire?

Onofrio indicando i chierichetti al seguito di  Petrone, proseguiva la sua pantomima. Riuscire a mettere nel sacco un potente era stato sempre il suo sport preferito. Prendere per i fondelli un ingenuo, un credulo lo divertiva pure, ma era un gioco troppo semplice per la sua fertile intelligenza. Quando gli si presentava l’occasione di provarci con uno che avesse fama di persona arguta e perspicace ci provava un gusto matto e si impegnava con tutto se stesso.

- Ehi, ehi, gli comandi, a quei due, che si scostino di là. Cosa fanno appiccicati come uno sputo su una scala? Fantasima è molto triste. Piange nei bassifondi dei cunicoli delle antiche cave di pietre. Mentre singhiozza sciorina la sua maledizione. Ella potrà riposare solo quando un ragazzo biondo la aiuterà a far fiorire il mandorlo.

Don Alfio era sempre più scosso e turbato. Aveva sentito dire dagli anziani della parrocchia di una bellissima fanciulla, che, all’alba, circolava tra i Vicoli Saraceni e scompariva ai raggi del sole, ma aveva sempre supposto che fossero fantasticherie. Si era, comunque, abituato a preferire dire “che so?” piuttosto che “ se avessi saputo...!”, perciò, nel dubbio, invitò i chierichetti alla prudenza. 

- Voi, allontanatevi di là. Chi sputa in cielo in faccia torna.

- Non toccatela, la sacrestia. Toccate invece la terra, anche voi. Ecco, accendiamo questa candela - ormai a suo agio nel gioco che conduceva Onofrio tirava fuori dalla tasca una candela e l'accendeva, mormorando ai complici rinchiusi all’interno - Facciamo suonare una campana dal suono profondo - E subito si udivano dei rintocchi -  inginocchiamoci - e tutti compenetrati si inginocchiavano - e imploriamo gli spiriti guida che assistono il passaggio delle anime dalla terra al cielo affinché aiutino anche queste fantasime in transito

Monsignore, per qualche istante, sembrava come ipnotizzato. Era un uomo di Fede, in fondo. Abituato a rinunciare, in un batter d’occhio, a tutta la sua scienza per dare ascolto a una voce interna, nascosta. Per  immergersi e sprofondarsi interamente in un Rito. Per attribuire a un gesto, ad un’immagine, ad un oggetto sostanza di vita. Quel delinquente di un sacrestano riusciva ad attrarlo nel cerchio della sua magia.

- Imploriamo!…Imploriamo!…- ma immediatamente si riscuoteva - Ma che accidenti mi fai fare? Con i fantasmi la cosa peggiore è mostrare paura; è proprio questo sentimento che li lega a noi e rende difficile il loro allontanamento. Compassione, dunque, pietà, amore sono i mezzi più potenti per convincere questi esseri ad andare verso la luce. Perché non ti degni di chiarirmi meglio questa faccenda?

Sopraggiungevano, intanto, sussurri deboli ed imploranti. Eco senza superfici. Velate. Come infuse nello spazio. Misteriose, ma prive di solennità. Di diritto al senso. Beffarde alterità insediate nella somiglianza. Senza origini chiare. Prodigi di misteriose resistenze. Intenzioni d’amore 

- Il fatto è che da sette mesi nessuno mette piede in questa sacrestia, da quando noi l'abbiamo abbandonata. Questi mormorii si imparentano con le immagini attraverso l’amore. Accordano risonanza ai paesaggi, fondendo il visibile e il sonoro. E come disse il paracadute al paracadutista …. non so se mi spiego!

Vederlo incartarsi in disquisizioni superiori alla sue forze faceva intenerire. A Monsignore veniva voglia di sdrammatizzare.

- E perché? Sbottonati. Tanto perdi sempre i tuoi bottoni!

Istintivamente lo sguardo di Onofrio si di diresse sulla propria cerniera, ma la trovò perfettamente chiusa. Si percepiva, intanto, una musica new age e dalla casa fuoriusciva del fumo. Il sacrista sottolineò l’atmosfera particolare.

- Che  musica spettrale! Odori questo profumo di violette di Fantasima! - e Onofrio annusava - Qui bisogna guardarsi intorno. Non ci sarà qualcuno che ascolta le nostre parole?

Monsignor Alfio  si guardava intorno con circospezione.

- Tutto è tranquillo. Sento solo un immenso vuoto spirituale. Una solitudine categorica.  Senza attesa di redenzione. 

In verità, il silenzio era spezzato da un miagolio intercalato a gridi acuti e sottili.

- Ecco, è il gatto fantasma accoccolato in sacrestia. Guardi ancora. Più in profondità alla sua coscienza.

Monsignore non amava il piacere indotto dal dolore. Contemplare le membrane sanguinanti della sua pelle interna. Gli squarci ustionati, improvvisi e duraturi, prodotti da unghie estranee, in momenti di distrazione. Preferiva la concretezza del reale. Il controllo sensoriale delle emozioni.

- No, non c'è un'anima viva. Anzi sento squittire un topo.

Ma per tutto Onofrio escogitava una spiegazione agghiacciante, che rischiava di riportare indietro. Al punto di partenza.

- È il ratto sacro dell'Emiro Zabut, che ritorna come il fantasma di un poeta. Qui c'è stato un delitto capitale: una strage di innocenti!

Ancora le leggende! Rimbalzavano quelle strane ed enigmatiche storie popolari, che il Vescovo istintivamente ricacciava nell’inspiegabile. Nell’’imponderabile. Nelle diavolerie da esorcizzare.

- Cosa? Non ci capisco nulla.

Vedendolo sempre più nel pallone, il diabolico sacrista dava libero sfogo alla sua immaginazione.

- Lei potrebbe anche uscire di senno e nessuno noterebbe la differenza! Un delitto, le dico, commesso secoli addietro, una carneficina vecchia e antica.

- Antica?

- Sì, però noi lo abbiamo scoperto solo adesso.

- Per favore! Che delitto? Che strage? E chi l' ha compiuto?

Onofrio oracolava ormai come una Sibilla cumana. Quasi una gabbia avvolgente protesa su un gatto selvatico, pronto a graffiare. Impietoso. Numeri, masse, velocità, quantità, differenze divenivano sbarre di lino, con cui avvolgere le sue resistenze residue.

- Fede insanguinò Fede. Ospite uccise ospite, con le sue mani.

- L' ha ucciso?

- E ha sottratto il suo tesoro. E qui, proprio nei sotterranei della Chiesa, ha sotterrato l'ospite.

- E per quali motivi tu  sospetti tutto questo?

Incalzato dalle sue domande insistenti Onofrio faceva ricorso a tutta la sua creatività.

- Una volta il suo parroco aveva cenato fuori e, quando rientrò, andammo tutti a dormire, e ci assopimmo. Anche l’anima ha occhi, per quanto cieca sia. Io, per caso, mi ero scordato di spegnere la lucerna. E d'improvviso lui lanciò un altissimo grido.

- Chi? Don Adalgiso?

La tensione cresceva per l’avvertimento di sinistri cigolii. Qualcosa come un fruscio.

- Una Fantasima è venuta a visitarlo in sogno. Entrando ha squarciato la luce. Sedie controvento. Derive rugiadose. Deserti straripanti. Mari introvabili. Ringhiere scoccate. Stragi vocali. Avvolta nel suo profumo filtrante si è insinuata come una biscia nel suo letto!

Anche se preoccupato del quadro complessivo, Monsignore si divertiva all’immagine del serpentello tentatore.

- Meno male che non era un pitone!

- Quella Fantasima gli parlò in questo modo...

- Nel sogno?

- Strano, eh, che non abbia parlato ad uno sveglio, lei che era stato uccisa già da  mille anni! A volte lei mi sembra proprio con la testa in Cielo … a svolazzare tra gli Angeli! -

- Forse è meglio se sto zitto… ci faccio più figura! - Colto in contropiede dalla logica lineare del suo ragionamento, Monsignore incespicava, dando al sacrestano l'opportunità di incalzarlo.

- Gli disse: "Io sono Milù, l'ospite Saracina d'oltremare. Qui abito io. Questa è la casa che mi fu data. Sulle rive dell'Inferno, Belzebù non ha voluto accogliermi perché prematura fu la mia morte. La mia fiducia fu tradita, l'ospite che qui mi uccise, di nascosto mi sotterrò, in questa casa, senza funebri onori. Per il mio tesoro, quell'infame! Ora tu vattene da qui, maledetta è questa Chiesa, abitarvi è condannarsi all'oblio". Non mi basterebbe un anno per raccontarvi quali prodigi avvengano lì dentro...

 Sentendo cigolare una porta, Onofrio si rivolgeva a Monsignore sempre più teso. In lui ormai non solo vuoto, ma diluvio. Precipizi. Gocce dischiuse e subito forate.

- Per tutti i cetrioli, Monsignore, cosa sta succedendo?

Anche il più lieve respiro e risucchio entrava nei suoi sensi vigili e tesi. Alabastri d’infanzia. Angoscianti fragori. 

- La porta ha cigolato! Perché non la chiudi bene?

Onofrio non si accontentava di spiegazioni razionali. Nelle sue parole la realtà di suoni e sensazioni si ingigantiva di fantasie ed evocazioni, collegando la Leggenda alla Storia, l'immaginazione alle superstizioni.

- C'è una zanzara che soffre di claustrofobia! Ha bussato lei, la Principessa Saracina! Quella strega è capace di far saltare i sassi come ranocchie e di trasformare l'acqua in fuoco!

Dall'interno si udivano schiamazzi e risate sataniche, che scombussolavano Monsignore. L'atmosfera di festa e di orgia non era del tutto sedata, ma, ormai, anche il più normale dei balbettii finiva per sembrare un evento misterioso, capace di incutere paura e smarrimento.

- Mi s'è gelato il sangue nelle vene. Ipse dixit.Vivo mi chiamano i Fantasmi nell'Inferno! Perché non spegni la luce? 

- Cercavo di catturare una falena assassina! - ribatté Onofrio, preoccupato che gli schiamazzi spontanei dei due preti e dello loro Fantasime gli rovinassero la favola che stava abilmente costruendo e che il Vescovo lo cogliesse in castagna.

- Che cosa stai farfugliando tra te e  te?

 Arrivarono provvidenziali  un crescente cigolio della porta ed un tintinnio di catene; si udivano anche un soffio ed un fischio.

- Non sente il respiro affannoso dei fantasmi? Via dalla porta, la supplico, scappi!

Don Alfio avvertiva una spinta interiore ad abbandonare il campo, ma un sentimento di orgoglio e di dignità lo tratteneva.

- Scappare dove? Perché non scappi anche tu? - mentre i pensieri gli fuoriuscivano dalla scatola molliccia del suo cervello, battendo disordinatamente le ali.

- Non ho paura, io. C'è pace tra me e i morti.

Una voce femminile si levava dal di dentro - Ehi, Onofrio!

- Non mi chiamare, tu Fantasima …che tanto io non ti rispondo! Non ho fatto nulla, io. Mica ho bussato alla porta ... Ti prego ... vattene!

Al Vescovo qualcosa stonava. Come il gracchiare di una cornacchia spezzava l'aria. I suoi zigomi si facevano sempre più appuntiti. Si sentiva di gelo.

- ... cos'è che ti agita, Onofrio? Con chi stai bisbigliando? Perché non mi ascolti?

- Sto ascoltando. Non vede come sbadiglio? Ma allora era lei che mi chiamava? Che Dio mi protegga! credevo che fosse il soffio angosciato della Fantasima Saracina. Ma lei sta ancora lì? Cerchi rifugio nella casa di Crocifissa! Perché si rosicchia le unghia?

Colto in fragrante, come un ragazzino con le mani tra la marmellata, cercò di celiare.

- Hanno un gusto migliore delle merendine e mi affilano i denti!

Onofrio era deciso a profittare del suo disorientamento.

- Non si volti indietro! scappi e si nasconda la testa.

Ma Monsignore gli resisteva ancora. Sentiva vagamente puzzo di bruciato, ma non riusciva ad individuare donde provenisse il fumo. 

- Perché non scappi tu?

- Io ho fatto la pace con i Fantasmi Saraceni.

Monsignore, con un cuore d’asino cocciuto ed un altro di lepre, accennava alla fuga e indugiava ancora. Tanti dubbi scherzavano con la sua testa come vermi di formaggio pecorino, ma si negavano ad un discorso. Si facevano silenzio e perplessità.

- Capisco. Ma allora perché avevi tanta paura poco fa?

Onofrio continuava ad avere fifa per le condizioni di autocontrollo dei suoi amici, ma riusciva a darsi un contegno.

- Non badi a me, le dico. A me stesso ci penso io.

Lentamente e provvidenzialmente avanzava una Fantasima bianca, nebulosa, fosforescente, illuminata da dentro, con un cappuccio ed un sottogola bianco. Il volto bianco e gli occhi tormentati erano coronati da un viluppo di riccioli castano dorati, intrecciati con un nastro colorato. Mentre si avvicinava la sensazione di familiarità si intensificava.

- Lei, già che ha cominciato, scappi alla maniera di chi scappa e prega i Santi del Paradiso.

Era decisamente troppo anche per lo scetticismo di Monsignor Alfio Petrone, che cominciò a correre, invocando il suo Santo protettore.

- San Giorgio, ti prego, tira fuori il tuo spadone! Onofrio, ave! Mors tua vita mea!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo VIII

 

Dormiveglia.

 

 

 

 

Monsignore leggeva da circa venti minuti tutto preso dal libro. Non trovando il coraggio di entrare in Canonica, si era rifugiato nella Stanza Lunga, attigua all’abitazione di Crocifissa. Si era disteso sul letto  per riprendersi dalla fatica del lungo viaggio, ma il suo tentativo di fare un sonnellino risultava velleitario. Non riusciva a prendere sonno. Comunque si girasse le lenzuola gli sembravano sempre calde. Era disteso sulla destra , con il viso rivolto verso la parete occidentale, graffiata, scrostata e ricoperta da chiazze scure ad un’altezza di circa trenta centimetri dal pavimento. Il Vangelo lo assorbiva interamente, come quando era in serena meditazione, ma era pronto a scattare, con gli occhi aperti e vigili. Per quanto non sentisse ancora niente nella stanza, scura come la pece, avvertiva una sensazione di disagio e di impedimento, se desiderava voltarsi verso il basso soffitto, sorretto da travi di quercia. Un’invisibile concentrazione di Male Ignoto. Come se fosse circondato dalle macerie di un’esistenza improvvisamente e tragicamente distrutta. Da un essere senza pace, che non conosceva nè la pietà nè il rimorso.  Volgendo la testa sopra la spalla intravide una indistinta colonna di luce, che si allungava dal pavimento al soffitto, davanti  una vecchia credenza aperta, senza specchi né vetrate, dove l’oscurità ti ingoiava come una trappola. Una sedia a dondolo rivestita di un logoro velluto, posta tra i drappeggi a chintz del letto ed il camino, si inclinò completamente all’indietro, come se qualcuno vi si fosse seduto in quel momento, e cominciò ad oscillare lentamente. Doveva essere un gioco di riflessi del fuoco! Si girò di nuovo,  chiuse il Vangelo e gli occhi e tentò d’addormentarsi, con un’espressione interrogativa stampata in viso. Percepiva un inquieto tamburellare di dita sui vetri. Seguito dal rumore inequivocabile di un coltello che veniva lentamente affilato. Tutto l’odio del mondo era concentrato in quella lenta e deliberata operazione. Non ne aveva paura, anzi ne era affascinato ed attratto come da una calamita, ma provava una leggera sensazione di nervosismo e di freddo. La luce bluastra si materializzava, si espandeva fino a brillare come un disco di fuoco e gradualmente assumeva la forma di una giovane donna, piegata in avanti, con  il braccio destro teso e la mano leggermente rialzata, come stesse cercando qualcosa sui pannelli che rivestivano l’ampia camera da notte. Le grandi vene blu risaltavano nettamente. Non si occupava di lui. Non lo guardava neppure. Per quanto si sforzasse non riusciva ad intravederne distintamente gli arti inferiori. Aveva lo sguardo fisso come se riuscisse a trapassare le mura della camera. L’altro braccio non era visibile e la veste scendeva fino ai piedi, la cui forma non era ben definita. Il contorno del viso era ovale e gradevole, la pelle vellutata come un petalo di magnolia, ma la luce nebulosa che la avvolgeva gli impediva di distinguerne i lineamenti. Aveva lunghi capelli, incollati e sporcati su una tempia da grumi di sangue e comunicava sofferenza ed infelicità incommensurabili. Si girò, allora, verso la finestra per vedere se qualche raggio di luce attraversava la stanza, ma non discerneva traccia di bagliori nè della finestra. Una falce di luna crescente si preparava a mietere il raccolto delle stelle.  Anche se era molto eccitato, si sentiva ancora padrone di se stesso, ma si insinuava in lui la paura che i suoi nervi stessero per cedere. Spostando gli occhi verso i bagliori del fuoco, che danzavano nel caminetto e proiettavano riflessi rossastri, blu, verdi e lilla e si rincorrevano in ogni angolo della stanza in una carnascialesca orgia di tinte, avvertiva una strana mescolanza di sensazioni. Gli sembrava che anche la donna si spostasse, con calma e lentamente, verso la parete, ad angolo retto con l’abat-jour, acceso sul suo comodino. Mentre stava in piedi, tra lui e la finestra quadrata come un occhio insonne e senza palpebre,  sembrava alzare la testa, reclinarla all’indietro e, su tutto il corpo, le rosseggiavano delle ferite sanguinanti. Dal soffitto un liquido gocciolava lentamente ed un’umida traccia rossa macchiava inesorabilmente la tovaglia bianca distesa sul tavolo. Come contagiato, anche lui aveva la sensazione di essersi tagliato e di sanguinare dal labbro superiore. Si toccò con lo stupore raggelato di un coniglio che si imbatte in un serpente. La figura rimase ferma per qualche istante, con un sorriso crudele e derisorio, poi, improvvisamente, scomparve in direzione di un fossato, fra un ponticello rustico ed un grande frassino. Don Alfio si alzò dal letto agitato, prese un fazzolettino, lo compresse sulle labbra a mò di tampone e cominciò a sbirciare in tutti gli angoli della stanza. Non trovando niente, tornava ad infilarsi perplesso tra le lenzuola. Non aveva fatto in tempo a spegnere la luce che la donna riappariva carponi e avanzava verso di lui, con gli occhi sbarrati, quasi da pazza. Era stravolto. Incapace di qualsiasi pensiero o reazione logica. Prigioniero indifeso dei Poteri delle Tenebre. Le chiese cosa volesse. Non rispose, lo afferrò per una caviglia e scomparve sotto il letto. Si chinò per vederla, la luce si spense  e la stanza divenne completamente buia. Mani viscide e lunghe dita sottili, culminanti in unghia uncinate,  lo palpavano in cerca della gola. Bruciavano nella carne come un acido.  Il Vescovo si consolò che era molto stancò e provò a riaddormentarsi. Detestava qualsiasi genere di superstizione. Doveva essere giunto ad una crisi spirituale della sua vita per sentirsi come si sentiva. Dopo qualche minuto il chiarore tornò ad inondare la camera, che si riempì di una strana vibrazione. Si ricordò degli avvertimenti di Onofrio, si chiese che ora fosse e tirò fuori l’orologio dal taschino. Il quadrante nero era diventato bianco e le lancette pulsavano viola. Ticchettava malinconicamente ed il suo ticchettio riecheggiava nel vuoto cupo della casa. C’era un non so che di sgradevole nell’aria.  Era come se dei mostri gli si affollassero intorno. Intorno c’erano strani rumori. Come di passi in punta di piedi. Di qualcuno che portava scarpe con il tacco. Voci sommesse e fruscii di sottane. Un inspiegabile calpestio proveniente dal tetto. Un susseguirsi di pesanti tonfi. Un bussare concitato nella camera di sotto ed il trillo insistente del campanello. Tre colpi violenti alla porta. La donna ora era una ragazza intenta a pettinarsi i capelli lisci e sciolti. Sembrava vestita di una camicia da notte, anche se non aveva un aspetto del tutto reale. Aveva la gola squarciata da un orecchio all’altro. Pareva giunta dai confini dello spazio senza suoni per ottenere la sua comprensione ed il suo amore. La sua bellezza malinconica parlava al suo cuore e scaldava la sua fantasia di una felicità dolce-amara. Osservandola meglio si trattava di un abito da sera. Aveva maniche a sbuffo, un colletto alto, la vita stretta artificialmente ed una fila di bottoni lungo il corpetto. I capelli biondi non erano del tutto sciolti, ma avvolti sulla sommità del capo. Accanto a lei una monaca, che guardava dritto verso di lui e scompariva e compariva ad intermittenza. Cercò di afferrarla, la le passò attraverso. Pareva un’ombra tridimensionale. Un’onda oscura. Al suo posto avanzava un’anziana signora, piccola e poco appariscente, senza cappello nè cappotto, con i capelli corti ed ondulati ed un vestito fuori moda; era magra, piuttosto rinsecchita, con il capo chino, come se un peso la schiacciasse. Sembrava fosse a casa propria e sapesse dove scomparire per far posto ad un’altra figura vestita di nero, con i capelli grigi e con qualche stranezza intorno al naso ed alla bocca. Sollevava la gonna della veste nera e scopriva piedi e caviglie ricoperti di calzettoni grigi. Poi si voltava a conversare con un’altra persona, in piedi vicino al fuoco del caminetto, con indosso una cotta bianca sopra una vesta nera. Sembrava un alto prelato. Un Vescovo. Dall’aria calma ed innocente. La proiezione trasparente della sua stessa immagine. Totalmente lontana da lui e dai suoi sentimenti come un quadro o una statua. Un po' più vecchio indubbiamente con il volto emaciato. Con una lunga barba bianca fluttuante al vento. Mentre attraversava un lago limaccioso, spingendo una chiatta con una lunga pertica. Ma non c’era nessuna barca. Semplicemente scivolava sull’acqua scura, scosso da qualche turbine improvviso. Probabilmente si era addormentato e stava solo sognando. Si augurava di risvegliarsi al più presto. Provò a darsi qualche pizzicotto e si accorse di sentire realmente dolore. Non era un sogno balordo. Un intenso profumo d’incenso gli inondava le narici ed una polvere vecchia gli soffiava sul volto.  Don Alfio camminava sulla superficie dell’acqua. Pesciolini rossi si aggiravano tra gruppi di ninfee, che aspettavano di dare il benvenuto alla notte schiudendo i loro petali. Procedeva appoggiandosi ad un bastone da passeggio di ebano, con le mani intrecciate sul manico. Verso una Chiesa stranamente abbandonata, dalle vetrate preziose trafitte da frequenti squarci di lampi. Aveva l’aspetto di un animale acquattato.  Pareva il posto adatto per riunirsi a tramare. Da una finestra della Torre senza Scale brillava una luce, in parte fosforescente ed in parte fiammeggiante, che fluttuava nella notte come un nastro bianco. Stava diluviando. In certi punti il terreno diveniva una piscina.  La strada d’accesso era un viottolo tortuoso, umido, fangoso ed allagato, circondato da un giardino selvoso. Lo ubriacava l’aroma amaro dei sempreverdi. Non c’era fiore ad ostentare la propria bellezza contro il blu nerastro del cielo. I pipistrelli, abbarbicati alle travi tarlate dei solai, svettavano sollevando la polvere ammuffita dalle crepe e tracciavano i loro cerchi nell’aria tempestosa. Erbacce e rose rampicanti infestavano una siepe di tasso trascurata, agitando le loro braccia imploranti attenzione e cura.  I vapori esalati dal terreno si incontravano con quelli del cielo sfumanti dal blu verso il giada. Don Alfio assaporava il respiro della pioggia, il profumo dei pallidi fiori di tabacco, la fragranza appassionata di una magnolia e l’odore troppo dolce della serenella. Aveva la bocca aperta e rilassata ed i suoi baffi bianchi ondeggiavano nella brezza improvvisa. Ora indossava pantaloni di colore scuro, vecchi e sudici, una camicia di flanella scozzese senza colletto, sbottonata sul collo ed un vecchio panciotto macchiato di grasso e di cibo. Aveva una sciarpa, nera, bianca e rossa, annodata intorno al collo. Sul capo una bombetta nera, che aveva visto tempi migliori. Quando fu vicino alla sponda, attraversò un canneto e scomparve completamente nell’ombra del bosco. La ragazza bionda stava attraversando un cancello. Aveva cambiato look. Portava uno scialle di lana a quadri ed  un cappellino grigio-nero, con una punta di colore. Il suo aspetto complessivo era comunque comune e concreto. Percorreva tranquillamente un bellissimo viale di grandi faggi, adornato da fiori di campo, bianchi come stelle,  verso una casa bianca, in cima ad una collina di peschi in fiore. Un aroma di pini, mescolato all’essenza pungente dell’erica e a quella dolce della ginestra, si diffondeva nella foschia leggera e sospesa. Saliva sette scalini e alzava una mano per suonare un campanello prima di eclissarsi in una palla di luce fosforescente. Don Alfio riappariva avvolto in un mantello azzurro, ampio, circolare, gettato sulla spalla alla maniera spagnola. Calzava stivali di foggia particolari: alti e rivoltati in giù, al di sopra del ginocchio. Il cappello, di morbido feltro, aveva una larga tesa abbassata e ed era portato così basso da una parte che gli nascondeva il viso. Provò ad andarle incontrò ma la figura, pur non perdendo la propria forma, diveniva sempre più trasparente e sbiadita. Come una massa di fumo uscita da una locomotiva diventa sempre più rada mentre aleggia sul terreno. In un certo momento sembrava che si librasse e volasse, travolta da una gelida tramontana. Poi si arrestava, si girava e lo salutava con uno sguardo vacuo ed un’espressione tremenda. Una splendente e gelida luna piena inondava ora la sua stanza, infiltrandosi tra le tendine di pizzo scostate ed egli si sentiva schiacciato dalla sua forza, teso ed ansioso. Dalla finestra i fiori addormentati alitavano un fievole profumo. L’erba di vento, i ciuffi di pelo caprino e di spicalora luccicavano delle lacrime della notte e gli alti gigli color arancio, allineati ai piedi di un muretto, sembravano sentinelle schierate a guardia del giardino. Qualcuno saliva le scale con passo leggero. Si udiva uno strascicare di pantofole. Passi lenti ed esitanti accompagnati da un respiro affannoso intercalato da diversi colpi di tosse.  Monsignore si chiedeva chi mai potesse essere. Si era immaginato che molti fedeli ed amici sarebbero venuti a trovarlo non appena avessero saputo del suo ritorno dal Medio Oriente, ma si sentiva troppo stanco per incontrarne qualcuno. Aveva scelto di rientrare alla chetichella per potersi riposare. Mentre rifletteva sulla propria stanchezza sentiva girare la maniglia della porta  e dei passi dirigersi verso il letto. Istintivamente sfregò alcuni  fiammiferi finché accese una candela, si girò in quella direzione e, nel soffocante puzzo dello zolfo, intravide l’inconfondibile sagoma del suo sacrista, nella sua veste blu, con i bordi di pelo di scoiattolo, abbottonata solo a metà, in modo da lasciare intravedere il panciotto bianco ed i pantaloni neri.

- Mi aveva chiesto di svegliarla presto.... -

- Più tardi Onofrio. Lasciami dormire ancora un poco. Non sono riuscito a chiudere occhio -

- Tutto a posto? Qualcosa non va? Ha bisogno di me? -

Un soffio di gelido vento fece volare la cenere dal caminetto, sparpagliandola come fiocchi di neve grigia. Niente era a posto ed avrebbe avuto bisogno di tante cose. Si sentiva scombussolato. Come fosse sbarcato su un altro pianeta. Ma non voleva dargli questa soddisfazione e non voleva apparirgli ridicolo.

- Tutto a postissimo, stai tranquillo. Prima di uscire, chiudi bene le tende della finestra. La luce mi dà fastidio. -

Riprovò a chiudere gli occhi come le ostriche e si tirò il lenzuolo sulla testa, ma dalla stanza, in cui dormiva Crocifissa, arrivava un frastuono tremendo. Sembrava che camminasse avanti ed indietro, aprendo e chiudendo i cassetti con molta violenza e scaraventando con violenza sedie per terra, che giocasse a palla o con le biglie, o facesse rotolare delle palle di cannone, che sbattesse porte con schianto, mettendo a dura prova i cardini. Era sbalordito ed allarmato che facesse tanta confusione. In genere era molto tranquilla e silenziosa. Si girò verso il muro e si coprì le orecchie con il cuscino, ma provò la strana sensazione di essere osservato. Aveva l’impressione che nella stanza ci fosse qualche altra cosa. Avvertiva anche uno strano formicolio alla nuca. Un’oscurità statica ed opprimente saturava la sua anima. Sotto il tavolo di mogano, dentro una gabbia di ferro, rilucente come ippocastano, una massa informe come una nuvola, un enorme cane nero, con un fiocco rosso, se ne stava pacificamente seduto sul pavimento, volgendogli il fianco sinistro, ansando pesantemente e uggiolando. Provò a stropicciarsi gli occhi ed era divenuto un gatto a strisce nere, che lo guardava con sguardo malinconico e saltava dal bracciolo di una poltrona. Ad un certo punto entrava in brio. Sentiva che le sue zampette premevano le coperte e che faceva le giravolte tipiche di un gatto soddisfatto, poi gli si accoccolava sul viso senza graffiarlo, gli si raggomitolava sulla pancia, facendogli le fusa, e schizzava fuori dalla porta, dissolvendosi nel nulla. Don Alfio era inchiodato dalla paura di qualcosa che sembrava risentito della sua presenza. Era una notte uggiosa. Nella camera c’era un odore stantio. Come di una dignità sbiadita. Di noia e di tedio.  L’aria trasudava umidità. Nonostante il caminetto acceso, aveva bridivi di freddo alla nuca, sulla testa e sulla cima della fronte. Si sentiva spossato e provava un senso di nausea mentale. Vicino alla finestra, dentro un cerchio di luce grigia, simile al riflesso di uno specchio, tornavano a fissarlo intensamente la testa e le spalle della ragazza bionda, dai capelli lisci e folti. Come si stesse avvicinando di soppiatto, con un aspetto terribilmente determinato. Il pavimento di legno, ricoperto di uno spesso strato di polvere e pieno di tarli, scricchiolava e gemeva. Il lembo della sua gonna di broccato di seta sfiorò la cortina del letto. La sorpresa lo immobilizzò e lo stordì. Rimase come pietrificato. Aveva la lingua paralizzata.  Il suo viso era lungo e malinconico, con un’ombra sotto il naso. Sopra lo stupendo abito di seta verde pieghettato e  luminescente, portava un cappotto a quadri ed un cappellino floscio. Teneva il cappotto a posto con una mano bianca e scarna. Posava l’altra mano sotto il suo mento ed era fredda come il ghiaccio. Il Vescovo si contraeva sul letto per questa sensazione glaciale, impallidiva e le braccia gli cadevano sui fianchi. Anche se gli sorrideva amichevolmente, era assolutamente terrificato. Avvertiva un’inspiegabile sensazione di infelicità e tristezza. Gli sembrava che il cuore gli si fermasse e poi facesse un tonfo. Tutte le cose del mondo sembravano nascere e terminare in un cimitero. Si tuffò sotto le coperte e rimase così per alcuni minuti, con la testa che gli scoppiava per mancanza d’aria. La sua parte conigliesca pensava che in quella donna ci fosse la sua morte, ma l’altro se stesso, il prelato forte e consapevole, si rassicurò che era un’idea stupida. Emerse da sotto le lenzuola per prendere aria e la figura era ancora lì e lo fissava tesa, in silenzio, con uno sguardo confuso e mesto, come se si sentisse incerta o soffrisse di ulcera. Un muto e straziante lamento. Lo impressionava la sua scortesia e la sua riluttanza a parlare. Pensava di toccarla per darle conforto, ma la sua mano incontrava una solida barriera, una specie di forza invisibile, come quella che agisce su una mano tesa fuori dal finestrino di una macchina in corsa. Pensava di baciarla per consolarla, ma le sue gambe erano incollate alle lenzuola, i muscoli erano completamente irrigiditi e non gli rispondevano, perciò non riusciva a balzare fuori dal letto. Come fosse di piombo. Sperimentò un senso di panico e di sgomento assoluto. Era immerso in una pozza di sudore freddo.  Tentò di gridare, ma dalla sua bocca non usciva alcun suono. Improvvisamente fu come se lasciasse piedi, gambe e mani e fosse tutto nella propria testa. Provava un così grande senso di trepidazione che quasi non respirava. Era assente al suo corpo, anzi lo spingeva verso l’alto e si ritrovava a volteggiare con una luce blu che si univa a lui, sdraiato sul letto. Sentiva il suo corpo e la sua voce nuovamente attivi. Una mano fresca e dolce gli si posava sulla fronte. Un sogno nel sogno, che tendeva ad altri sogni. Lanciò un urlo disperato, che fendette l’aria profumata di legno come una meteora e di cui udì fortissimo il rimbombo.  - Non ho nulla per te! -

L’effetto fu elettrizzante. Un lungo silenzio teso. Un deserto totale. Non c’era più niente e nessuno nella stanza. Ma non aveva alcuna voglia di riprovarci. Le tende intessute da diverse generazioni di ragni ondeggiavano. Si affacciò alla finestra. La giornata avanzava senza vento e con un pizzico di  sole curioso, ma l’alito della rinascita era nell’aria. Schiere di narcisi mostravano le loro verdi cime e nelle distese aperte dei campi di garigliano chiazze di violette tingevano le siepi come macchie di vino. Cespugli di lillà brillavano come bianchi coralli in un mare di foglie smeraldine, ostentavano i cupi e foschi rosso-porpora d’Oriente  e sbocciavano in nuvole rosate e color malva. Nessun fantasma si sarebbe avventurato tra i lillà in piena fioritura. Ogni sentimento di disagio si stava ormai dissipando. Stressato e rassegnato a non potersi riposare, si fece il segno della croce, riaccese la luce e si alzò pervaso da quel senso d’inquietudine e d’angoscia che annichilisce ogni uomo davanti all’ignoto. Si  augurava di potersi congiungere al più presto con il Sognatore di tutti i sogni. Con l’Essere di tutti gli esseri.

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo IX

 

 

La sanguisuga. 

 

 

Il losco individuo, che passeggiava nervosamente nella piazza, indossava jeans sgualciti ed era decorato con parecchi piercing al naso, nelle orecchie e sulla punta della lingua. Parlottando a bassa voce, rimuginava sull’anno dannato che attraversava chi spacciava droga. Per tutto il giorno, dal  mattino alla sera, se ne stava in piazza, a bighellonare e non riusciva a fare un occhio a una pupa! La crisi dello spaccio al minuto non era tanto consequenziale alle frequenti campagne pubblicitarie dissuasive, all’inasprimento delle pene anche per i consumatori o alla sorveglianza delle forze dell’ordine. Poliziotti e Carabinieri facevano con maggiore  scrupolo il loro dovere, ma il diavolo fabbricava le pentole e dimenticava di metterci i coperchi! Si trovava sempre qualcuno disposto a chiudere un occhio, ad allentare la vigilanza nei posti e negli orari di maggiore richiesta. Insomma, da quel punto di vista, la montagna rimbombava per partorire alla fine un topolino! Era l’assottigliarsi della liquidità nelle tasche dei consumatori il vero nemico. La crisi produttiva, la recessione economica, l’impazzimento dei prezzi, successivo all’introduzione dell’Euro, la svalutazione di redditi, stipendi e pensioni, il dilagare della disoccupazione, sopratutto giovanile ed intellettuale, avevano svuotato i cassetti degli anziani, cosicché anche le tasche dei giovani erano piene di ragnatele! Quando i soldi mancano sono i consumi accessori i primi a saltare. L’economia dei consumi e la politica del capitalismo azionario legano ogni uomo libidinalmente e aggressivamente alla merce; il bisogno di possedere, di consumare, di usare i prodotti offerti sul mercato predominano in ogni individuo, anche a costo della propria distruzione. Per il tossicodipendente la droga, qualsiasi droga, costituisce un bisogno primario da soddisfare ad ogni costo, parte integrante del suo esistere, della sua realizzazione, anche se perpetua la sua servitù. La frustrazione, l’infelicità, la malattia rimanevano la base, il fondamento di questa oscenità sociale, di questo tentativo di alienazione collettiva, di questa sublimazione dei sentimenti e delle emozioni. Ai giovani di inizio secolo la società risultava insopportabile per la scandalosa esposizione di una soffocante quantità di merci nei supermercati, i sofisticati arsenali e le armi di distruzione, mentre, in Africa ed in Asia, i bambini morivano di fame; inaccettabile per i suoi immondezzai di rifiuti e i dissesti ecologici ed ambientali; oscena per i sorrisi ipocriti dei suoi divi dello schermo e della politica; scurrile nei salotti televisivi degli pseudointellettuali, nell’ignoranza della propria miseria spirituale e persino nella meccanica ripetitività delle sue preghiere. Dalla percezione di quest’oscenità scaturivano disagio e vergogna. Sensi di colpa e manie trasgressive. Rivolte istintuali e ribellioni antiautoritarie. Disfacimento di valori e sovversioni culturali. Le cronache echeggiavano di parricidi, matricidi, infanticidi, compiuti con la più fredda indifferenza ed il più cinico distacco. Il rifugio nei paradisi artificiali, la ricerca di sogno, di sfuggire a se stessi e alla realtà, di dipendere da una canna socializzante, da una sniffata esaltante, da un buco annientante non costituivano il male in sé, ma solo il sintomo, l’effetto visibile e macroscopico di un disagio di vivere diffuso e profondo. Per un tossico era difficile liberarsi dal suo spacciatore. Gli riusciva più agevole liberarsi da se stesso. Magari senza deciderlo con netta lucidità e consapevolezza. Vegetando. In attesa dell’overdose fatale. Per i consumatori edonistici è più facile dare un occhio ai prezzi e rallentare i consumi. Il cambiamento del mercato evolveva anche il ruolo ed il comportamento dello spacciatore, che, in qualche modo, curava in modo più personalizzato il cliente, lo seguiva, gli anticipava la roba, accettando pagamenti dilazionati. Il sistema capitalistico imponeva anche qui le sue leggi, sublimando persino l’aggressività di uno spacciatore spregiudicato come Cerbero , trasformandolo in strumento capace di offrire appagamento  e soddisfazione di lunga durata e di riprodurre la servitù volontaria di consumatori anche di quelli inizialmente edonistici e voluttuari come Don Adalgiso. Appena lo riconobbe dall’andatura dinoccolata  Onofrio si sentì fottuto una volta per sempre. Lo spacciatore, che gli aveva anticipato l'erba ed il vino, veniva senza dubbio a batter cassa. I giorni stabiliti erano volati e Cerbero voleva  i suoi Euro! Tutto rischiava di scoperchiarsi se non giocava d'anticipo, in modo che il Vescovo non venisse a sapere. Vedendo che Monsignor Alfio Petrone stava ritornando, quasi contemporaneamente, optò per  andargli incontro con sollecitudine. Perché mai il Vescovo se ne tornava così presto verso casa? Onofrio aveva paura che avesse sentito qualcosa sulla faccenda. L'abbordò per distrarsi dalla fifa che lo attanagliava! Non c'è nulla di peggio di una coscienza sporca. Ma Onofrio sentiva che non poteva neanche permettersi il lusso del tormento... Fosse come fosse, la situazione esigeva che lui continuasse ad intorbidare le acque.

- Mio carissimo Monsignor Petrone, da dove piomba, così affannato?

Monsignor Alfio Petrone non era tipo da lasciarsi abbindolare totalmente. 

- Ho incontrato quel tale che ci ha venduto questa sacrestia.

Era proprio uno degli eventi che Onofrio avrebbe sperato di ritardare più a lungo possibile.

- E di ciò che le ho detto sui Fantasmi, mica gli avrà fatto parola?

Monsignore era un uomo tutto d’un pezzo. Aveva un temperamento emotivo e suggestionabile, ma, passato il primo impatto, affioravano le sue convinzioni più radicate e profonde. Da convinto tomista non accettava mai spiegazioni superficiali, perciò era soddisfatto di aprirsi e confrontarsi con chi poteva aiutarlo a capire.

- Per Dio, tutto gli ho detto, tutto!

Onofrio era costernato. Il suo Vescovo parlava tanto da ustionarsi la lingua. Non gli restava che autocompiangersi. Aveva pura che i suoi trucchi fossero finiti per sempre!

Cogliendo la sua espressione di disorientamento Monsignor Alfio lo incalzava.

- Che cosa stai rimuginando fra di te?

Onofrio si scherniva, cercando di mascherare il suo imbarazzo con un’ostentazione d’indifferenza.

- Niente... Ma lei, per favore, si spieghi meglio: gli ha svuotato tutto il sacco?...

Monsignor Alfio era stupito della sua inconsueta ritrosia. Lamentarsi dei fantasmi con il proprietario della casa gli pareva la cosa più naturale da farsi.

- Certo che glielo ho detto. Melius abundare quam deficere! Tutto quanto!

Onofrio sentiva la terra scricchiolargli sotto i piedi.

- E lui, per la Principessa Saracina, confessa?

Monsignor Alfio Petrone non aveva mai creduto seriamente nelle ombre. Di Aldilà, quello garantitogli del suo Cristo gli bastava e gli sopravanzava.

- Macché. Quello nega decisamente. Non ha mai visto nessuna Fantasima Saracina. Un’annientata non ha voce. Ogni fuoco è nel suo corpo e vi combatte prigioniero come il calore dei boschi. Nell’ammutolita notte senza memoria.

Onofrio era sempre disorientato dalla dialettica del suo Vescovo. Quando cominciava a predicare stentava  a seguire il filo del suo ragionamento e aveva difficoltà a controbatterlo. Gli mancava l’indispensabile supporto culturale. Ma non gli difettavano la malizia e la birbanteria.  

- È possibile. Una volta Fantasima si è trasformata in una gallina bianca, con penne e piume in tutto il corpo.

Monsignor Alfio Petrone diffidava di Onofrio per partito preso. Ne conosceva la tendenza all’imbroglio e al sotterfugio, tuttavia era di una curiosità straordinaria. La sua attrazione per le stranezze e le fandonie più disparate era proverbiale tra i suoi colleghi sin dai tempi del Seminario. Pur fiutando un pasticcio, difficilmente rinunciava ad andare fino in fondo. A costo di affossarsi preferiva assecondare il suo diabolico sacrista.

- E le uova di che colore erano?

Onofrio riacquistava animo e fantasia.

- Rossicce.  Don Adalgiso le usava per preparare frittate deliziose.

Monsignor Alfio Petrone  appariva sbalordito.

- Incredibile!

Onofrio non era del tutto convinto della sua manifesta credulità, ma ormai non poteva certo tornare indietro. Era come immerso in una corrente scrosciante che lo investiva e dirigeva le sue immagini travolgendo il suo stesso pensiero.

- Un mattino Fantasima spuntò con la pelle grigiastra e rugosa come il guscio di una noce.

Monsignore sembrava morbosamente affascinato dai particolari. Ogni sua fibra partecipava del racconto di Onofrio. La sua mente evocava tremuli bui ondeggianti. Estasi. L’inaudito sgorgava come zampillante acqua cupa.

- E Don Adalgiso? Ha mangiato anche la noce?

Onofrio ormai procedeva a briglia sciolta. Oltre. Tra fragili onde di sangue.

- Stava per addentarla. Ma divenne improvvisamente di pietra… dalla testa ai piedi!

- Di pietra vera?

- Di granito. Una deliziosa statua per appenderci gli ombrelli.

Monsignor Alfio Petrone era semplicemente sbigottito. Quasi che miliardi di radici lo risucchiassero in un’altra dimensione. Tra compagne di giochi color pesca porpora e viola.

- Per l'Arcangelo Gabriele!

Onofrio si sentiva ormai padrone del campo. Gli sembrava di poterselo riportare a spasso senza limiti. Dove nessuno lo conosceva e lui non conosceva nessuno.

- Fantasima ha i capelli finti. In realtà è calva come un uovo.

Monsignor Petrone era veramente compenetrato. Tra ammassi risucchianti d’oscurità. Sotto la cenere degli anni.

- Che schifo! Assurdo! Orribile! Ripugnante! E adesso, secondo te, che cosa bisogna fare?

Con la coda dell’occhio Onofrio intravedeva una sagoma in avvicinamento. Non poteva rischiare che quello spregiudicato di Cerbero si intrufolasse nella loro conversazione. Doveva sganciarsi immediatamente. Almeno conquistare uno spazio fisico vitale, che gli consentisse qualche attimo di conversazione privata con lo spacciatore. 

- Che fare? La supplico, per tutte le cicorie autunnali, non perda un altro attimo di tempo. Vada subito a cercare un giudice, d'intesa con quel piantagrane di proprietario. Ma badi di sceglierne uno che mi presti fede. Vincerà facile facile, come una volpe che si sbafa una pera.

Il torvo Spacciatore, nel frattempo si era spazientito di poltrire in un’attesa estenuante. Per ingannare l'attesa si accaniva a scagliare verso l'alto  rotonde palline create con il muco che, con pignolesca diligenza, divelleva dal naso con il mignolo della mano sinistra. La giornata  era davvero snervante. Non arrivavano né consumatori né debitori. Lo stesso sacrista di Don Adalgiso, Onofrio, che, in genere pagava puntualmente almeno gli interessi, se ne stava a parlottare, con aria indifferente, come se non lo conoscesse. Cominciava a temere che anche il gruppo della parrocchia non gli sganciasse né il capitale né gli interessi. Di solito lui non era pressante con i clienti. Preferiva che le sue vittime si aggrovigliassero nella sua rete sempre più. Fino a non poterne uscire. A restarne strozzati. Ma, se aveva carenza di liquidi, ogni strategia saltava. Appena liberatosi dal Vescovo, Onofrio, mentre continuava a compiangersi per le sue sfortune e disgrazie, per schivare un  abbordaggio in presenza del Vescovo, con il conseguente rischio di restare preso tra due fuochi, prese l'iniziativa e gli si fece incontro, alimentandone l’illusione di riscuotere i suoi maledetti Euro.

- Cerbero, sei tu?

Lo Spacciatore si seccò maggiormente del suo goffo tentativo di fingere di averlo appena intravisto. Anche perché si stava deliziosamente concentrando in una grattata di inguine.

- Non lo so. Chiedilo alla mamma! E gli Euro?

Onofrio conosceva l’arte buttanesca di prendere di sopra.

- Vattene, sanguisuga. Manco arrivi e già mi tiri una stoccata.

Per Cerbero il suo attacco era certezza di qualche mancanza. 

- Sei al verde?

- E tu sei diventato un indovino?

- Perché non li lasci perdere questi sporchi trucchi?

- Perché sei così pestifero?

- Puro talento! La colpa è di mia madre: aveva finito i pesticidi!

Era sempre così tra di loro. Nero su nero non tinge! Dopo questi assaggi preliminari, ad Onofrio sembrò opportuno togliersi i guantoni ed adottare toni più discorsivi.

- Tu piombi inaspettato come un cavolo a merenda.

- Perché? Che succede?

- Un casino del Diavolo: Fantasmi Saraceni e pastori all'assalto della Chiesa Madre!

La capacità di ascolto di Cerbero non superava il minuto. Non poteva perdersi dietro le afflizioni quotidiane dei suoi clienti.

- Me ne fotto! Perché non mi si pagano gli Euro che avanzo?

Onofrio non aveva il becco di un quattrino. A rivoltarsi le tasche non cascava neanche un centesimo. Avesse avuto almeno gli interessi glieli avrebbe subito sganciati pur di toglierselo dai piedi. Ma aveva sperperato tutto ciò che gli rimaneva nell’ultima spesa. Non gli  restava che tentare di scoraggiarlo.

- Canta pure che hai una bella voce. Più gracchi come una cornacchia spelacchiata e più ti cucini chiodi!

Ma Cerbero, che ne conosceva le capacità dilatorie, decise di fargli capire che non intendeva perdere altro tempo, perciò lo afferrò per la gola, mentre gli strappava i riccioli irsuti.

 - Perché mi tiri i capelli? Che vuoi guadagnarci?- piagnucolava il sacrista.

- Mi sembravano capelli in salsa di lepre!

- Ma fammi il favore di toglierti dai piedi! Non capisci che non è il tuo momento?

- Io andarmene?

- Prima che ti offra un the avvelenato! Poi, magari, a mezzogiorno, ritorni.

- Me ne sono già andato. Stai vedendo il mio doppio.

- Sparisci! Dileguati come un rapace notturno!

Quel sacrista era proprio impertinente. Pontificava come se avesse ragione da vendere! Ma Cerbero intuiva che aveva qualcosa da nascondere. Che voleva sbarazzarsi della sua presenza a tutti i costi e il più presto possibile.

- E perché? Perché dovrei andare avanti e indietro? Perché questo tira e molla? Non è meglio se resto qui sino a mezzogiorno? Ho cambiato idea.

Onofrio conosceva bene il suo pollo. Guai a mostrargli segni di debolezza o paura. Bisognava snidarlo e aggredirlo.

- Perché non ti cambi anche il pannolino? Vattene a casa. Per tutti gli spinaci, parlo sul serio: vagabonda verso casa tua, vampiro! Vai a vendere morte altrove!

- Non fare il moralista ora! Quando smaniavi per la mia roba, mi accoglievi a braccia aperte, come un portatore di gioia. Non ti facevi scrupolo di essere mio amico. Perché quest’improvviso voltafaccia? Non vuoi spiegarmelo? Bene! Affaracci tuoi! Io voglio solo i miei Euro e gli interessi pattuiti, io. Pagatemi. Perché menate il can per l'aia?

Onofrio si rendeva conto che era esasperato, ma, nello stesso tempo, nervoso  e preoccupato. Decise di giocare al rialzo.

- Bene, per tutti i demoni, li avrai!  ma bada...non farti riconoscere! Per ora, vattene subito. Dammi retta, se non vuoi sentire il lezzo del lucignolo! Altrimenti chiamo la Polizia!

- Ed io i Carabinieri! E mi metterò a gridare il  nome di don Adalgiso! Infame tu, infame anch’io!

- Bene, coraggio! Urla pure. Così il Maresciallo accorrerà da solo!

- Reclamo il mio. Son già molti giorni che mi pigliate per il naso. Sono molesto? Datemi la grana e me ne andrò. Con un gesto solo puoi evitare tutte le diatribe.

- Che pretendi puntualità?  Tu, vergogna del genere umano? Sei venuto qui a fare il gradasso? Se la metti così, Don Adalgiso non dà niente, non ti deve niente.

- Non deve? Vorresti negare l’evidenza? Non sono venuto qui per essere insultato.

- Davvero? E di solito dove vai? Tu, di qui, non puoi portar via nemmeno la punta di una spiga. O vuoi che lui se ne vada via dalla città, come un esule, per causa dei tuoi interessi da becchino? Accontentati di recuperare la sorte principale. Non sai che pena c’è per gli usurai come te?

Ora Cerbero era un usuraio per vocazione. Spacciava per necessità, per procurarsi di che vivere, ma il suo maggiore godimento era guadagnare sul denaro. In fondo era un banchiere mancato. Godeva nell’avanzare somme di denaro e nel farle fruttare altri soldi.

- No, non mi basta solo il capitale. Dovete pagarmi, prima di tutto, gli interessi.

- Non fare lo scocciatore. Stamattina nessuno paga nessuno. Arrangiati come credi. Credi di essere il solo che vende droga ad interesse? La nostra società è zeppa di strozzini in doppiopetto, che si mascherano da filantropi umanitari!

- Dammi gli interessi, pagami gli interessi, sborsami gli interessi. Me li pagate sull'unghia gli interessi? Mi si sganciano gli interessi?

- Interessi qui, interessi lì. Non sai dire altro che "interessi". Fuori dai piedi! Non l' ho mai visto un Cerbero più sozzo, vorace e  lurido di te.

E poiché gli sembrava di avere esagerato con gli improperi, Onofrio provò ad allentare la tensione venutasi a creare guardandosi la mano destra.

- Ho una scheggia di legno nel dito.

Ma Cerbero non si lasciava smontare tanto facilmente.

- È perché continui a grattarti la testaccia di legno che ti ritrovi! Non crederti che con queste insolenze mi fai venire il batticuore!

Sfortunatamente Monsignor Alfio Petrone non si era completamente allontanato, anzi attirato dai toni alterati dei due, si era riaccostato. Non riusciva a capire interamente la loro conversazione, ma le poche parole captate lo allarmavano. La faccenda scottava. Anche da lontano!  Puzzava terribilmente di bruciato. Chiese spiegazione ad Onofrio.

- Che razza di interessi sono quelli che vuole quest’individuo?

Onofrio si sentiva accerchiato. Mentre lo spacciatore andava, senza indugiare, verso Monsignor Alfio Petrone, provò a rassicurarlo.

- Ecco Monsignore: è arrivato dall'estero da poco. Ti pagherà lui, interessi e capitale. Tu non provarci più a mettermi nei guai..

- Se sborsa qualcosa, io non dico di no.

Monsignor Alfio Petrone era sempre più frastornato. Le parole di Onofrio gli rimbombavano martellanti nel cervello. Quasi nomadi.Vive come ombre. Solitarie. Interdette. Costernate. Immagini della stessa proiezione acustica.

- Questo qui, chi è? Che cosa reclama? Perché tira in ballo il mio Don Adalgiso e a te, che sei qui, fa una scenata? Che cosa gli è dovuto?

- Per  tutte le lattughe, la supplico: dia ordine che gli buttino in faccia gli Euro, a questo bestione.

- Dar ordine?

- Sì, di prenderlo a schiaffi. Col denaro.

Per lo spacciatore era musica per le sue orecchie.

- Schiaffi? Li prendo subito, gli schiaffi d'argento.

Monsignore non si capacitava. Un'agitazione da rompicapo soffocava la serenità della sua proverbiale ponderatezza.

- Di che somma parla?

Onofrio pensava che dovesse dire qualche verità. Una grande menzogna è più efficace se condita con frammenti di verità.

- È... la piccola somma che Don Adalgiso gli deve.

- Piccola quanto?

- Sui quattromila Euro. Non creda che sia molto… per lei!

Cerbero cominciava a tornare a sperare di riavere i suoi soldi.

- È veramente poco… neanche un fegatino di pollo!

- Ha sentito, Monsignore? Per tutte le indivie, non le sembra, di grazia, il tipo giusto per fare la sanguisuga, la peggior genia che esista? Liberiamocene! Prima che abbordi tutto il nostro ambiente sacro! Ricacciamolo nella fogna donde proviene.

- Chi sia, da dove venga, a me non interessa. Una cosa voglio che tu mi dica, una cosa mi preme di sapere. A Don Adalgiso ha fatto un prestito a interessi?

- In un certo senso… gli dica che pagherà, così lui si toglie dai piedi.

- Debbo promettergli che pagherò?

- Deve. Non sia tirchio. Un Vescovo guasto dall’avarizia è anche empio verso Dio.

- Io empio? Ma che razza di merlo ti sembro?

- Non saprei…. Quali altre razze ci sono? Glielo dica  e basta. Mi dia retta. Nessuno è più scellerato di un avaro. Via, glielo prometta, la supplico io.

Monsignor Alfio Petrone era indubbiamente attaccato al denaro. Lo riteneva uno strumento indispensabile alla realizzazione della sua attività missionaria. Si dannava l’animo per mendicarlo e raccoglierlo e non aveva affatto intenzione di sperperarlo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non scucire un quattrino.

- Ma tu dimmi: che ne avete fatto del denaro?

Onofrio tornò a dire la verità senza dirla. Servendosi della magia menzognera delle parole. Dei diversi concetti che possiamo esprimere mettendo insieme gli stessi suoni. Mezze parole. Trafficate. Balbettate. Farfugliate. Comprensibili in modi diversi e, in definitiva, incomprensibili.

-  È al sicuro, quello … scorre tutto nelle vene!

-  Quod factum, factum est. Se è al sicuro, pagate voi il debito.

L’equivoco linguistico procedeva abbastanza bene. Anche Monsignore sembrava cercare nelle sue parole il significato per lui più conveniente. Davanti al latino del suo Vescovo, Onofrio ricorse ad altre armi inventive.

- Il suo parroco ha comperato una roba…. Sfiziosa!

Monsignore rinunciava ad afferrare con chiarezza le cose. Si limitava ad incontrarle. Si esponeva alle diaboliche e farneticanti improvvisazioni del suo sacrista senza mediazioni.

- Una roba… sfiziosa … Chi? …. Come?…. sfiziosa ed utile?

Onofrio giocava bene sul doppio senso del sostantivo, ma voleva schivare di pronunziarsi esplicitamente sugli aggettivi.

- Una roba… sfiziosa … senza dubbio. Utile? Dipende dai punti di vista!

Monsignor Alfio Petrone con Onofrio si divertiva. Vederlo arzigogolare così era uno spettacolo. Rivedeva se stesso davanti al Cardinale Ruffino. Quasi quasi si compiaceva!

- Evviva! Vescovizza il mio Don Adalgiso! Fa già l'uomo d'affari. Ma dimmi: una roba…?

- Una roba, ripeto. Ma lei lo capisce che razza di  roba?

Monsignore stava sempre all'erta con Onofrio. Conosceva la sua furbizia e le sue malizie. La sua capacità di approfittare di ogni sua assenza.

- Come potrei saperlo? Torno da un lungo viaggio e, francamente, trovo tutto cambiato … come surreale.

- Non mi chieda niente. È preferibile che lei ignori certi dettagli. Lasci che sia a sbrigare le faccende più materiali e sporche.

Era verissimo. Quando aveva da sbrogliare qualche matassa intricata don Alfio si era affidato ad Onofrio. Ma senza mai offrirgli corda lunga! Guai a dargli carta bianca!

- Perché mai? Guardami negli occhi quando ti parlo!

Onofrio era concentratissimo a ricercare una risposta bugiarda, da giustificare come sincera se la verità fosse venuta a galla tutta quanta.

- Preferisco di no. Ho già i miei problemi! È uno spleen …lo splendore fatto roba!

Monsignor Alfio Petrone non aveva gran che le idee chiare, ma prevaleva il lui l’esigenza di quantificare. Spesso aveva trascurato di investigare a fondo chi fosse, per sapere con certezza cosa controllasse.

- Per tutte le parrocchie, bel colpo. Quanto ci ha investito?

- Due MilEuro, quanti siamo lei e io. Ma di caparra ha già dato quattromila Euro. Le abbiamo prese da costui e date a quello. Ne sa abbastanza? Poiché questa roba - e indicava la sacrestia - era nello stato che le ho detto, lui subito ne ha comprato un'altra - e indicava una casa adiacente .

A Monsignore adesso i conti sembravano tornare. Le spese. Gli interessi. La roba. La casa. Tutti i tasselli si ricomponevano in un quadro verisimile.

- Bene ha fatto … mi pare roba buona!

A Onofrio la meta prefissasi sembrava vicina.

- La prego, lo paghi! che non ci faccia crepare col vomito delle sue ingiurie! Gli spettano quattromilaquattrocento Euro, tra capitale e interessi.

Cerbero stava perdendo la pazienza. Mezzogiorno stava arrivando e non aveva recuperato manco un Euro per farci un panino!

- È proprio così. Non chiedo un Euro di più.

A Onofrio i suoi inserimenti non andavano proprio. Anche lui, a suo modo, una sua morale ce l'aveva. Non gli andava proprio chi viveva e si ingrassava sui bisogni e sulle debolezze altrui.

- Vorrei vedere che chiedesse un centesimo di più, questa faccia di culo!

Monsignor Alfio Petrone sembrava ormai persuaso di pagare, ma voleva toccare con mano.

- Giovanotto, venga a trattare con me.

Lo spacciatore era disorientato. Anche il Vescovo? Alla sua veneranda età? Nella sua posizione? Ma, ormai, non c'era da stupirsi di niente e di nessuno. Anche se con un scetticismo, accennava ad aprire un sacchetto di cuoio.

- E ché riscuoto da lei? Vuol anche lei … un po’ di roba?

Monsignor Alfio Petrone  non immaginava neanche lontanamente il  contenuto del sacchetto, ma il solo pensiero di qualsiasi altro acquisto lo infastidiva, perciò fu lesto a bloccarlo.

- No! Assolutamente! La roba che hai venduto a don Adalgiso basta ed avanza per tutti! Riscuoterai domani. Semel in anno licet insanire.

Cerbero non capiva una acca del latino dei preti. Aveva sempre pensato che lo usassero per imbrogliare la gente semplice, ma il resto del messaggio era chiarissimo, perciò si allontanò visibilmente deluso. Dubbioso persino sull’eventualità di riscuotere l’indomani. Tra le maledizioni di Onofrio che invocava su di lui un fulmine di San Giovanni Battista che lo seccasse istantaneamente. Per tutti i cavoli fioriti! Non c'è niente di peggio della maledetta razza strozzinesca! I suoi piani, per un pelo glieli rovinava quel Cerbero con la sua voracità di denaro! Anche Monsignor Alfio Petrone tirava un sospiro di sollievo.  Avere dilazionato il pagamento gli consentiva un supplemento d’indagine.

- Dove sta precisamente la roba che il mio parroco ha comperato?

A questa domanda puntuale Onofrio si sentì proprio spacciato! Cogliendo la sua esitazione, il Vescovo lo incalzava.

- Rispondi o no a quel che ti chiedo?

- Rispondo … rispondo …Io punto sempre alla verità. Mi sto sfirniciando  che nome abbia mai ...

- Non sei un gran tiratore, vero? Avanti, sforzati, su.

Onofrio non sapeva che combinare. E se la buttava sul vicino? Se avesse detto ... che Don Adalgiso aveva comprato questa roba per lui? Una menzogna servita bella calda  è sempre la migliore soluzione, per cavarsi d'impiccio. Quel che suggeriscono i Santi, bisogna dirlo.

Monsignore non gli dava tregua.

- E allora? Hai trovato?

- Accidenti! Il suo parroco ha comprato la roba di  un vicino…

- Secondo buona fede?

Ancora la magia delle parole! Piene di prodigi e di sortilegi. Di miracoli e di visioni. Onofrio non aveva altre risorse. Avesse potuto studiare, di sicuro sarebbe diventato un principe del Foro!

- Buona fede sì, se lei la vorrà pagare. Se non vuol pagare, invece … l' ha comprata in mala fede!

Monsignore   cominciò a guardare accuratamente l'edificio. Per amministrare una Diocesi non basta una profonda  spiritualità. Un buon Vescovo deve anche saper spendere ed investire saggiamente.

- La roba che ha comprato non mi pare pregiata.

- Pregiatissima, invece. Eccellenza, spesso, la prima impressione inganna.

- Ho proprio voglia di vederla dall'interno, questa roba. Tu bussa alla porta e chiama qualcuno, Onofrio.

Al sacrista non veniva in mente cosa dire. Quasi che la forza travolgente dell'Oblio ritornasse. A riportarlo dalle onde contro gli scogli! Indugiava in attesa di un'ispirazione.

- E allora? Svelto, fa' venir fuori qualcuno. Digli che ce la faccia visitare.

Onofrio cercò di prenderla alla larga.

- Ma lei sa… qui ci sono delle donne; occorre prudenza; bisogna prima vedere se sono disposte o no.

Ma il Vescovo aveva una testa di bronzo! se si metteva in testa qualcosa non era facile dissuaderlo.

- Dici una cosa giusta. Bussa e chiedi. Io aspetterò qui fuori che tu esca.

Onofrio era sconfortato. Implorò i Santi che lo radessero al suolo! In questo modo Monsignore stava sabotando i suoi piani irrimediabilmente. A complicare la situazione usciva affannato dalla casa Biagio, il padrone. Il sacrista si mise in disparte e intanto convocò nella sua testa il Senato delle sue pensate! Poi, quando avrebbe trovato  cosa fare, gli sarebbe andato incontro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo X

 

L’altalena

 

 

Quella sera Biagio era visibilmente soddisfatto. Mai gli era capitato, in casa sua, un anno migliore. Niente baruffe, pochi litigi e molta serenità.  Né mai una mangiata gli era piaciuta di più. Sua moglie gli aveva servito un pranzo delizioso. Si era impegnata un intero pomeriggio in cucina e gli aveva preparato un risotto all’aragosta e, per secondo, spannocchie, gamberi e cicale con maionese, così condite di pepe e peperoncino calabrese da leccarsi i baffi! Ma, subito dopo,  lo voleva infilare sotto le coperte. Anche confidando sull’effetto afrodisiaco dei crostacei. Non ci pensava neppure! L'aveva capito subito, lui, perché gli serviva un pranzo migliore del solito. Voleva portarlo a letto, la birbacciona! Convincerlo che il sonno, dopopranzo, gli facesse bene. Adescarlo con la scusa di schiacciare un pisolino. Via, via! Era scappato di casa di nascosto. Sapeva bene, adesso, che sua moglie, in casa, scoppiava dalla rabbia e dalla voglia! Più andava rimuginando fra di sé, più si persuadeva che lui, che aveva una moglie vecchia e con la grana, mica ci aveva voglia di coricarsi, anzi aveva in odio l'idea di andare a letto. Così , adesso, sapeva bene quel che doveva fare per trascorre una serata distensiva. Meglio dirigersi al Circolo Operai a giocare a Briscola che infilarsi nel suo letto. Preferiva litigare e disperarsi con quello scriteriato di Totò, cui facevi la legge ferma  a denari e ti veniva a bastoni, che un ennesimo sforzo erettivo e un finto orgasmo.  Per tutti gli scorpioni, lui non sapeva mica come i suoi amici trattassero le loro mogli, ma intuiva bene una cosa: la sua lo spremeva come un limone e lo soffocava. In futuro rischiava un'asfissia! Vedendolo in fuga, come quasi ogni sera, Onofrio benediceva la propria saggezza che lo aveva fatto resistere agli assalti di Crocifissa e, intanto, studiava il modo di utilizzarlo nei i suoi raggiri e di allontanare da sé il duolo col dolo. Gli sembrò il momento opportuno per  abbordarlo.

- Biagio! Che i Santi ti coprano di doni!

Biagio era di un carattere solitario e prudente. Nel quartiere non dava fastidio a nessuno, né amava farsi infastidire. Tirava dritto per la sua strada, limitandosi alla comunicazione strettamente indispensabile. Gli rispose glaciale.

- Onofrio, ti saluto.

- Come stai?

- Non male. E tu, che fai?

Onofrio era ineguagliabile nell’arte di dare importanza al prossimo.

- Sto stringendo la mano a un uomo eccellente.

- Mi lodi come fa un amico.

- Mi pare giusto. In fondo tu sei una delle persone con cui mi vedo più frequentemente e, finora, non abbiamo mai avuto niente da dire.

Biagio era sorpreso dai suoi modi eccessivamente cordiali. Conosceva bene la birbanteria del sacrista e ricordava perfettamente la dolce vita che aveva organizzato negli ultimi mesi.

- Per tutte le lucertole, io stringo la mano a un sacrestano disonorato!

Monsignore, nel frattempo, si sentiva trascurato. 

- Tu, mascalzone, ritorna qui.

Mente Onofrio, con un cenno  lo rassicurava che sarebbe tornato subito  vicino  a lui, sulla piazza transitavano tre Fantasime, avvolte in un lenzuolo bianco, che sprigionavano una luce psichedelica dall'interno. Biagio le scrutava incuriosito.

- E ora? Quanto durerà?

Onofrio si mostrava letteralmente magnetizzato.

- Che cosa?

- La cosa che suole avvenire là dentro...

- Ma cosa?

- Lo sai di cosa parlo. Bisogna fare proprio così, al modo tuo .... Pensa quanto sia breve la vita.

- Ah sì? Ah, ci sono arrivato. Tu parli dei nostri fantasmi!

Biagio lo osservava con compiacimento, senza nascondere un pizzico d’invidia.

- Per tutti i cobra! voi sì che vivete come gioventù comanda! Vino, pietanze, pesce fino … roba di prima scelta! Ve la passate bene!

Onofrio si lasciò andare ad un attimo di smarrimento e di sincero rimpianto.

- Non più. Prima la vita era vita. Adesso, per noi, la pacchia è finita.

- Perché?

La pietà gli sembrava la risorsa più appropriata. Nessun uomo sa resistere al piacere di compiangere il prossimo.

- O Biagio, noi siamo già morti, tutti quanti!

Ma Biagio aveva visto con i propri occhi ed udito con le proprie orecchie!

- Perché mai? Sinora tutto vi è andato a gonfie vele.

- Ma sì, non lo nego, è andata come dici tu; e noi certamente siamo vissuti alla grande, come ci piaceva. Ma ora, Biagio, il vento che spingeva la nave è caduto … e i Fantasmi Saraceni sono riemersi dai cunicoli!

- E perché? E percome?

- Nel percome peggiore. Ogni notte dilatano le loro pupille di fuoco e di ghiaccio. Sputano la loro saliva blu sui bambini e li trasformano in hot dog,  in fagiani.

Biagio era fortemente turbato. Aveva sempre sentito parlare dei fantasmi, ma non si era mai imbattuto in qualcuno di loro. Qualche tempo prima avevano preso di mira la casa di alcuni vicini e, ogni notte, li massacravano di botte. Li si vedeva scappare per strada,  svestiti e con i capelli rizzati, in cerca di aiuto. Infine avevano cambiato casa e si erano trasferiti in un altro quartiere. Anche la Chiesa si era data da fare per riportare calma e serenità.

- Ma la benedizione del Cardinale Ruffino alla Chiesa Madre non aveva ricacciato i fantasmi nell'oblio dei sotterranei?

Accorgendosi del suo coinvolgimento, Onofrio assumeva un tono più confidenziale.

- Ahimè! I maschi … ma con le femmine non ce la fa neanche la benedizione papale! A notte … quando fa buio, riaffiorano dai pozzi della memoria e si incamminano sui loro piedi senza vita, a forma quadrata!

Biagio  era sempre più visibilmente scosso. Il suo pragmatismo e la sua concretezza lo spingevano a chiudere ogni discorso, ma era anche di natura curiosa e tendeva ad andare al fondo delle questioni.

- Perché? In che modo?

Onofrio sentiva mancarsi le risposte pronte e immediate. La sua storia era come appesa ad un esile filo. Si sosteneva come un sasso in equilibrio precario. Come una foglia nel vento settembrino. Come un chiodo in un pannello di gesso. Come una goccia d’inchiostro sulla punta della penna.  Se non avesse attivato tutta la sua immaginazione creativa, era finito! Era necessario incollarla con un mastice a presa rapida e sicura. Altrimenti chi avrebbe sfamato la sua vecchiaia? Questo terribile cruccio riattivava la sua forza immaginativa.

Si vendicano tentando i preti della Matrice! Li spingono alle orge…alle canne… alle sniffate … ai buchi! 

Biagio stentava a seguirlo e a capirlo. Anche perché Onofrio non si riferiva a fatti e cose che gli erano consueti.

- In quali canneti? … In quali buchi pertugi è il loro quartiere generale?

La parola del sacrista ormai si librava in altezza e in sovranità. Portata alla luce. Alle meraviglie di difficili eclissi di senso. Lingua quasi ingoiata. Gola ed occhi bruciati nell’immaginario.

- La Fantasima Saracina sta facendo uscire di sentimento Don Adalgiso e Chimera ha fatto sbiellare Don Malachia, attorcigliandoci al braccio un serpentello verde splendente!.

Biagio ormai si era dimenticato della Briscola serale. Totò avrebbe fatto infuriare qualcun altro con le sue giocate stravaganti e sballate. La storia di Onofrio, anche se spezzettata, lo incantava e, nello stesso tempo, lo faceva smarrire.

- Io non conosco questi buchi sniffati, né i serpentelli tentatori. Ma, adesso, che cosa succede? Che cosa ti angoscia?

Onofrio assunse un’espressione preoccupata. Era chiaro che bisognava offrirgli qualche riferimento concreto. Anche l'invenzione più inverosimile ha bisogno di qualche elemento di veridicità per risultare credibile! 

- Dall'estero è ritornato Monsignor Petrone.

Biagio si rendeva conto di quali nefaste conseguenze potessero esserci per il sacrista.

- Accidenti! Il Vescovo è un fiutafantasmi! E allora si annuncia ... l'ergastolo! … e poi la croce!

Dopo averne carpito la benevolenza, Onofrio cercava di conquistarne la complicità.

- Per le ginocchia tue,  ti prego, non far parola di canne e sniffate con il mio Vescovo!

Sul silenzio di Biagio si poteva fare affidamento. A furia di convivere con le chiacchiere assordanti di sua moglie era praticamente diventato quasi muto!

- Stai tranquillo. Da me non saprà nulla…  anche perché ci ho capito quasi nulla!

Ma dimmi, il vostro Vescovo ha già fiutato qualcosina?

- Nulla di nulla!

- Don Adalgiso, lo ha forse strapazzato?

Onofrio azzardava la carta più rischiosa.

- C'è il sereno. Nemmeno una nuvola in cielo! Ora mi ha comandato di chiederti se gli consenti di dare un'occhiata alla tua casa. Probabilmente ha riportato un bel gruzzolo dalla Palestina e vuole fare qualche investimento.

- Ma non è in vendita.

Quest’affermazione perentoria non costituiva un ostacolo insormontabile per la fantasia di  Onofrio.

- Lo so bene. Ma il Vescovo, nella sacrestia sua, vuol fare costruire un club, con bagni, ambulacro e portico.

Biagio era attratto dal progetto, anche se suscitava in lui qualche perplessità.

- Che cosa si è sognato?

- Ha molta fretta di modernizzare i suoi locali. Ha sentito di un certo architetto che lodava la tua casa, edificata a regola d'arte, perciò vuole prenderla a modello, se la cosa non ti spiace. Ha sentito che da te, anche nei giorni più caldi dell'estate, per tutta la giornata c'è una bellissima ombra ristoratrice.

Biagio non amava molto gli interni della sua casa: li collegava repentinamente alle trappole sessuali che gli tendeva quotidianamente sua moglie.

- Macché! Ma quando mai! Quando c'è ombra da ogni parte, qui il sole picchia da mattina a sera. Sta sempre lì, davanti alla porta, come un creditore che sollecita. Non c'è ombra di un'ombra, qui, se non in fondo al pozzo.

- Cosa? Non hai ombra? Ce l' hai almeno un'umbra? Una di Monte Adranone?

Biagio rivedeva il di lei corpo fremente. Ritmi scattanti. Parole picchiate. La sua pancia e suoi nervi. Tesi come la pelle di un tamburo. A scuoterlo e a rimuoverlo dai suoi velleitari tentativi di rilassamento.

- Non scocciare! La mia casa è fresca come un forno crematoio!

- Ma lui vuol guardare lo stesso.

Biagio era troppo choccato per trovare la forza di resistere. Anche se manteneva un controllo esteriore, l'evocazione degli spettri gli aveva fatto perdere il suo tradizionale equilibrio. La spalla destra gli si alzava aritmicamente, da sola.

- E guardi, se ne ha voglia. Se ci sarà qualcosa che gli garba, se la faccia costruire sul mio esempio.

- Allora vado a chiamarlo?

Adesso anche il suo collo cominciava a fare i capricci e si rizzava, teso a destra, per scattare improvvisamente a sinistra.

- Fai come ti pare! Tanto lo sappiamo che comandi tu in questo quartiere! Va' e chiamalo.

Mentre si avviava verso Monsignor Alfio Petrone, il sacrista si compiaceva di se stesso. Rommel e Che Guevara? Dicono che compirono grandi imprese, quei due. E lui, che era il terzo, e che da solo compiva gesta immortali?  Biagio portava già la sella  e anche l'altro vecchio ci aveva la sua bardatura bella e confezionata! Mica male questo nuovo mestiere che aveva intrapreso. I mulattieri mettono il sellino ai muli, lui agli uomini. Sono esseri da carichi pesanti! portano tutto quello che gli metti addosso. Era ancora esitante sull’opportunità di tornare  a parlare con  Monsignore, ma il Vescovo  si avvicinava e non gli lasciava tempo per riflettere. Lo chiamò a gran voce nella convinzione che la fortuna aiuta gli audaci. Monsignore gli rispose stonato, inginocchiato davanti al sagrato ed immerso nelle sue preghiere.

- Chi è che mi chiama?

Onofrio tornava strisciante e rassicurante.

- Un sacrista che al Vescovo suo è fedele in tutte le maniere, in tutte le ore ed in tutti gli istanti!

- Da dove esci?

Dopo il colloquio con Biagio, Onofrio si sentiva più tranquillo nel portare avanti il suo piano.

- Mi aveva dato un incarico? E io le porto il risultato.

Riaffiorava la proverbiale diffidenza di don Alfio. Nonostante la sua superiore cultura ed intelligenza, temeva la furbizia di Onofrio.

- Perché ti sei trattenuto là così a lungo?

- Era occupato, il vecchio. Ho dovuto aspettare.

Sempre la risposta pronta e la scusa adatta ad ogni circostanza.

- Ce l'hai sempre quel viziaccio di far  tardi.

- Soffiare e sorbire insieme non è facile! Non potevo essere là e qua nel medesimo tempo.

- E ora?

- Vada, guardi, osservi … la roba… sin che le pare.

- Avanti, fammi da guida. Non vorrei inciampare in qualche Fantasima.

Mentre si dirigevano verso la casa si udiva un crescente sferragliare; il Vescovo esitava ed il sacrista fingeva di rincuorarlo.

- Si faccia coraggio che io …tremo!

- Ti seguo… ad occhi aperti!

Onofrio era cosciente del fatto che il Vescovo non si rilassava mai completamente.

- Eccolo là il vecchio che la aspetta dinanzi alla porta. Ma come è triste per aver venduto la roba!

Monsignore si inteneriva raramente.

- Vuole pure la consolazione? Non gli basta il portafogli pieno?

Onofrio cercava di preservarsi una via di scampo.

- Mi prega perché convinca Don Adalgiso a rivendergliela. Si è già pentito della sua decisione.

Il senso degli affari di Monsignor Petrone riemergeva. Niente poteva rafforzare meglio la sua convinzione di comprare che un pentimento del venditore.

- Niente da fare! Ciascuno miete per se stesso. Se l'avessimo comprata rimettendoci, mica potremmo dargliela indietro. Quando c'è un guadagno, è bene portarselo a casa. A preti e a vescovi ... non si addice la beneficenza!

Il sacrista di ciò era perfettamente consapevole. Una vita di stare al loro servizio aveva rafforzato la sua convinzione che a Vescovi, monaci e parroci, è giusto vedergli la messa e spezzargli le reni! Fece strada al Vescovo, raccomandandogli di andare piano e di non perdersi in chiacchiere. Monsignore lo seguiva con circospezione anche perché si udivano risate e gridolini, che non lo lasciavano del tutto sereno.

- Sono sulle tue orme! Non lasciarmi solo con le mie paure!

Onofrio ormai si rivolgeva a Biagio, annunciandogli la presenza del Vescovo

- Ecco, ti ho portato il pezzo da novanta che sai.

Come si conveniva ad un buon vicino, il padrone della casa non lesinava convenevoli e cortesie.

- Sono felice, Monsignor Alfio Petrone, che lei sia ritornato dal Medio Oriente sano e salvo.

Monsignore era repentinamente attratto dal fascino della gentilezza.

- Che i Santi del Paradiso ti concedano tutto quello che desidera il tuo cuore!

Il coinvolgimento dei Santi  era il suo repertorio preferito. Li chiamava sulla terra ad ogni occasione ed avevano sempre il loro effetto rassicurante e distensivo sulla gente.

- Onofrio mi diceva che lei vuole visitare questa casa.

- Se non disturbo troppo.

- Nessun disturbo. Entri pure e guardi.

- Le donne, però...

- Non ci faccia caso, alle donne. Giri per la casa come crede … come se fosse sua.

A Monsignore quell’ultimo come non sembrava molto pertinente.

- "Come se"?

Tempestivo e puntuale, il sacrista si intromise ad evitare eccessivi chiarimenti.

- Attento a non ricordargli, nella tristezza in cui si ritrova, che ha perduto la sua casa. Non glielo legge in faccia come è depresso, il vecchio?

- Mi pare di sì. - dovette convenire il prelato.

- E dunque Sua Eminenza non mostri di compiacersi troppo. Non faccia cenno che ha comprato.

- Capisco. Non inquietare il cane che dorme. Sì, credo proprio che tu mi dia un consiglio prudente e saggio. E penso che tu sia pure di buoni sentimenti.

- Entri, su, e guardi con calma … come le piace.

Monsignore ritornava ombroso.

- Penso proprio che tu sia troppo gentile.

- Voglio essere tale, per tutte le code di serpenti! Desidera che qualcuno la introduca?

Il Vescovo era ancora esitante e sospettoso. Lottava quotidianamente con il timore di qualche manipolazione.

- Proprio no, non mi piace che qualcuno mi introduca. Comunque vada … meglio perdermi che farmi infilare da qualcuno!

Onofrio ignorò la diffidenza che emergeva dalle ultime battute e proseguì, con naturalezza ed indifferenza, a guidarlo nella visita.

- Vede come sono l'ingresso e il corridoio?

- Per tutte le processioni, proprio splendidi!

Il diabolico sacrista ora si immergeva in osservazioni dettagliate, nell'intento di distrarlo dalle sue riflessioni.

- Guardi, guardi gli stipiti. Come sono, eh? Solidi e spessi.

- Stipiti così belli, credo di non averne mai visti.

Solleticato nel suo orgoglio, anche Biagio dava il suo accondiscendente contributo.

- Quando li comprai, accidenti, li pagai salati.

Onofrio trasse in disparte Monsignor Alfio Petrone e gli sussurrò in un orecchio.

- Ha sentito che dice "comprai"? Trattiene le lacrime a stento, mi pare.

Ma il Vescovo voleva sapere da Biagio quanto li avesse pagati e glielo chiese senza preamboli.

- Ho sborsato trecento Euro, più il trasporto, per questi due.

Il prezzo gli sembrò esagerato.

- Per tutti gli altari, sono più scarsi di quel che mi pareva a prima vista!

- E perché mai? A me sembrano in ottimo stato.

Monsignore inforcò gli occhialini e li scrutò con aria professionale.

- Perché le tarme li hanno corrosi tutti e due, dalla base in su.

Onofrio cercava anche una spiegazione plausibile.

- Credo che il legno sia stato tagliato fuori stagione. E questo gli nuoce. Però sono ancora abbastanza buoni, basta ripassarli con la pece. Mica li ha fatti un barbaro di artigiano leghista. Nelle porte, ha notato le connessure?

- Ho visto, sì.

- Guardi come si amano.

Monsignor conosceva tante forme d’amore. Ma quello tra porte gli sfuggiva!

- Si amano?

- Ma sì, volevo dire che com... baciano. Va bene così?

Il sacrista tornava al suo gioco preferito con le parole. Parole cosificate. Simili a sassolini. Monsignore, invece, era così compenetrato nell’esame della casa che quasi non si curava  di ciò che gli diceva.

- Ogni cosa, più la guardo più mi piace.

Onofrio insisteva nel suo gioco. Cercando l’accesso alle stesse cose. La chiave per leggere l’inesprimibile.

- La vede la pittura? C'è una farfalla che si fa beffe di due gazze.

Il temperamento sornione e concreto del Vescovo resisteva a quest’ennesimo tentativo di fuorviarlo.

- Non vedo niente. Ho dimenticato a casa i miei occhiali.

Onofrio entrava nel dipinto. A cercarne la voce interiore. Il grano. Il velo. La risonanza. Il tono. La cartilagine che vibrasse.

- Io sì che la vedo; tra le due gazze  c'è un falcone, che le becca una alla volta. Lei, adesso, guardi verso di me, per favore, per poter vedere il falcone. Ci riesce?

- No, non vedo nessun falcone. - ribadiva, mentre si sentivano strani stridori -  Ma sento i suoi artigli graffiare!

- Non si faccia ingrossare il sangue! Guardi lì, dalla sua parte. Se non riesce a vedere il falcone, forse potrà vedere la farfalla.

Al Vescovo stava scappando la pazienza con quegli ostinati tentativi di fargli scambiare lucciole per lanterne!

- Niente di niente. Per farla finita … qui non ci vedo alcun volatile!

Onofrio si lasciava andare a toni più comprensivi.

- Suvvia, lasci perdere. Capisco bene, io. Con l'età, non tutti riescono a veder bene gli uccelli!

- Le cose che riesco a vedere, comunque, mi piacciono tutte quante, e molto!

Il padrone di casa era giustamente inorgoglito.

- Val la pena, a questo punto, che lei si infili più avanti.

- Mi dai un buon consiglio, per tutte le Vergini celesti!

A questo punto Biagio si ricordò di Totò e del tavolo di Briscola che lo aspettava, perciò si rammaricò di non poter essere lui ad introdurlo negli altri ambienti e, scusandosi per un affare che lo attendeva nel Corso, lo affidò ad uno servitore, per guidarlo per tutta la casa e per le altre stanze.

Monsignore non gradì questo diplomatico disimpegno.

- Alla larga da un compagno così. Non mi va che qualcuno mi faccia penetrare. Comunque sia, meglio perdermi che essere incastrato.

- Ma io intendevo … introdurre nella casa! - si scusò Biagio.

- Allora entro senza alcuna guida.

- Entri pure. 

- Allora vado.

Onofrio gli voleva spianare la strada.

- Un momento! Lasci che guardi. C'è una cagna fantasma ferita… e foriera di morte!

Monsignore scalpitava impaziente.

- E tu sbrigati a cacciarla via. Can che abbaia… rompe!

- Pssst! Pssst! Cagna del Diavolo! Va' sulla forca, vattene in malora! Sei ancora lì? Pssst! Via di lì. Biagio dava le ultime rassicurazioni prima di svignarsela.

- Non c'è pericolo. Avanti. È tranquilla come tutte le cagne gravide. Meglio avere un cane amico che un amico cane.  Potete entrare senza paura. Io invece me ne vado in Corso Umberto.

Ringraziato Biagio per averlo trattato con garbo, Monsignore lo benedisse e gli augurò una buona camminata, quindi invitò il so sacrista a sbrigarsi.

- Fa' che qualcuno la tiri via dalla porta, questa cagna. Anche se non fa paura… la prudenza non è mai troppa!

Onofrio ormai cercava di rasserenarlo, mentre si immettevano all’interno della lussuosa dimora.

- Ma la guardi, la guardi, come sta a cuccia tutta buona. Lei, se non vuol fare la figura del rompiballe e del fifone…

- Purché qualche fantasma burlone non si trasferisca da questa parte.

- Stia  sicuro. Le copro le spalle come una guardia del corpo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XI

 

Un temporale e un gufo.

 

 

 

 

La giornata si era subito guastata. Alcune nubi pazzerellone e grigiastre si erano affacciate minacciose sopra Serralunga e, sospinte dal vento, avevano invaso il cielo. Immediatamente era cominciato un gioco di lampi e di tuoni e un violento acquazzone si era riversato sulla campagna arsa ed assetata. Sull’acacia, che protendeva la sua fresca chioma sull’accotonato assolato, un gufo dilatava la sue pupille stupefatto dei bianchi bagliori nell’aria offuscata. Era il classico temporale settembrino, a conferma che le stagioni intermedie non erano del tutto scomparse. In verità, da qualche decennio, nella fascia costiera siciliana tra Mazara del  Vallo e Licata c’era una tale carenza di precipitazioni da lasciare paventare il rischio di desertificazione. La pioggia arrivava, perciò, desiderata da piante, animali ed uomini, ma era, comunque, segno della fine della stagione delle vacanze e recava anche una sensazione di tristezza e di malinconia. Fantasima e Chimera furono sorprese dai primi goccioloni a conversare dei loro guai più recenti nell’ampio cortile interno e si rifugiarono correndo nel bellissimo giardino d’inverno annesso alla sacrestia, donde potevano godersi lo spettacolo della pioggia scrosciante, senza rischiare di inzupparsi. L’arrivo di Monsignor Petrone rischiava di sconvolgere la felicità che si erano creata. Anche se perdutamente innamorata e sognatrice, Fantasima era più disincantata e cruda della giovane amica. Sin da piccola aveva amato guardare in faccia la verità, senza nascondersi dietro un dito. Aprirsi all’antipensiero.

- I preti, anche quando non hanno colpe, temono ugualmente il castigo dei Vescovi. Sono i più conigli ed i più utili idioti. Se vengono scoperti, rinnegano l'amore e tagliano la corda. Regalano guai, non piacere. Per conto mio ... comincio a dare ragione a Sonia. Bisogna proprio che la mia pelle rimanga com'era e come è, bella liscia, e mi prepari ad altre esilaranti avventure.

Le goccioline che rigavano la vetrata scendevano veloci, quasi a rincorrersi, e suggerivano a Chimera strane analogie.

- Se sto attenta, avrò un buon riparo ed eviterò che  piova su di me tutto quel male che piove sugli altri.

 Fantasima attraversava un momento di profonda depressione. La fiducia nell’amore di Adalgiso si era incrinata.

- Ogni Vescovo è tale, quale i preti lo vogliono. Sono buoni loro? Lui è buono. Se loro sono cattivi è cattivo anche lui. Il fatto è che nella nostra Chiesa preti ce ne sono di pessimi, e tanti, prodighi del loro gruzzoletto, tappeti da frustate. Quando li chiamano perché vadano dal Vescovo scodinzolano tutti come cagnolini.

Anche Chimera era profondamente delusa. Riflettere senza imbriglianti balaustre sentimentali la induceva ad approssimarsi a tutte quelle negatività che rifiutavano di articolarsi nella sintassi della ragione.

- Gli ho dato tutta me stessa io ed ecco quel che ne ho ricavato. È pronto a sottomettersi alla volontà del suo Vescovo. Domani, quando Monsignore verrà a sapere tutto, gli spezzerà le ossa. Infine, della sua schiena m'importa assai meno che della mia. Per salvarsi dall’indifferenza e dall’opportunismo degli altri occorre un pizzico di sano egoismo. Ce ne vuole prima che io finisca a tessere la saggina o a vendere sesso su un'autostrada.

 - Rallenta. Come carichi il ritratto! Vuoi calmarti?

L’irritazione per la sua situazione complessiva  finiva per scaricarsi sull’amica e ogni passaggio verso l’altro sottintende un movimento verso una realtà sconosciuta.

- Non scocciare. Discutere con te è come cercare di spegnere  a soffi una lampadina elettrica. Non sai mai quello che veramente vuoi. Cambi obiettivo e prospettiva ad ogni mutamento d’umore.

Ma Fantasima non era disposta a trasformarsi in un parafulmine. Specie con tutti i lampi che squarciavano il cielo pumbleo.

- Ma guardala, questa scimmia, che fa la sdegnosa! Ti dai tante arie che potrebbero usarti come mongolfiera! ricordati che ogni evento, ogni passione esaltante e vitale è solo l’esito esilarante e squilibrante di un incontro preciso e conturbante. Ti fermi subito o no, evanescente Chimera?

Il tono con cui calcava il suo nome, a ribadirne la condizione di fragilità esistenziale, la faceva montare su tutte le furie. Era chiaro che la sua amica dimenticava che ogni eversione di regole, ogni allontanamento dalla condizione assegnataci dal nostro destino implicava molto cuore e grande forza d’animo, ma comportava necessariamente enormi sofferenze. 

- Chimera, a me? Anche tu sei una Fantasima! Riesci ad apparire soltanto mediante la tua precarietà. Credi ci sia molta differenza? Spariremo entrambe alle prime luci dell'alba. Siamo solo un evento mobile. Non abbiamo una struttura stabile.

Non era ancora pronta ad issare una bandiera bianca.  A rinunciare a vagheggiare, inventare, costruire la propria vita. A sentirsi sbattere in faccia la propria precarietà, le veniva istintivo reagire duramente. Offenderla. Colpirla nella sua identità.

- Di te, con la promessa di una carezza , chiunque può fare quel che gli pare. Anche se ti senti incorporea ed inafferrabile.

Chimera era come una molla riflettente. Dolce e remissiva in apparenza, scattava e reagiva se veniva punta nel vivo.

- Sono svolazzante ed ingenua perché mi piace. Che te ne frega? Ma tu ti illudi di essere avveduta e birbante?! Quando distribuivano cervelli, tu non eri neppure nella fila!

Era come se il tempo si tendesse fino a rischiare di spezzarsi. Comprimendo e frastagliando la loro inossidabile amicizia. Una massa di presente senza passato. Le parole sono capaci di scavare solchi profondi. Di spalancare istanti senza precedenti. Crepe di nulla.   

- Straparli e fai la faccia feroce perché ti illudi che Don Malachia ti voglia ancora bene. Ma sei solo una piccola Saracina velenosa. Se una zanzara ti mordesse, sarebbe lei a rimetterci il sangue!

La piccola non reggeva a lungo la contrapposizione con la sua amica più matura. La loro amicizia era stata un rapporto senza dipendenza, fondato sul riconoscimento di una certa diversità. Aveva sempre confidato sul suo sostegno leale a costante. Avvertendo la sua inaspettata ostilità era come se il presente le sfuggisse. Cessava di essere brutale percezione della verità. Un’inerte traiettoria uguale a se stesso. Urlando di nulla la pressava lasciandola senza modello né referenza.

- Ho trangugiato troppi acidi stasera. Ahi! Mi fanno male gli occhi. Non sopportano a lungo il chiarore.

Fantasima si rifiutava di seguirla nel suo delirio autolesionista.

- Se qualche insetto  te li divora, sicuramente soffre d'indigestione.

Chimera ormai era proprio andata. Una frana di cancelli e lucchetti le rimbombava in testa. Si sentiva svuotata. Senza provenienza.

- Il fumo mi disturba. Non voglio più vivere tra le ipocrisie umane. Quando un gioco si fa serio, i vincitori sono i perdenti.

Queste improvvise fughe nel moralismo e nell’idealismo le risultavano insopportabili. I pensieri le si inumidivano. Nella prospettiva di vita senza Adalgiso si disegnavano spazi angosciosi. Notti opalescenti e pozzi cupi. Soprassalti gamma. Buchi neri. Profumi funebri.

-Taci, per favore, tu che batti moneta falsa come un fabbro. Non vedi che  hai la testa fusa d'amore  e di passione?

Due donne sovrastate dai loro problemi finiscono per litigare furiosamente per esorcizzare le loro reali delusioni, giocando con le schermaglie sino al dramma o mascherando i loro sentimenti spezzati e le loro carcasse vuote alla farsa di narcisismi autoconsolatori. 

- Finché non sei arrivata tu, non avevo mai visto una zucca con le gambe. Per fortuna Don Malachia mi conosce bene e non considera i tuoi giudizi.

Drammi da nulla. Fantasima sorrideva dell’ingenua fiducia della sua amica. Anche lei aveva fatto orecchie da mercante agli avvertimenti di Sonia.

- Per tutte le margherite gialle, bisogna pure che lo conosca meglio il tuo bel materasso! Hai un cervello così terra terra,  che, quando hai mal di testa, ti metti l'aspirina nelle calze.

 Chimera non aveva più forza. Il suo stesso spirito era limitante. Un cancro le serrava il cuore. Si teneva abbracciata all’aria e al respiro delle parole che incontrava.

- Se tu fossi sobria, non mi diresti queste parolacce. Ma anche tu senti la vita abbandonarti e ti ubriachi del vino dell'oblio.

 Fantasima ora era attraversata dalla solidarietà della disperazione. Il pensiero le formicolava sotto i piedi e ombre indecifrabili razziavano i suoi silenzi interiori. Si espandevano infinite. Navette saltellanti tra marosi incontrollabili. Pulci incontrollabili tra le dita e sotto le ascelle.

- Dovrei trattarti bene mentre tu non fai nulla per me? Dai, vieni con me. Andiamo avanti. Sei così evanescente che mi fai pensare ad un rullino nuovo, tutto da sviluppare. Sprofondiamo insieme nei sentieri dell'oblio.

Chimera si corrodeva e si consumava irrefrenabilmente. Ogni sogno ha la vita dell’amore che l’ ha creato. Se la passione che l’ ha generato si affievolisce non resta nulla da attendere o rimpiangere. Sbiadito, scivola e ruzzola nell’archivio dei sogni.  In superficie rimangono solo fracassi luttuosi, pianti, stridii e ossa a marcire.

- Per tutti i limoni di Ribera, sei pregata di smetterla. Basta con queste chiacchiere. Rassegnati. Fra poco non saremo neanche l'ombra di un sogno inafferrabile. Né Don Adalgiso, né Don Malachia vorranno convivere con i fantasmi delle loro colpe e dei loro desideri.

Fantasima era lucida e cosciente del proprio destino. Il respiro della sua parola si affievoliva. La sua voce volava verso il silenzio sottrattole. Perché aspettare un altro nulla? Si sentiva fuori tempo. Negli scarti di cadenza si stupefaceva della realtà in cui era impantanata. Ormai non era che un intreccio di forze, pensieri, idee e problemi conflittuali, che la sua coscienza aveva goffamente tentato di celare, negandogli l’ombra necessaria a far emergere il vero.

- Busserò alla porta. Ehi, c'è nessuno qui che guardi la porta dai pericoli? C'è nessuno che apra? No, da questa porta non viene fuori nessuno. Succede sempre così con i preti pentiti. D'accordo. Facciamo pace. Dammi la mano. Il vortice della Storia ci riafferra. Ma proprio per questo dobbiamo stare attente, che non salti fuori qualche Vescovo che voglia pulirsi sulla nostra pelle il coltello del tradimento dei suoi preti!

I veli del tempo si abbassavano e lasciavano scoperta la cima della fatale piramide dei suoi ricordi. Schegge del caso. Bivi di simulazione della versatilità della sua anima. Casuali frammenti d’eternità. Deboli convergenze d’identità attinte dai pozzi della tristezza. Tranciate e liberate dall’essenza del suo destino. Si sentiva una stella smarrita tra pianeti vagabondi. Si era illusa di fissare una coincidenza tra visione ed eternità,  di avere raggiunto una certezza di stabilità, ma, adesso, la sua memoria si riavvolgeva su stessa, riaccendeva le consapevoli schiere delle sue tristezze, la malinconia delle sue cicliche scomparse, per cancellare la sua permanenza accanto ad Adalgiso. Non possedeva la potenza di ripetizioni inesauribili con cui tentare di salvarsi dai cirri che tornavano a minacciare il suo amore. L’ondoso grido di Dio si espandeva in rigagnoli di sangue e la trascinava verso il disfacimento. Riaffioravano labili forme del tempo. Pallide effigi. Simulacri enigmatici e vaneggianti. La lampadina dondolava appesa ad un filo. Cerchi chiari rotolavano sulle pareti rosa a disegnare ombre sul muro e sul suo corpo contrito e teso. Rosso di sangue stillava dai piedi feriti dai rovi.  Una gamba ripiegata. Impastata nelle lenzuola di lino puro. Rosso di sangue sgorgava dalla mano graffiata dalle gemme. Inesorabile una croce sulle pareti. Gli spigoli delle scale e delle porte, i corridoi ciechi, gli antri murati e le porte aperte su un rosso sgargiante come fuoco.

 

 

 

 

Capitolo XII

 

MILÚ

 

Milù annusò i petali del  gelsomino inebriandosi del suo profumo mentre si stiracchiava pigra e indolente sull’amaca, agganciata tra il mandarino ed il cedro. L’Isola del sole era davvero un’Arabia più dolce e sensuale: più violenta nei colori, ma tanto più fresca di ruscelli e sorgenti. Da quando vi aveva messo piede la Principessa Saracena si sentiva più vitale e fiduciosa, carica di energie e immersa nella prospettiva di immaginazioni vaghe e scontornate. I suoi sogni erano densi di nuvole pieghettate. Nei  suoi orizzonti bianchi cavalli svolazzavano sulle colline verdeggianti e nanetti festosi saltellavano tra papaveri e margherite. Il Principe di Adranone  l’aveva accolta come una regina ed aveva preteso ospitarla in un ampio casale, ribattezzato in suo onore Rahl al Marah, il casale della donna, vicino al suo magnifico Castello medievale, in cima al dedalo di vicoli, li setti vaneddi, in cui abitavano le famiglie dei suoi contadini. I guerrieri saraceni, vincitori e dominatori nella Valle, si erano stanziati nelle tende, quasi ai piedi di Qal at al ballut, intorno alle mura della Chabuca, a protezione dei vecchi e dei nuovi signori. Venivano regolarmente stipendiati con il fei, un fondo formato da un tributo collettivo delle popolazioni e dei sudditi, la gizia, e da un retratto dei beni demaniali, il kharag. Nella convinzione che  tutte le cose appartengono ad Allah e le ricchezze sono  mantenute dagli esseri umani in custodia, l'emiro Zabut attuava la zakat, che significava dare una specifica percentuale di certe proprietà a certe classi di persone bisognose, perciò le terre del demanio erano state minutamente divise e date in affitto o a censo, a guarire la secolare piaga del latifondo isolano.  Dopo  anni di scontri sanguinosi la pace era tornata nella Valle del Rincione e le pianure dell’Anguilla e della Zubbia verdeggiavano di limoni, aranci amari, cipolle e poponi. Sulle colline del Serrone e di Adragna agli uliveti ed ai vigneti si affiancavano il sommacco, la palma dattilifera e il gelso. Solo il barone di Pandolfina restava fuori dal nuovo ordine. Chiuso nella sua Torre inespugnabile, protetto da migliaia di rifugiati, rifiutava ogni incontro e trattativa. Il suo feudo era stretto in una morsa, tra Manzil Sindi, ad occidente, e  Balgah , che in arabo significava il crepuscolo, nella Valle del fiume Belich , e Qal at Mawru, la Rocca del Moro. Erano terre fertili e produttive, ricche di sorgenti e riparate dalla furia devastante dello scirocco, ma il Barone si sentiva attanagliato in una gabbia soffocante. Dopo anni di battaglie e di devastazioni, anche i Saraceni avevano finito per tollerare quest'isola cristiana tra i loro domini, perciò il suo feudo non veniva attaccato e i contadini potevano coltivare i campi, del resto ben protetti dai suoi uomini in arme, ma lui non era più libero di inerpicarsi sulle montagne della Risinata, a raccogliere funghi ed asparagi, né di avventurarsi su Monte Adranone, a caccia di lepri e di fagiani. Gli mancava la possibilità di scorazzare e vagabondare, che costituisce la stessa essenza del sentimento della libertà. Sentiva dire, inoltre, che, fuori dal suo feudo, non si pregava più il vero Dio e che le invocazioni a Cristo venivano sostituite da quelle a Maometto. Arrivava notizia di matrimoni misti e con figli, di una mescolanza linguistica tra le popolazioni, di una perdita di sicilitudine sempre più vasta e pericolosa. Più tempo passava e più cresceva in lui la rabbia ed il rancore verso gli invasori e verso quei siciliani, che, per quieto vivere, erano scesi a patti con i Saraceni. Li considerava rinnegati e traditori. Nemici più subdoli ed insidiosi degli stessi invasori. Milù, l'affascinante Principessa Saracena, che aveva incantato il cattolicissimo Principe di Adranone, nella sua mente, finì per impersonare il simbolo di  quell'integrazione che lui si ostinava  a rifiutare. Si favoleggiava di splendide serate nel suo casale, con il fiore della gioventù araba e siciliana a gozzovigliare, a cantare e a divertirsi insieme, dimentichi della diversità della loro religione e del colore della loro pelle. Poeti arabi inneggiavano alla bellezza dell'isola della luce in siciliano e fanciulle sicule danzavano travolte ed inebriate dai molli ritmi della musica araba. Milù stessa avviluppava tra le sue braccia il Principe di Adranone, offrendo un pessimo esempio di disdicevole commistione. Quella donna era così bella e dolce, accogliente e sensuale, brillante e buona, da farsi adorare, nello stesso tempo, da Saraceni e Cristiani. Conquistava più di un esercito e penetrava nel profondo delle coscienze, lasciando passare il messaggio che anche persone di idee, storia, valori diversi potessero coesistere pacificamente in uno spirito di reciproco rispetto e tolleranza. Al Barone di Pandolfina sembrava un pericolo per la stessa identità della sua gente. Un emblema da abbattere e da impataccare. Immaginò che, se l'avesse potuta colpire, i Saraceni avrebbero reagito duramente e si sarebbe innescato un meccanismo di violenze a catene; sarebbero riemerse le identità dei due popoli, si sarebbero risvegliate le coscienze ed i Siciliani avrebbero ricacciato in mare gli infedeli.  Il progetto di attentare a Milù divenne un chiodo fisso che la notte lo faceva rivoltare sul cuscino.     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XIII

 

Nevischio bugiardo

 

Con la stessa velocità con cui era arrivato il temporale si era attenuato in goccerelle rade e dolci che ticchettavano sui tetti e sulle vetrate della casa. La temperatura si era notevolmente abbassata cosicché Onofrio, che usciva con Monsignor Alfio Petrone dalla casa di Biagio, in maniche di camicia corta, avvertì un brivido di freddo.

- Che gliene ne pare della roba?

Monsignor Alfio Petrone non dissimulava, con le parole e con l’espressione, la sua piena soddisfazione, ma, nello stesso tempo, si sforzava di velare il suo potente appetito di roba, che rischiava di trasformare un servo di Dio in uno schiavo di satanasso ed in un pessimo idolatra, come ammoniva San Paolo in una lettera ai Cristiani di Efeso.

- Le sembra che sia stata pagata troppo?

- No, per tutte le Madonne! Pecunia non olet.  Ch'io sappia, mai casa fu svenduta come questa.

Onofrio intendeva sfruttare al massimo la sua rilassatezza.

- Allora le piace?

Il Vescovo aveva gli occhi sazi delle bellezze nascoste negli angoli della casa.

- E me lo chiedi? Per tutti i parrocchiani, mi piace e strapiace.

Era deciso a non dargli tregua né respiro.  A frastornarlo a tal punto con la forza dei dettagli da fargli smarrire la visione d’insieme della realtà illusoria che gli aveva creato intorno.

- E il salone com'è? E il cortile?

- Un prodigio! Sono convinto che non c'è ambiente più grande, nemmeno nei pubblici edifici.

Quando si metteva ad inventare, Onofrio si immedesimava a tal punto nelle fantasie evocate che finiva che a lui stesso sembravano vere.

- Pensi che io e Don Adalgiso ce li siamo misurati tutti i portici dei pubblici edifici.

- E allora? Non avete fatto che il vostro dovere. Mica si possono buttare al vento i soldi della Santa Madre Chiesa!

Le sue parole risultavano idonee a dire cose che non c’erano, sollevando lembi d’informulato, residui del sensibile. Beffe e derisioni lesive della carità.

- Il più lungo è questo e di gran lunga. Se piove, vi si possono riparare centinaia di fedeli!

Monsignore era entusiasta dell’acquisto mostratogli.

- Che bell'affare, Signore Gesù! Se uno mi offrisse ora SeimilaEuro, se me li offrisse sull'unghia, per tutte le porte del Paradiso, non li accetterei.

Lo teneva al guinzaglio. Quell’omone colto, furbo e navigato subiva talmente il fascino dell’intelligenza del suo sacrista da venirne travolto. L’avarizia lo accecava e gli turava le orecchie.

- Per tutti i broccoli profumati, se lei  volesse accettarli, non glielo permetterei.

Come ruotasse in un gorgo, verso un baratro avviluppante.

- Con questo affare, i nostri soldi sono stati ben investiti.

Quando prendeva in mano la bacchetta Onofrio era un direttore d’orchestra così perfetto che nessuno strumento sfuggiva al suo controllo. Le sue parole divenivano un’incarnazione plausibile della verità calpestata avvolgendo in un’ansia di definizione il prestigioso prelato.

- Lo dica, lo dica pure. Quest'affare è stato fatto su mio consiglio. Io ho spinto Don Adalgiso da Cerbero, a farsi prestare la pecunia che poi abbiamo dato al rivenditore come caparra.

- Hai salvato la barca. E allora gli dobbiamo  quattromilaquattrocentoEuro, no?

Onofrio diventava rigoroso e preciso e riusciva a nullificare la sua conclamata prudenza finanziaria.

- Non un Euro di più.

- Che li abbia oggi stesso.

Ora assumeva un’aria angelicata e verginale. Ma non perdeva certo di vista il suo obiettivo finale!

- È giusto così, senza pretestuosi cavilli. Lei versi a me, se crede; io poi verserò a lui.

Delegare una cosa importante era, però, per il Vescovo un gesto incomprensibile. Ben volentieri decentrava le sue attività più onerose e fastidiose, distribuendo incarichi e servizi, ma, se si trattava di maneggiare denaro, non si fidava del più servile dei suoi diaconi. Figuriamoci di una mano lesta come la sua!

- Se sborso tutti questi Euro a te, mi sa che possa nascere un bidone. Non vorrei indurti in tentazione!

Onofrio non sapeva se assumere un’aria meravigliata, indignata o risentita. Optò per lo stupore.

- Io oserei ingannarla? Anche solo per scherzo? A parole o coi fatti?

Ma Monsignore si stupiva del suo stesso stupore. La sua mente non voleva uscire completamente dalle lenzuola. Nella concrete scelte quotidiane preferiva guardare le cose alla propria luce.

- Oserei fidarmi, io, a consegnarti qualcosa? A mettermi completamente nelle tue mani?

Il sacrista si faceva umile come un pellegrino e fedele come un cane.

- Cosa? Perché? Da quando sono sacrista alla Matrice, le ho mai venduto parole?

- No. Ma proprio perché ci sto attento, io! Grazie a Dio e alla mia testa. Evidentemente sono abbastanza furbo, se riesco a tenere d'occhio un intrallazzere come te!

Sapeva di non essere amato da don Alfio. Da don Adalgiso sì. In modo totale e scambievole, ma lui, il Capo, lo aveva sempre guardato con aria di superiorità e fastidio per quella stessa intelligenza che, all’occorrenza, non disdegnava di utilizzare. Persino le sue parole mielate tramavano contro di lui. Gli salivano alle labbra ambigue. A rischio di essere fraintese. A dispetto della sua ostentata sicumera, i suoi pensieri, gelosamente nascosti in una scatola molliccia, venivano sempre spaventati da qualcosa e cercavano la fuga battendo disordinatamente le ali. Gli occhi indagatori del Vescovo erano penetranti come zanzare che lo punzecchiassero sulla schiena indifendibile. Perciò chiamava a raccolta le sue idee più vicine. Prima che lo abbandonassero le accarezzava in fretta. Si rendeva disponibile a qualche confessione che rafforzasse la sua credibilità.

- Consento. Ogni  tanto qualche tentazione l' ho avuta.

Gli zigomi di don Alfio si facevano sempre più appuntiti. Troppe note stonate, simili a gracidii di rane, si ricorrevano nell’aria. Le parole si negavano ad un discorso esaustivamente lineare e coerente, ma la sua megalomania gli impediva ancora di prenderne coscienza. Intuiva qualche cospirazione profonda, che ruotava davanti a silenzi ed omissioni, protetta da un parlare canonico ed arbitrario, ambiguo e dissimulante, ma non era disposto ad ammetterlo neanche a se stesso. Preferiva immaginarsi circondato da persone ubbidienti e disciplinate. Disposte ad osservare le sue indicazioni anche in sua assenza. Pronte a manifestargli il loro calore ed affetto con festose accoglienze. Avvertiva il bisogno di rassicurazione con una visibile manifestazione di consenso.    

- Ora corri ad avvertire tutto il Clero del mio arrivo. Digli che vengano con te, e di corsa

Onofrio si sentiva spiato nei suoi pensieri, perciò si trincerava dietro un sorriso perfido e scellerato e riassumeva un tono condiscendente, meticoloso e rassicurante. In tal modo sperava di trovare anche il tempo di raggiungere i suoi amiconi ed aggiornarli  sugli sviluppi della situazione. Col il sopraggiungere della sera, la temperatura si era notevolmente abbassata, la pioggia si era infittita e scendeva più lenta e densa quasi un sottile nevischio, che, però, non riusciva  a coagularsi, ma, appena toccava terra, si scioglieva e lavava l’asfalto. Quasi un fiocco di cenere antica. Un nevischio bugiardo, che come tutte le costruzioni della mente, rischiava di snaturarsi a contatto con la dura realtà. Sentiva molto freddo. Un gelo glaciale avvolgeva le sue braccia e le sue gambe. Ghiacciava i suoi stessi pensieri. Lo sgorgo fitto ed inesausto della sua immaginazione pulsionale, libera da inibizioni e, quindi, capace di produrre pienezza percettiva si esauriva. Stava scivolando lungo la gola di un incubo. Aveva sempre giocato con la vita. Niente aveva preso sul serio. Nemmeno se stesso, anzi da se stesso si era volontariamente esiliato, timoroso di riconoscersi e di spaventarsi della sua rappresentazione. Ma temeva che fosse arrivato anche per lui il momento della resa dei conti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   Capitolo XIV

 

 

 

Colloqui fantasmagorici.

 

 

 

 

I timori del birbante sacrista non erano del tutto infondati. Una nidiata di vermi pizzicavano il cervello del Vescovo. Un formicolare di allusioni. Anche se non riusciva a far suo il concetto fondamentale di quelle tessiture, sentiva che, sotto sotto, gatta ci covava! Dentro di sé cercava di decostruire tutti gli eventi della giornata, di rappresentare, anche per assurdo, tutto quello che di oscuro e sfuggente gli era capitato, ma le parole e i fatti si accavallavano disordinati, frastornandogli la mente e impedendogli di guardare lucidamente le cose, che gli apparivano come un’inquieta nebulosa d’impressioni ancora indifferenziate, un' amalgama confuso ed inestricabile.   La sua educazione tomistica e la sua vocazione ad esercitare un controllo razionale sugli eventi e sulle persone tornavano a bussare alla porta. Ma sapeva bene che la verità si mostra nuda solo quando sa di non essere sbirciata da nessuno. Lo aveva imparato stando in confessionale. Confessarsi è guardarsi impietosamente allo specchio. Mettere a nudo le proprie rughe e ferite. Dilaniare la propria coscienza. Assumere la responsabilità delle proprie trasgressioni. Farsi male. Un’operazione sadomasochista che nessuno fa mai a cuor leggero. In ogni caso, rarissimamente, davanti ad altre persone, pronte  a giudicare impietosamente. Nel buio del confessionale tutto ciò diviene facile e naturale. Uomini e donne gli aprivano se stessi senza reticenza e pudore. Gli confessavano persino colpe e peccati mai commessi o non classificabili come tali. Erano rigorosi e implacabili con se stessi. Quasi volessero liberarsi del peso della loro vita. Come se ciò fosse realmente possibile scaricandola su un ascoltatore silenzioso ed attento. Per venire a capo dell’intrigo che percepiva fumosamente doveva trovare il modo di osservare ed ascoltare senza essere visto. Proprio come in confessionale. Il modo migliore era travestirsi e stare  a vedere. Magari assumendo le sembianze di un vecchio mendicante. Aveva nella sua valigia qualche vestito adatto al bisogno e non esitò a tirarlo fuori. Mentre si rifugiava in un angolo buio a compiere questa operazione di camuffamento, arrivavano Falena e Lucciola, due giovanastri che, ogni tanto, si associavano alle baldorie in sacrestia. Guardavano l’orizzonte e mantenevano gli occhi fissi in un punto. Procedevano dritti sulla strada, i cui lati erano ampie distese sassose, a tratti gibbose, con qualche raro cespuglio. Pietre grigie scintillavano grottesche, sghignazzando dei bagliori della luna.  Non sentendo il chiasso dei convitati, che prima non mancava mai, nè lo stereo acceso a tutto volume, si meravigliavano. Non riconoscendoli, Monsignore temeva che si potesse trattare di altri fantasmi e si chiedeva che razza di roba fossero i due nuovi arrivati, dinanzi alla sua Chiesa, che cosa andassero cercando e perché spiassero la sacrestia. Intanto Falena non si capacitava che la porta fosse chiusa.

- Io continuo a bussare. Ehilà, apri! Ehilà, Onofrio, ti decidi ad aprire?

Monsignor Petrone era perplesso. Ma che razza di storia era? I fantasmi non entrano anche attraverso le porte chiuse? Se si trattava dei fantasmi di cui aveva parlato Onofrio perchè perdevano tempo a bussare? Non considerava che anche i fantasmi, se si incarnano in sembianze terrene, si appesantiscono e  devono fare i conti con  le leggi di fisicità che limitano tutti gli esseri viventi sulla terra.  La voce di Medardo era metallica ed insistente.

- Non ci riconosci? Ti sbrighi ad aprire? È per il nostro Don Malachia che siamo venuti.

Monsignore si sentiva preso dai Turchi. Eppure li aveva lasciati tranquilli in Medio Oriente! Quei disgraziati attentavano all’integrità delle sue proprietà.

- Voi, fantasmacci, perché fate così? Perché state scassando questa casa?

Ma Lucciola non gradì quest’inattesa intrusione, né l’epiteto affibbiatogli. Guardava l’orizzonte, il raso del cielo e non poteva più staccare il pensiero dal punto in cui la strada sembrava bucare una massa nera. 

- Fantasmacci a noi! Ma ti sei guardato allo specchio? Vecchio straccione, perché ti impicci in ciò che non ti riguarda?

Monsignore si sentiva punto sul vivo. Niente di quello che avveniva nella sua Chiesa gli poteva  essere estraneo.

- Che non mi riguarda?

A vederlo coperto di cenci, che stentava a reggersi in piedi Lucciola non aveva dubbi che il tizio fosse solo un maledetto ficcanaso.

- Per caso, ti hanno appena nominato prefetto per curare gli affari altrui, per indagare, guardare, ascoltare...

La sua palese ironia lo mandava in bestia, comunque, cercava di darsi un tono autocontrollato, spogliando le sue parole di orgoglio e vestendole d’ombra. Ma la sua voce non era del tutto imbrigliabile.

- Quella casa lì, lì dove siete voi, m'interessa come se fosse mia.

A Lucciola sembravano discorsi babelici, tuttavia il tono sicuro del mendicante contrastava con gli stracci di cui era coperto.  

- Che vai dicendo? Forse  Don Adalgiso l' ha già venduta? O  ci vuoi prendere per il naso?

Monsignor Petrone riteneva giunto il momento di mettere in crisi le loro scontate certezze.

- Dico la verità, io. Ma voi  di che vi preoccupate? Non avete dentro l'ardire dei guerrieri saraceni? Non siete sotto la tutela dei fantasmi che infestano la parrocchia?

A Falena non sembravano domande del tutto fuori luogo. Negli ultimi tempi il suo parroco sembrava veramente l’ombra di se stesso. Irriconoscibile. Con la testa non ci stava. Dov’era finito il prete virtuoso e propositivo che stimolava  i giovani del quartiere  a fare il bene e a seguire la retta via? Dov’era smarrita la sua guida spirituale? In una linea d’ombra, al limitare tra la morte e la vita. Tra il tutto e il niente. Come ogni soglia, finestra o confine. Ed ogni confine può cambiare il volto della vita in modo irreversibile. É una catena di duplicità che genera timore, alienazione, dispersione d’identità. Nell’orrore del vuoto.  

- Ogni uomo o donna può diventare il fantasma di se stesso. Qui dentro, a bere, c'è il nostro parroco, annichilito dalla passione e dalle droghe.

Monsignore era sconvolto, ma cercava di frenarsi per non bloccare i suoi interlocutori.

- Beve, qui dentro, il vostro parroco?  E quali passioni lo stravolgono?

Anche a Falena non sembrava vero avere l’opportunità di scaricarsi dei suoi dubbi e delle sue tensioni.

- La Fantasima Saracina. È talmente ammaliato dalle sue rotondità e dalle sue curve che ha perso la bussola della Fede. -

Una fanciulla dunque! In fondo tutto tornava sempre ciclicamente agli inizi. Ad Adamo ed Eva. Era meno preoccupante di quanto avesse paventato. Monsignore conosceva troppo bene la forza e il rigore dell’educazione in Seminario per temere che bastasse qualche pelo di donna a distruggere una Fede. L’amore nasce dalla rivelazione di una mancanza ed, in fondo, è la ricerca dell’espediente per soddisfarla. Un movimento verso un punto di perdita. Una crisi momentanea. Una sbandata. Anche a lui ogni tanto ne capitava qualcuna. A dire il vero, sempre più raramente. Per un prete una donna è certamente un miraggio irraggiungibile e agognato, ma rimane una stazione di transito. In quanto trasgressione, in quanto marginalità, la sua razionalizzazione risulta inevitabile. Può assumere i contorni di un sogno gratificante e liberatorio, l’illusione di una rivelazione forte delle proprie aspirazioni, ma non può certo determinare il rinnegamento perentorio e totale di Dio. Un prete non può vivere a lungo al di fuori del dominio del suo sguardo.  

- Fantasmino mio, fai troppo lo spiritoso. Non riesco ad immaginare Don Adalgiso in una selva oscura.

Lucciola era meno dibattuto della sua amica. Negli ultimi tempi se l’era spassata e non vedeva per quale ragione dovesse cambiare strada.

- Ma noi gli veniamo incontro con la nostra luce. Gli procuriamo l'erba buona e, se ha Euro, estasi e cocaina.

Monsignore stentava a credere alle proprie orecchie. Era come immerso in un sogno che lo intontiva. Per lui l’amore non era stato mai abbandonarsi ad un godimento spensierato; era stato un concedersi controllato a qualche istante di follia, ad un guado. Non poteva capire, né tanto meno giustificare uno smarrimento totale.

- A chi? Cosa? Come?

Lucciola non si lasciava intimidire dalla sue domande incalzanti.

- Al nostro parroco. Ma scusa, quante volte te lo dobbiamo ripetere?

Quasi quasi alla verità della strana coppia di giovani il Vescovo tornava a preferire quella del sua diabolico sacrista.

- Giovanotto, qui dentro, in questo momento, non ci abita nessuno. Spaventati ed inorriditi dai loro  stessi fantasmi, sono fuggiti tutti quanti.

Anche Falena si ribellava a questa mistificazione assurda della realtà. Era bella e dolce Falena, ma non le mancava una dose di spregiudicata malizia.  

- Don Adalgiso, il giovane gaudente più spensierato che abbia mai incontrato, spaventato ed inorridito? Ma se è beatamente sprofondato tra i sapori e gli odori delle carni di Fantasima!

Monsignor Alfio Petrone non voleva ascoltare altro.  Quello che aveva sentito già gli bastava per farsi il segno della croce. Era con un cuore d’asino ed uno di leone. Voleva conoscere la verità sino in fondo, ma, nello stesso tempo, aveva paura di scoperchiare completamente la pentola.

- Gesù e Maria ci liberino da simili sciagure! Don Adalgiso se ne è andato da un pezzo, per la paura dei Fantasmi Saraceni. Chissà dove è andato a rintanarsi a pregare! Se qualche Fantasima si illude  di averlo sedotto, con le sue diaboliche magie, si illude! É solo un brutto incubo. Appena sentirà i passi del suo Vescovo, Adalgiso si risveglierà immediatamente.

A Falena il  vecchio straccione sembrava del tutto pazzo. Folle di sicuro e caparbio. Incapace di arrendersi all’evidenza. Conosceva bene don Adalgiso. Per lui amare era naufragare. Perdersi. Eterne dolcezze. Piacere. Ma insieme nulla. Ritorno al nulla.

- Ti sbagli di grosso. Se lui non se ne è andato via oggi, o ieri, sono sicuro che abita proprio qui. A quest'ora giacerà con la testa reclinata tra i morbidi seni di Fantasima.

Monsignore ostentava ancora scetticismo. Guardare in faccia la verità  e riconoscerla significava anche prendere coscienza che Onofrio lo aveva turlupinato e che i suoi preti erano pronti a pugnalarlo appena voltava le spalle.

- Ma sono sei mesi che qui non ci sta più nessuno! Avrete visto qualche fantasma aggirarsi nella notte!

Lucciola gli assestava colpi sempre più duri, ma lui rifiutava ancora di accettare il proprio fallimento. 

- Tu stai sognando. Noi fantasmi siamo solo la materializzazione dei tuoi sogni, dei tuoi incubi, delle tue deprivazioni.

Quel giovane era ambiguo, viscido e invadente. Gli trasmetteva una sensazione di malessere. Monsignore non consentiva  a nessuno di entrare nella sua guardia. Era un ottimo confessore, ma non si apriva mai agli altri. Nessuno conosceva le sue umane debolezze.

- Io deprivazioni? Incubi? Sogni? Ma se ho vissuto una vita sicuro delle mie certezza! Nessuna passione, nessun trucco del Demonio ha mai fatto vacillare la mia Fede!

- Sogni proibiti, ti dico. A luci azzurre e gialle. Fantasmi di incubi di labbra rosse sulle tue labbra esangui di terrore. Incubi di desideri inconfessabili nella tua mente assetata di emozioni.

Decisamente lo infastidiva. Non sopportava i suoi occhi insidiosi, quasi volessero penetrargli nell’anima.

- Non seccare. Le tue sono solo fantasie bugiarde. Farneticazioni. No, qui, ormai, non ci abita nessuno. Me lo ha ribadito tante volte il mio sacrista.

- E invece sì, ci abita. Da quattro, cinque mesi fa, da quando il suo Vescovo è andato all'estero, qui non si è mai stati tre giorni di fila senza bere, sballarsi, gozzovigliare e pomiciare.

Ancor meno ne sopportava il contatto fisico e i tentativi di accarezzargli le guance - Ma cosa dici? Nella casa del Signore? Una profanazione! Un sacrilegio!

Ora Lucciola gli danzava intorno estasiato- Non c'è stato giorno che si sia smesso, qui, di sbevazzare, abbuffarsi, spassarsela alla grande, pagar massaggiatrici e suonatrici!

Questa quadro apocalittico travolse le sue ultime resistenze. Monsignore non si accontentava ormai di un racconto generico. Voleva individuare precise responsabilità individuali.

- Chi faceva queste prodezze?

- Don Adalgiso e Don Malachia.

- Quale Don Adalgiso?

- Quello, mi pare, che è parroco della Chiesa Madre.

Monsignore si sentiva perduto, se questo tizio gli diceva la verità. Non gli restava che continuare ad interrogarlo. Anche se gli faceva schifo la sua andatura molleggiante - Don Adalgiso, chiunque sia, tu dici che qui continuava a far festa insieme con Don Malachia?

- Sì, ti dico.

Provò a smontarlo o a provocarne altri racconti. Per avere ulteriori riscontri.

-Tu sei scemo più di quel che sembri. Forse ti sei fermato a fare uno spuntino da qualche parte e hai bevuto più del necessario.

- Che cosa?

- Credo che tu  sia arrivato per sbaglio a una casa che non c'entra.

- Lo so bene dove debbo andare, conosco bene il posto dove son venuto. Abita qui, Don Adalgiso, il parroco della Matrice, il quale, dopo che il suo Vescovo è partito per una missione, ha liberato i suoi istinti più libertari e si è lasciato abbindolare dalla Fantasima Saracina .

- E così Don Adalgiso...

- Ma sì… con Fantasima…

Monsignor Petrone provava a interrogarlo anche sugli imbrogli finanziari.

- Quanto ha speso?

- Quattromila…

- Quattromilaquattrocento Euro?

- No, solo quattromila ….per la roba! … per liberare i suoi freni inibitori… e quelli di Fantasima…che ha fatto uscire dalle caverne dei sotterranei…

Altre stranezze. Illogicità paradossali. In verità, neanche il ragazzo era convintissimo della realtà delle sue affermazioni.

- L' ha liberata dalle prigioni dei sotterranei?

Falena cercava ora il colpo ad effetto.

- Liberata. L' ha fatta uscire attraverso i cunicoli che portano ai sotterranei del convento dei Cappuccini.

- Tu stai insinuando che Fantasima è diventata  la sua amante...

- Confermo. Ogni notte si leva dagli abissi delle  tenebre. Indossa un seducente abito di veli sottili e volteggia ai pallidi  bagliori della luna.

Riaffiorava  il Vescovo fiutafantasmi temutissimo da tutti gli indemoniati. Quando era un giovane sacerdote si era fatta fama di esorcista forte e sicuro, capace di scacciare anche il più subdolo dei demoni dalla coscienza di una persona. 

- E l' ha liberata dalle catene del sonno eterno e della dannazione?

- Confermo. Fantasima si era destata per attrarlo con le sue arti di seduzione e sprofondarlo con lei nelle viscere dei Vicoli Saraceni. Ma la forza dell'amore di Don Adalgiso ha fatto rifiorire in lei il colore della rosa ed il profumo del gelsomino

Monsignore era esterrefatto. Ormai era solo un vecchio prelato stanco e deluso. Non si sentiva dentro la forza interiore della speranza necessaria ad affrontare e sconfiggere il male. Troppe delusioni accanto a lui. Troppo frequentemente il suo Dio la aveva lasciato solo a combattere l’egoismo e l’ipocrisia umani. Si sentiva fragile e insicuro, ma non era ancora disposto a subire passivamente, né a far come se niente stesse succedendo nella sua Chiesa. Non rinunciava ad interrogarsi e ad interrogare. 

- E quando?

La narrazione di Falena si faceva precisa e dettagliata. Man mano che la loro conversazione procedeva la ragazza aveva sempre più netta la sensazione che non stesse parlando con un occasionale passante e la percezione di un interlocutore attento ed interessato lo rendeva più puntuale nel suo racconto.

- Ogni sera, quando le farfalle cedono alle falene, Fantasima si libra nell'aria sorretta da leggiadre Fantasimine. Si insinua tra le fessure della sacrestia e infiamma del suo calore le stanze fredde di solitudine e grigiore.

Ormai era andata. Il Vescovo avvertiva la sostanziale veridicità del suo racconto. Magari la ragazza era un tipo impressionabile e portata ad ingigantire i particolari, ma, senza dubbio, gli stava schiudendo la finestra su uno spicchio di realtà che, sino a qualche ora prima, non si sarebbe neanche sognato di immaginare. Tanto voleva raccogliere informazioni anche sulle cause di questo fantomatico debito.

- Che altro? Don Adalgiso ha comperato la casa qui vicina?

Di fronte a quest’altro  genere di domanda Falena si adombrava ed  assumeva un atteggiamento reticente.

- Non confermo… né mi sento di smentire…

- E ha versato al vicino, per caparra, quattromila Euro?

- Non confermo … né mi sento di smentire…

Monsignore era disperato per questo suo non rispondergli. Non capiva se taceva perché ignorava i fatti o per omertà verso i suoi amici.

- Ti si è incantata la puntina? Ahi, ahi, tu mi uccidi. Mi avveleni con questo seme del dubbio.

La ragazza cominciava ad avere un quadro sempre più fosco del livello di perdizione del suo amico prete e ciò lo amareggiava profondamente.

- No, è lui che ha ucciso se stesso … la sua identità … la sua stessa Fede.

Stavolta erano perfettamente d’accordo. Per Monsignore era assurdo lasciare spegnere una Fede. Il disgraziato che incappava in una simile sventura era perduto agli altri ed a se stesso. Il bene diventava un miraggio e la felicità una postazione camaleontica. Solo la disperazione e l’angoscia lo avrebbero accompagnato per il resto dei suoi giorni.

- Dici una sacrosanta verità. Guai all'uomo che smarrisce la sua vocazione! Che abbandona il sentiero conosciuto per altri più impervi ed oscuri!

Parlava con sapienza e saggezza. Anche lui si sentiva smarrito negli ultimi giorni. Quel vecchio mendicante che, a prima vista, aveva stimolato le sue capacità d’irrisione, ora gli sembrava pacato e affidabile.

- Tu sei, vorrei sbagliarmi, una guida, un pastore di pecore, a quanto sembra.

- Ah come è disgraziato il Pastore di cui parli!

Falena, ormai del tutto fiduciosa e rilassata, si abbandonava ad altre confidenze.

- Sono niente, i quattromila Euro, rispetto alle altre pazzie che Don Adalgiso ha fatto.

- Ha ucciso se stesso, l'abito che indossa e la sua coscienza. Omnes morituri sumus!

Vedendo arrivare Onofrio, Falena glielo additava. Come tanti anche lei lo considerava l’anima nera di don Adalgiso. Il suo complice ed il suo mefistofelico consigliere.

- Qui c'è il suo tremendo sacrista. Quello riuscirebbe a far fuori anche il tesoro di Rocca Entella. Per tutti gli effluvi di mandarini, provo davvero una gran compassione per il suo Vescovo, per quando verrà a sapere queste cose. Un carboncino ardente gli brucerà il cuore a quel poveraccio.

Nessuno come lui poteva sapere quanta verità contenessero le sue parole, né la giovane si poteva mai figurare quanto diretto fosse il messaggio che lanciava. Il Vescovo si sentiva  sempre più vecchio ed appesantito.

- Se tutte queste cose sono vere….per lui sarà come sedersi su delle coccoline di ortiche !

Falena insisteva con candore. Ormai il suo ottimismo edonistico aveva ceduto il posto al pentimento e alla sincerità.

- Che ci guadagno a raccontarti delle frottole?

Lucciola, scocciatosi di fare da spettatore, tornava ad accanirsi con la porta. Tutte quelle chiacchiere e quelle stupide domande lo avevano scocciato. Era venuto per divertirsi e non era del tutto convinto di rinunciarvi.

- Ehi, voi, chi apre qui?

Falena, invece, ormai era rassegnata a non ottenere alcuna risposta.

- Ma che bussi a fare, se dentro non c'è nessuno? Ho idea che siano andati altrove a narcotizzare la loro coscienza . Muoviamoci, su...

Monsignore voleva continuare la conversazione. Ogni fatto che apprendeva era una trafittura lancinante, ma non voleva nascondere il capo come lo struzzo.

- Fantasma...aspetta…

Ma anche i ragazzi era stanchi. Delusi e spossati. Non si capisce mai a che a punto si è arrivati se altri non ti costringono a riflettere. Falena e Lucciola percepivano con sgomento la precarietà della loro esistenza. Guardavano dentro se stessi e avvertivano solo solitudine e vuoto. Un po' a sinistra un rossore improvviso. Il suolo si gonfiava e si arricciava di gobbe e e di cavità.

- Noi ricominciamo a ricercare… prima che ci travolga il buio della dimenticanza…. Seguimi da questa parte, Lucciola.

Il rossore aumentava, allargando la presa all’orizzonte. Punti di intenso chiarore si facevano largo, ma la cresta infiammata del sole ancora non appariva dietro le morbide colline, incastrate tra la terra e l’immenso cielo.

- Ti seguo, Falena… ormai l'alba indora Genuardo … e riscalda la palude Carboj… non c' è più tempo per la nostra vita…

Come vagabondi, che cercassero di sfuggire ad ogni tentativo di inclusione, perché amanti di girovagare al di fuori di ogni struttura, così i due cercavano di sfuggire alla prigione della riflessione, alla logica dell’opposizione e al regime di equivalenze con cui la ragione annoda la sua rete inestricabile. Per il Vescovo le loro angosce e paure erano trasparenti. 

- Te ne vai, fantasma? Non vuoi guardare in fondo al caleidoscopio del futuro?

Il  chiarore ancora indugiava a farsi rossore. Lucciola taceva spossato dalle sue contraddizioni e solo Falena aveva animo di parlare, con un filo di voce che progressivamente si affievoliva.

- La libertà difende la tua vita. La mia non ha difese se non rispetto e servo il signore delle tenebre. Quando il sole infiamma le colline, nella notte senza rive, preferisco il fresco dei cunicoli all'arsura delle pianure di stoppie e all'afa delle mura assolate…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XV

 

L’agave

 

 

 

Monsignor Alfio Petrone si sentiva svuotato. Neanche tutte le Vergini santificate avrebbero potuto salvarlo dall’annientamento! Stando a quel che aveva ascoltato, non era andato soltanto a Gerusalemme, bensì sino alle terre solitarie, poste alla fine del mondo, tanto che non sapeva nemmeno dove si trovasse. Sentiva di trovarsi sul cigliaio di un baratro scosceso ed oscuro. La verità è come un’agave variegata, dalle foglie cauline e dentate, che si stagliano dritte e carnose, ma armate di punte acuminate. Se ci si avvicina troppo rapidamente e imprudentemente si rischiano trafitture dolorosissime. Il Vescovo ormai la sfiorava, ma procedeva a tentoni, perciò si imbatteva ad ogni istante nei suoi aculei duri e penetranti. Con sollievo vide venirgli incontro Biagio, l'uomo da cui sembrava che Don Adalgiso avesse comprato la casa. Era la persona più adatta a dare risposta ai suoi lancinanti interrogativi, al posto giusto e nel momento opportuno.

- Ehi, che stai facendo?

Biagio sembrava con le batterie scariche. Aveva perso a Briscola o, più probabilmente, non aveva trovato posto a tavolo, visto il suo ritardo. Da giovani si vorrebbero fare tante cose che non si trova mai il tempo, perciò ci si smarrisce dietro tanti inizi che, spesso, non trovano seguito o completamento. Nessuno fa mai in tempo. Ad una certa età gli interessi si riducono. Ci si lega a poche essenzialità. Quelle che si considerano raggiungibili con le forze residue. Ma tale legame è anche più morboso. Non si riesce a rinunciare. Più si sente il flusso della vita affievolirsi, più ci si attacca ad essa, ai rari piaceri che è ancora in grado di dare. Il passatempo della partitina  a carte con gli amici era per Biagio un’abitudine così rilassante che quella sera, essendogli sfuggito, dava al suo passo un ritmo flaccido. Monsignore cercò di prenderla alla larga.

- È successo qualcosa di nuovo oggi in Città?

Biagio non aveva voglia  di subire una serie di domande oziose. Era abbastanza stufato per come gli era andata la serata, ma, osservando il viso cinereo del Vescovo e il suo aspetto inusualmente dimesso capì che aveva guai ben più seri dei suoi e questa semplice constatazione bastava a ridargli slancio e a fargli riprendere vitalità.

- Sì, certo. Ho visto portar via un morto e dicevamo che prima era vivo!

- Ti venisse un accidente!

- E lei, scioperato e curiosone, perché va cercando novità?

Monsignore non ne poteva più! In genere riusciva a controllare le sue emozioni, ma, ormai, il desiderio di capire fino a che punto lo avevano turlupinato prevaleva su tutto!

- Perché io sono ritornato, proprio oggi, dalla Palestina e sono stanco, distrutto … affamato di pane  e di ….verità.

Biagio non lo prendeva sul serio. Vedere ridotto in  questo stato d’angoscia un uomo così autoritario lo turbava, ma non lo sconvolgeva.

- Ho promesso di uscire fuori a cena. Non si illuda che la inviti.

Monsignore, invece, lasciava coincidere l’oggetto della sua ricerca con lo stesso esercizio del cercare, perciò non riusciva a distinguere i discorsi seri da quelli ironici.

- Ma neanche ci penso, per Dio. Mi si è chiusa la bocca dello stomaco, per i dispiaceri.

Biagio stava cercando di rifarsi della Briscola alle spalle del prelato.

- Però domani, se qualcun altro non invita... me, verrò a cenare alla sua mensa.

Monsignore sentiva che il reale combaciava con l’irrealtà più orribile. Un ciuffo di cipressi spuntava lontano dietro i rami di acacia. Tra di loro si stendeva un campo di stoppie gialle.  Se fossero state rosse come le sue ferite vi si sarebbe sdraiato immobile, in  meditazione.

- Non penso nemmeno a questo. Se non hai di meglio da fare, dammi un po' del tuo tempo.

Biagio cominciava a preoccuparsi del suo viso disperato e della nostalgia del suo sguardo.

- Tutto quello che vuole.

Se il campo si fosse spezzato in terrazze ripide e verdi avrebbe potuto scorazzarvi senza pensieri come faceva da giovane chierichetto. Ma ormai era un vecchio prelato, carico di anni e di responsabilità. Le imperfezioni della sua Chiesa gli si visualizzavano come un grande piatto azzannato da mille roditori.  

- Ch'io sappia, tu hai ricevuto quattromila Euro da Don Adalgiso?

Biagio veniva colto di sorpresa. Non vedeva Mille Euro tutti insieme da tempo immemorabile! E don Adalgiso non era certo così generoso da regalarglieli! 

- Nemmeno un soldo, ch'io sappia.

Monsignore non riusciva a cogliere la groppa della situazione, che pesava  da un lato sfuggente. Si sforzava di ricomporla, per quanto possibile, ad un corpo intero, anche se ineluttabile, almeno per  conoscere il verdetto a cui sapersi rassegnare

- E dal sacrista Onofrio?

Biagio non riusciva ad essere parte dell’accaduto. Ogni particolare gli pareva slegato dall’altro e le sue parole punteggiavano immobili sciami.

- Meno ancora.

Il povero Vescovo era come se chiedesse l’elemosina, con un piattino a pezzi, a dei frettolosi passanti assenti. 

- Quelle che ti ha dato per caparra?

Se le frontiere innalzate dagli ideali si infrangono all’infinito nel narcisismo delle piccole differenze, possono dar luogo  a menzogne colossali.  Biagio non era capace di fingere fino a questo punto.

- Ma che si sta sognando? Che caparra d'Egitto?

Monsignore si sentiva mancare il respiro, perciò si sedeva sulla panchina, di spalle, per non farsi vedere, mentre lo ritrovava. 

- Io? Tu piuttosto, che speri così, facendo il tonto, di render nullo il contratto, che, in mia assenza, Don Adalgiso ha fatto con te

Per Biagio erano parole senza senso. Temeva che togliere dalla sua esistenza l’errore equivalesse a togliergli il respiro, ma non poteva assecondarlo ulteriormente.

- Cosa?Quel prete della malora, mentre lei era via, avrebbe fatto un contratto con me? Quale contratto? In quale giorno?

Monsignor non si voleva rassegnare neanche davanti all’evidenza.

- Ti sono debitore di DuemilEuro.

Quasi quasi si lasciava tentare! I soldi fanno venire la vista anche ai ciechi!

- Mio debitore? No, per tutti i ramarri dei canneti! Però, se mi deve qualcosa, paghi!. Bisogna rispettarla, la parola data. Non si sogni di poter negare. Pacta sunt servanda.

- Non negherò certo di esserti debitore. E pagherò. Ma tu, bada bene di non negare di aver ricevuto da noi quattromila Euro.

Messa così era proprio inaccettabile! Un galantuomo non può millantare di avere le tasche piene.

- Per favore, mi guardi bene, per  tutte le vipere di Risinata, e mi risponda: quattromila Euro?

Monsignore faceva la prova del nove al racconto di Onofrio, scendendo nei particolari.

- Te lo ripeto. Per la tua casa, date ...

Biagio non ce la faceva più! Si sentiva strumentalizzato dal diabolico sacrista per i suoi spochi fini. Cominciava a vederci chiaro e non gli piaceva affatto.

- Così? Avrebbe, quel pretaccio, comprato la casa da me? Onofrio diceva che lei intendeva costruire qui, sul suo, una sacrestia più grande

Adesso era Monsignore a sbalordirsi nel vedersi attribuite intenzioni mai avute.

- Io volevo costruire qui?

- Così mi ha detto.

Finalmente si accasciava sulla panchina distrutto. Non c’era più alcun dubbio. Onofrio lo aveva preso per i fondelli!

- Ahimè, sono finito. Non ho più voce. Sono morto e stramorto.

Anche per Biagio tutto il quadro si definiva.

- Forse che Onofrio ha combinato?...

- No, ha scombinato. Tutto. Indegnissimamente mi ha turlupinato. Oggi e per sempre. E ora io ti supplico di soccorrermi, di aiutarmi.

Non c’è niente di più pericoloso della forza congiunta di due persone che si sono viste menare il naso.

-Che vuole?

- Vieni con me, ti prego, seguimi.

Ed entravano insieme dentro la sua abitazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVI

 

La contrizione

 

Ormai tutto era irrimediabilmente perduto. Le furbizie e gli stratagemmi di Onofrio si erano rivelati dei palliativi inutili. Pannicelli caldi inadatti a sanare le ferite. Adalgiso era consapevole che il Vescovo aveva capito tutto e fra poco sarebbe arrivato il momento della resa dei conti. Non si sentiva pronto a rinunciare all’abito talare. Il sacerdozio non è un ruolo politico o burocratico a tempo determinato. É un ufficio ed una dignità perpetua ed inamovibile. Nessun essere vivente poteva togliere dalla sua anima il carattere sacerdotale che gli era stato irreversibilmente impresso. Lui era un sacerdote. Dichiarava il sovrano ed universale dominio di Dio sulla propria persona. Aveva celebrato con lodi quotidiane la sua immensa beneficenza. Aveva quotidianamente lodato la sua maestà con salmi, preghiere, sacrifizi e con altre funzioni ecclesiastiche, svolte con decoro e perfezione interna ed esterna. Con l’amministrazione dei Sacramenti lo riconosceva e confessava Redentore e Salvatore dell’uomo, con il suo sangue infinito sparso sul Calvario. Era bravissimo ad aiutare il prossimo con la predicazione della Divina parola, con santi ragionamenti e con consigli spirituali.  Ma amava anche Fantasima perdutamente. Non riusciva a figurarsi un solo attimo di esistenza senza i suoi baci, le sue carezze, il suono trasognato della sua voce. Per lei avrebbe dato la sua giovinezza, un braccio, una gamba, la sua stessa vita, ma era altrettanto incapace di compiere una scelta decisa e  di rinunciare alla sua Chiesa. Era come se si trovasse ad un falso bivio, le cui biforcazioni portavano irrimediabilmente alla fine della sua felicità. Avrebbe, comunque, dovuto perdere una parte vitale di se stesso. Qualsiasi scelta lo avrebbe lasciato monco. Non sapeva scegliere consapevolmente. Non aveva mai avuto il coraggio di assumere atteggiamenti netti e responsabili. 

Era un inguaribile vigliacco e sapeva di esserlo. Come tutti i deboli avrebbe finito per subire gli eventi. Si sarebbe lasciato andare in balia della corrente. E la furia delle onde lo avrebbe fatalmente separato da Fantasima.

Si riconosceva un miserabile peccatore, povero ed afflitto. Doveva rassegnarsi a convivere senza impazienza con il disgusto di se stesso e con la sofferenza della rinuncia, considerando ciò che aveva sofferto Gesù Cristo. San Gregorio insegnava che non vi è male che si possa tollerare con pazienza e con disponibilità d’animo. Probabilmente la bontà divina gli stava facendo scontare duramente i peccati commessi per non vederlo ardere tanto tempo nel Purgatorio. Tutte le tribolazioni a cui era sottoposto non gli sembravano un prezzo esagerato per comprare l’eterna gloria. Se le sue mancanze, i suoi dolori erano veementi doveva considerare la brevità del patire e l’eternità del godere. Doveva fare ripetuti atti di Fede, credere nella Chiesa e in tutto ciò che credeva la santa Chiesa Cattolica. Tanti milioni di Martiri l’avevano sottoscritta con il proprio sangue. Tanti Anacoreti l’avevano attestato con il menare in terra una vita celeste. Tanti Dottori della Chiesa, di mente elevata e di grande cultura, l’avevano insegnata con le parole, con gli scritti e con gli esempi. Cristo era capace di miracolarlo per un atto di umiliazione e di Fede. Per dissipare la disperazione che lo attanagliava faceva atti di speranza, confidando nella misericordia e nella bontà divina, che era infinitamente più grande di tutte le sue limitate malizie. Aveva sete di riunirsi con Dio. Nei riguardi del Vescovo, che l’aveva introdotto e sorretto nel suo cammino di Fede, provava rispetto, deferenza e gratitudine, ma anche un sordo rancore per avere spezzato bruscamente la sua meravigliosa storia d’amore. Contro l’odio che sentiva insorgere prepotente verso la sua guida spirituale voleva fare atti di amore e di perdono, per  amore di Dio. Bisognava che imparasse a perdonare per sperare nella remissione delle sue colpe. La vittoria di un vero Cristiano consiste nel cedere, cosicché, alla fine, chi perde vince. Prendeva in considerazione le proprie imperfezioni ed infermità spirituali e richiamava alla sua mente i peccati commessi. La libidine sfrenata, l’annientamento della sua volontà con le droghe, la corruzione di altri giovinetti, fiduciosamente affidatigli dalle famiglie per guidarli in un retto cammino spirituale. Si era piegato alle sensazioni caduche e alle gioie effimere. Deviazioni continue. Piaceri lusinghieri ed incostanti. Tutti aveva tradito. L’amore ed i sacrifici dei suoi genitori, che avevano investito risparmi e sacrifici nei suoi studi. La fiducia del Vescovo che gli aveva affidato le chiavi della Cattedrale, dei suoi parrocchiani che gli avevano consegnato in confessione le loro angosce ed i loro pensieri più reconditi, l’innocenza e la purezza dei bambini. Era diventato un cattivo prete. Una micidiale matrigna, un fosco vapore capace di accecare i suoi fedeli. Con il suo stile di vita rischiava di confondere le coscienze dei parrocchiani, da lui stesso prima generate e nutrite. Nessuno può continuare a dare ad altri quello che ormai non ha più. E adesso si apprestava a tradire anche lei, il suo unico, grande amore. Che lo aveva fatto scoprire a se stesso uomo. Con i propri sogni  e desideri  inconfessabili. Con la forza dirompente delle sue passioni. Con la pochezza delle sue fragilità umane. Fino a lei era stato solo prete. E un prete non sempre è un uomo. Talvolta è solo un manichino, un banditore freddo e compassato dei suoi principi di Santità e della sua Fede. Pieno di celeste Sapienza e carità. Un campione vivente di vita virtuosa. Negli ultimo mesi non aveva certo dato esempio di vita santa, né aveva atteso al proprio perfezionamento secondo le regole del Vangelo  e dei sacri canoni e ciò lo tormentava. Chi abbraccia la vita ecclesiastica, se lo fa chiamato da Dio e con retta intenzione, può sempre confidare sulla sua vicinanza consolatoria. Lui non aveva scelto il sacerdozio per ambizione, avarizia o amore di agi, comodità ed onori. Non era entrato per una porta falsa nella casa di Dio. Si era fatto discepolo di Cristo per accrescere la sua virtù e la santità della sua vita. Non pretendeva tesori e ricchezze terrene. Il suo tesoro era Cristo. Come la verga di Aronne, davanti al tabernacolo, il suo cuore si era vestito di fiori, di frutti e di ferventi parole. Anche se si era discostato dall’Oriente della Grazia ed era diventato prigioniero delle febbri del senso e della carne, Cristo rimaneva per lui il vero bene della vita.

La bontà divina è più grande di ogni malizia, perciò, se si fosse pentito della sua perdizione, sarebbe stata pronta a rimetterlo.

“ Quid faciendum?” aveva chiesto il Pontefice Gregorio nell’omelia decima, da lui composta sopra la prima ai Corinti.

“Ingemiscendum!” Occorreva chiedere perdono piangendo a dirotto il suo ardire temerario e pericoloso.

Avrebbe accresciuto i suoi studi, corretto i suoi costumi, santificato il proprio ministero, vinto le proprie inclinazioni disordinate e viziose.

Avrebbe protestato  al Signore di voler servire ed amare Lui soltanto.

Lo avrebbe placato con umiliazioni e penitenze.

Il suo voto di castità era un freno d’oro alla propria concupiscenza. Un prezioso monile che lo legava, ma, nello stesso tempo, lo adornava.

Tante preziose catene lo univano al suo Dio.

Non avrebbe certo potuto cambiare lo stato in cui si era imbarcato. Era in ballo e doveva continuare a ballare. Prudenza. Per servire alla scena doveva fare di necessità virtù. “ Facta erat alea. Vincendum aut moriendum”.   Doveva debellare il grande amore che gli bruciava le coronarie ed abbandonare uno stile di vita che non si confaceva con la sua condizione sacerdotale.

Avrebbe fatto ricorso agli esercizi spirituali di S. Ignazio per ritrovare perseveranza e vigore.

Chiodo schiaccia chiodo. Ci voleva tutto il grande amore di Cristo per annientare il suo amore per Fantasima e per la vita. “Contrariis contraria curantur”. Le aberrazioni si curano con i loro opposti.

Sarebbe tornato alla lettura delle opere spirituali di Padre Alfonso Rodriguez e di Ludovico da Ponte.

A riacquistare vigore durevole e sufficiente nulla più giova che il leggere qualche buon libro ed il meditare seriamente e frequentemente delle cose eterne e divine.

Nessuna ora, nessun istante più a capriccio né a caso. Le sue giornate sarebbero state ben regolate. Tutto sempre a disegno.

Determinato il suo tempo per la meditazione. Quello per la lezione spirituale. Per l’uffizio divino ed il divino sacrificio. Per l’attività evangelica ed il ristoro. Tutto virtuosamente e pieno di opere sante.

Un gelido nodo gli serrava la gola. Sarebbe stato capace di sopravvivere nel  labirinto inestricabile dei suoi geometrici doveri?

Il profumo della pelle di Fantasima inebriava ancora le sue narici. Il suo calore era ancora nelle sue ossa, a dargli la dimensione del suo Paradiso e del suo Inferno viventi.

Sarebbe stato possibile reinnamorarsi della dolcezza e della soavità delle virtù religiose? Dio avrebbe inzuccherato amorosamente la sua vita a tal punto da far morire la sua follia? la sua sete di libertà?

La libertà finisce sempre per trovare dei limiti ineludibili nei doveri.

Se si fosse fatto medico non avrebbe avuto il dovere di soccorrere ed assistere gli infermi?

E se si fosse fatto soldato? Non avrebbe avuto il dovere di uccidere e rischiare la pelle per salvare altre vite? Persino se fosse diventato un clown, un volgare pagliaccio da circo equestre, avrebbe avuto il dovere di far ridere gli spettatori.

Ogni sera. Anche quando il magone della nostalgia e della tristezza si voleva stendere sui suoi occhi.

In ogni caso avrebbe dovuto mettersi in registro. Adattare il tempo e le abitudini al ruolo esercitato. Al suo padrone. Tutti finiamo per obbedire ad un padrone. Più o meno visibile ed esplicito. Più o meno tirannico. Più o meno consapevolmente. Ogni libertà è solo un’arrogante illusione. Tanto valeva un padrone maestoso come il suo Dio. Totalitario e pretenzioso, ma capace anche di esaltare speranze e sicurezze.            

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVII

 

 

 

Debolezze senili.

 

 

Onofrio riteneva che un uomo che si mostrasse esitante nel pericolo non valesse una noce secca. E lui non sapeva neanche spiegare che significasse la parola noce. Quando il Vescovo lo aveva spedito in missione a rimorchiargli il Clero, di nascosto, attraverso una viuzza, aveva fatto un giro sino al giardino annesso alla parrocchia. Aveva spalancato la porta del giardino, che dava sulla viuzza, e di lì aveva tirato fuori tutta la banda: uomini e donne. Dopo aver sottratto all'assedio la sua soldataglia, e averla messa al sicuro, andava avanti ad incasinare le cose finché di tranquillo non ci sarebbe più niente. Sapeva bene che non c’era modo di tener nascosti questi casini al Vescovo ed aveva anche ipotizzato di  giocare di anticipo, di prenderlo alla sprovvista e stipulare un accordo. Ma, mentre perdeva tempo a rimuginare, la porta incominciò a cigolare e vide riapparire don Alfio. Dal suo sguardo accigliato Onofrio ebbe la sensazione che tutto il suo castello di imbrogli fosse stato scoperchiato e che i fantasmi fossero divenuti visibili e trasparenti. Era tempo che anche lui pensasse ai cavoli propri. Monsignor Petrone covava sentimenti di rabbia e di vendetta. Si sentiva tradito nella sua fiducia e nei suoi affetti. Spellato vivo.  Con l’aiuto dei servitori di Biagio pensava  di acchiapparlo, mettergli rapidamente le manette e consegnarlo alla giustizia, dopo avergli spellato la schiena, come dovuto. Doveva prenderlo giocando di fino, non appena fosse rientrato. No, non glielo avrebbe mostrato subito, l'amo;  avrebbe lanciato il filo poco a poco. Asinus asinum fricat. Avrebbe continuato a far finta di non saper niente di niente. Ma Onofrio sapeva con che razza di carogna avesse a che fare! Non si poteva trovarne uno più furbo di lui a Sambuca di Sicilia. A lui nessuno poteva dargliela a bere più che a un sasso.  Se lui ci aveva provato non era perché lo avesse sottovalutato, ma semplicemente non aveva avuto altra scelta.Vedendolo cupo ed impaziente, come in sua attesa, decise di abbordarlo.

- Vengono dai campi tutti i fedeli ed il Clero. Sarà subito qui anche Don Adalgiso.

Monsignore lo accolse con il più ipocrita dei sorrisi.

- Per tutti i Tabernacoli, arrivi da me proprio a proposito. Ho idea che il nostro vicino sia uomo sfrontato e disonesto… capace di rimangiarsi la parola.

Il suo tono pacato e riflessivo lo allarmava. Qualcosa gli lasciava intuire che il Vescovo voleva tendergli una trappola. Onofrio si pose subito sulla difensiva.

- Perché? Cosa va mai farneticando?

- Dice, lui, che non vi conosce e che voi non gli avete dato nemmeno mezzo Euro.

- Dice che non...Via, lei mi sfotte. Non credo che lui possa negare… una … roba… così evidente! Lo so, lei stai scherzando, ora. Perché lui non nega di sicuro.

Monsignore assumeva un’espressione contrita.

- Invece sì che nega. E dice anche che non l' ha venduta a Don Adalgiso, la casa.

- Ed osa sostenere anche che non gli furono dati gli Euro?

- Sicuro. Ed assicura anche che confermerà con giuramento, se glielo chiedo, che non ha venduto la casa e che non ha ricevuto la pecunia. È proprio così che mi ha detto.

Onofrio faceva finta di cascare dalle nuvole.

- Che bugiardo sfrontato!E se io andassi in tribunale contro di lui? Dia l'ordine di citare quell'uomo per rivendicare la proprietà della casa.

Monsignore si fece serio e deciso.

- No, la prima cosa che pretendo è di conoscere la verità su Fantasima e Chimera.

Onofrio ormai vedeva restringersi ogni residuo spazio per camuffare la verità. Preoccupato  di qualche gesto inconsulto cercava rifugio sull’altare.

- Penso proprio che sia giusto e opportuno.

- Perché ti allontani? Perché ti rifugi sull'altare?

Onofrio voleva chiedere aiuto ed ispirazione a tutti i Santi, ma, intanto, per guadagnare tempo, alimentava la schermaglia.

- Non capisce un fico secco!. Perché i fantasmi non possano rifugiarsi qui emettersi a ballare. Io starò qui di presidio, in modo che l'inchiesta non si inceppi.

Il Vescovo aveva un gran desiderio di mettergli le mani addosso, ma lo inibiva la voglia di mantenere decenza ecclesiastica, compostezza e gravità nel comportamento.

-Togliti di lì.

Onofrio gli leggeva negli occhi le cattive intenzioni.

- Manco per idea.

Monsignore era consapevole di non potersi lasciare andare. Ad un uomo di Chiesa non si addicono gli sfoghi d’ira, quanto i vestiti pomposi e vani o le risate sgangherate - Per favore, non tenere occupato l'altare.

- Perché?

Il prelato non era secondo a nessuno nell’arte della dialettica. Bandite le oscenità, le detrazioni, la scurrilità  e controllate le maldicenze, il suo parlare risultava sempre onesto ed edificativo.

In Chiesa le sue parole erano santuari di onestà e di gravità, ma con Onofrio non rinunciava al motto arguto ed equivoco.

- Perché io voglio proprio  che loro si rifugino lì. Nel processo, mi sarà molto più facile farlo condannare al pagamento.

Onofrio tentava di far leva sulla sua tirchieria.

- Faccia quel che ha da fare. Ma perché vuole incasinare la faccenda? Lo sa bene che fregatura sono i processi. Costano un mucchio di quattrini ed, alla fine, anche chi vince ne esce con le ossa rotte. Se ne è convinto anche Di Pietro che li istruiva!

Quel delinquente cercava di sfuggire dalle sue grinfie. Il Vescovo cercò di tranquillizzarlo e di farlo accostare più vicino. Voleva essere uno sciame d’api radunate a far miele e non un mucchio di vespe accorse a succhiare una carogna imputridita.

- Togliti di lì … avvicinati… perché mi pare opportuno consigliarmi con te.

Ma Onofrio era furbo e diffidente. una vita passata a dare fregature al prossimo lo aveva immunizzato dal rischio di riceverne.

- Anche da qui le darò i miei consigli. Quando sono seduto io ragiono meglio. E poi i consigli che scendono dai luoghi sacri sono i più attendibili.

- Muoviti e non scherzare.  Guardami bene in faccia.

I suoi occhi erano insidiosi e penetranti.

- Ecco, l' ho guardata.

Aveva sempre il fascino magnetico di chi è avvezzo ad esercitare il potere.

- Vedi?

Non restava che tentare di rabbonirlo. Di indirizzare la sua furia in altre direzioni.

- Vedo. Tutto vedo ancora, per mia disgrazia! Qui, tra noi, se si mette di mezzo un terzo, creperà di fame.

Quel disgraziato! Lo aveva tolto dalla strada, sfamato e istruito. Gli aveva dato un tozzo di pane dignitoso. Non si sarebbe mai aspettato che l’avesse ingannato.

- Perché?

- Che potrebbe guadagnarci lui? Per tutti i cardi rinsecchiti, noi due siamo troppo astuti.

Il Vescovo lo sapeva bene. Non aveva mai messo in discussione la sua furbizia. Per questo gli aveva dato le chiavi della sua Chiesa e della sua casa. A lui e a don Adalgiso. Una fiducia illimitata. Una pugnalata da loro era un taglio da cui rischiava di non potersi riavere.

- Io sono morto.

Onofrio era consapevole di dovergli tanto. Tradirlo poteva anche andar bene, ma non voleva perderlo per sempre.

- Che le prende?

Monsignor Alfio Petrone lo fissò intensamente, con risentimento e rabbia, ma con un profondo senso di frustrazione.

- Me l' hai fatta.

- Come?

- Mi hai proprio spremuto come un limone.

Onofrio era abituato a far finta di non capire.

- E lei non è contento? Ha forse il moccolo al naso?

Monsignore non resisteva più oltre a sbattergli in faccia la sua verità. A smascherare lui ed i suoi imbrogli. Le derisioni e le beffe non si fanno mai senza disprezzo, perciò lui si sentiva disprezzato e miserabile.

- No, non ce l' ho, perché tu dalla mia testa hai spremuto anche il cervello. Errare humanum est, perseverare autem diabolicum. Eh sì, le vostre malefatte, tutte quante, io le ho scoperte sino alle radici. Anzi, fin sotto le radici, per tutte le Cattedrali siciliane! ma lascia che ti metta le mani addosso e vedrai di che pasta è fatto il tuo Vescovo!

Onofrio saltellava ancora più in alto. In effetti quell’omone, quand’era così adirato, gli faceva tremare persino i capelli. Era preferibile mantenersi a distanza di sicurezza.

- Per tutte le spighe assolate! Oggi, se io non consento, nessuno può mettermi nelle sue grinfie.

- Pensi di essere al sicuro lassù? Razza di boia, ora faccio portar qui sarmenti e fuoco, tutt'intorno a te.

Onofrio provava a sdrammatizzare. Aveva coraggio e spregiudicatezza, ma anche sangue freddo.

- Non lo faccia, la prego. Sono più saporito a lesso che in arrosto!

Il Vescovo ormai non controllava più la sua ira. Se la morte ci toglie la vita dell’anima, se i peccati ci sottraggono la vita spirituale, consistente nella Grazia santificante, Onofrio, con le sue beffe, aveva attentato alla sua vita civile, alla sua fama di persona accorta ed avveduta, insomma a quella stessa identità faticosamente costruitasi negli anni.

- Ti arrostirò vivo. Farò sì che tu sia citato come esempio negli Annali della nostra Diocesi.

Il sacrista era capacissimo di celiare anche nelle situazioni più drammatiche.

- Mi prende ad esempio perché le piaccio?

Ma Monsignore ormai mirava dritto allo scopo. Non si lasciava fuorviare dal suo spirito di patate. Si sentiva pizzicato di latrocinio ed omicidio. come un serpente triforme, Onofrio aveva trafitto le sue tre vite.  

- Parla. Don Adalgiso, quando sono partito, come te l' ho lasciato?

Più cresceva in lui la fifa e meno la esternava.

- Con i piedi e le mani. Con le labbra e gli orecchi. Con gli occhi e le dita.

- Ben altro ti sto domandando, furfante!

- Ben altro le rispondo, adesso.

Ribatteva con prontezza Onofrio rincuorato dall’arrivo di un'amica di don Adalgiso, Fantasimona, un valente avvocato, che aveva partecipato attivamente alle loro baldorie. Aveva appena smaltito, con una bella dormita, tutta la sua sbornia, e  sepolto il suo sballo che Don Adalgiso era andato a trovarla, per dirle che dalla Palestina era ritornato il Vescovo. Il prete, che era in uno stato comatoso, le aveva spiegato come il suo sacrista lo avesse bidonato al primo incontro e le aveva confessato anche che aveva paura di apparire al cospetto del Vescovo. Infine  l’aveva scelta da tutta la compagnia come sua unica paladina, per ottenergli il perdono di Monsignor Alfio Petrone. Don Adalgiso faceva affidamento sulla sua abilità oratoria, ma anche sul suo aspetto avvenente, a cui il prelato non era insensibile. Appena gli fu vicina Fantasimona gli rivolse un cordialissimo benvenuto. 

- Le auguro salute, Monsignor Alfio Petrone, e, poiché è arrivato sano e salvo da Gerusalemme, me ne rallegro. Oggi, qui, lei cenerà insieme con noi. Mi dica di sì.

Per Monsignore era naturale rispondere con cortesia ad una gentilezza, ma non riusciva  a frenare la sua amarezza. 

- Che Dio ti favorisca, Fantasimona. Ti ringrazio della cena, ma, tra Fantasime e pacchi, mi è passata la fame!

Fantasimona era preparata ad insistere. Tutte le questioni spinose si dirimono più facilmente davanti ad un piatto di spaghetti Barilla.

- Non vuole venire?

Onofrio si intrufolava con la faccia di bronzo che si trovava a disposizione.

- Accetti. Se lei non ne ha voglia, ci andrò io.

Lo avrebbe strozzato con le sue stesse mani. Sarebbe stato un piacere ineguagliabile stringergli la gola fino a fargli mancare l’aria e quella voce melliflua e impertinente. 

- Tu, faccia da schiaffi, pelle da frustate, ti permetti di sfottere anche? Solo perché hai zampette da canarino non significa che tu sappia anche cantare!

Onofrio sapeva che il miglior modo di fargli passare la bile erra quello di fargliela buttare tutta fuori. Più lo stuzzicava e più gli dava occasione di sfogarsi.

- Ce l' ha con me perché mi offro di andare a cena al posto suo?

Monsignore cascava sempre nelle sue trappole.

- No, non ci andrai. Ti farò mettere in croce, come meriti, disgraziato e dissanguato!

Fantasimona metteva in moto tutta la sua arte oratoria, non disdegnando di aiutarsi con la sua formazione umanistica e di creare un intreccio processuale in cui la nominazione non cessava di misurarsi con una realtà in sé inaccessibile e muta.

- Lasci perdere il morfema dis!  È dannato e malefico dovunque lo incastri. Guardi: occupazione diventa disoccupazione; gusto disgusto; uguaglianza disuguaglianza; unione disunione; ordine disordine; persino l'amore si trasforma in disamore! Si rilassi! venga da me, a cena...

Onofrio era pronto a scimmiottare.

- Gli dica che ci sarà. Ma perché tace? Paventa qualche disavventura?  O vuole la disgregazione della sua Chiesa , con il suo comportamento disumano?

Fantasimona ne aveva anche per lui, che vedeva rannicchiato sull’altare.

- Ma tu, Onofrio,  perché ti sei rifugiato lì sull'altare? Temi qualche disgrazia?

Onofrio diventava innocente come un agnello e si rivolgeva al Vescovo come  ad un torturatore di professione.

- Questo birbante di Monsignore mi ha fatto paura, al suo arrivo.  Lei adesso gli dica che cosa ho fatto. Eccola qui l'arbitro fra noi due. Per conto mio mi affido completamente al suo giudizio.

Monsignore provò a spiegare le sue ragioni alla conturbante fanciulla.

- Questa peste ha corrotto il mio parroco. È così repellente che perfino i lampioni si spegnerebbero vedendolo!

Onofrio si rendeva conto che bisognava fare qualche concessione alla verità.

- Ascolti un po'. Confesso che Don Adalgiso è caduto in fallo, che in sua assenza ha risuscitato una Fantasima, che ha contratto un mutuo ad interesse, e aggiungo che ha speso tutto quanto. Ma che ha fatto più di quel che fanno i buoni Vescovi e Cardinali di Santa Madre Romana Chiesa? Ci sono solo due categorie di persone che possono sbagliare una volta sola:paracadutisti e vergini.

Nelle parole del sacrista il Vescovo finiva per riconoscere una parte di se stesso. Anche lui era stato succube della lussuria, il vizio più ingiurioso al corpo di Cristo. L’impudicizia aveva macchiato  il suo giovane corpo. Toccando l’ostia consacrata da immondo, aveva avvertito una scarica simile alla sciagura del levita Oza. Magari quello era un Petrone di molti anni più giovane. Magari la parte peggiore e più inconfessabile. Quella sua diabolicità in qualche modo gli apparteneva. E questa consapevolezza rischiava di disarmarlo.

- Per Dio, con te bisogna stare in guardia. Se ti metti a parlare come un avvocato sei troppo furbo e persuasivo! Hai una bocca così grande ed invitante che, quando la apri, ti scompaiono le orecchie!

Fantasimona cercava di guadagnarsi il suo ruolo estromettendo il sacrista dalla discussione.

- Permetta che sia io a giudicare. Onofrio, tu levati di mezzo; qui mi metto a sedere io. Tu stai zitto che è meglio per te.

Monsignore era incantato dalla bellezza e dalla squisitezza della ragazza, ma era anche sfinito e incapace di procedere ulteriormente. In un angolo della Chiesa intravide anche il suo pupillo, don Adalgiso, abbracciato con una bellissima fanciulla dai capelli biondi e questo spettacolo gli faceva guastare maggiormente il sangue. Data la distanza poteva solo indovinare la curva delle sue spalle, a tratti l’ombra ingannevole del suo fianco, ma ciò bastava a procuragli una sensazione di malessere. “Qui fornicatur, peccat in corpus suum” ammoniva San Paolo. Don Alfio avvertiva di trovarsi di fronte ad un mistero. Alla propria vulnerabilità. A qualcosa di oscuro che si annidava dietro questa stessa vulnerabilità. Poco più di un’ombra della vita. Sospesa nei suoi occhi attoniti. Percepiva la propria ferita mortale. Percepiva oscuramente la propria morte dentro la stessa vita. Si sentiva svuotato. Uguale a zero. Incapace di guardare serenamente nel futuro. Remissivo. In un attimo di sospensione. Nella terribile tragedia di sentirsi fuori posto. Privo degli involucri di protezione consueti.

- Ottimamente. Assumi tu l'incarico di giudicare. Dura lex sed lex. Delle altre cose poco mi curo ... ma non della maniera con cui mi ha bidonato. Sento ancora strida di catene e fragore di pentole rotte!

Onofrio, con la sua inguaribile diffidenza era perplesso di lasciarle carta bianca, temendo che ci potesse essere una trappola,  ma, se voleva salvare capra e cavoli, non aveva alternative praticabili, perciò si limitò a rivolgere a Fantasimona, che lo zittiva, un’occhiataccia minacciosa e supplichevole ad un tempo. Non aveva rimorsi per  quanto aveva ordito contro Sua Eminenza. Era consapevole di averlo bidonato a regola d'arte e si compiaceva di averlo fatto. Quelli della sua età, con i capelli bianchi, dovevano procurarsi un po' di sale in più per le loro zucche. Non potevano ingoiare intere tutte le banane che gli si ficcavano in gola! Così mal ridotto, indeciso, intontito e bidonato , se avesse sparato all'aria, l’avrebbe mancata! Fosse stato amico di Pirandello, Martoglio, Randazzo gli avrebbe consigliato di confessargli in che modo il sacrista suo lo avesse bidonato. Gli avrebbe dato, per le loro commedie, bellissimi esempi di bidone.

Fantasimona sentiva che era il suo momento. Doveva trascendere i limiti della parola. Varcarne le soglie. Gli si rivolse con dolcezza, puntandolo con i suoi occhi possessivi e penetranti.

- In un secolo di violenze, stermini, chiusure, muri, odi ed indifferenze può ancora essere considerato un peccato un amore? Anche il più trasgressivo o innaturale? Dio non ha da preoccuparsi di colpe ben più gravi e pericolose per l’umanità?  Ascolti. Non sia troppo severo con gli altri e con se stesso.

Non poteva fare altro ormai. Scompariva e crollava sotto il peso del dolore.Andava avanti alla cieca. Come acqua gettata di rupe in rupe. Nell’incerto. ma non riusciva ad acquetarsi davanti all’immagine del suo pupillo perduto tra le braccia di una Fantasima, nè poteva persuadersi come un sacerdote cattolico, che aveva fede nella reale presenza di Cristo nell’ostia consacrata, potesse essere così ardito da accostarsi al misteri dell’Eucaristia con l’anima ammorbata di lascivie. 

- Ti ascolto. La mia testa era qua fino a poco fa. Se la cerco di qua, è volata di là. Non so più dove sta!

Fantasimona non poteva prescindere dalla verità dell’accaduto, per aprire spazi all’irrappresentabile e all’impensato che l’attraversava e che, nei suoi vuoti, nelle sue cesure, nelle sue cancellazioni, non aveva mai finito di esprimersi. La pietà presuppone sempre la verità, perciò ha un costo così alto che molti le preferiscono l’odio e il disprezzo, figli legittimi della mistificazione.

- Anzitutto lei sa che sono amica del suo parroco, il quale si è rivolto a me perché si vergogna di comparire al suo cospetto, dato che sa bene che lei è al corrente di tutto ciò che ha combinato. Ora io la supplico: perdoni alla sua stupidità e alla sua giovinezza. È  suo discepolo. Sa bene che alla sua età si fanno simili giochi. Tutto ciò che ha fatto, l' ha fatto insieme con me: noi abbiamo sbagliato. Prestito a interesse, tutte le spese che lui ha fatto per godersi la Fantasima Saracina, noi le renderemo, noi le salderemo, a carico nostro, non suo. Lei crede veramente al peccato? Non pensa che, se Dio ci ha fatti come siamo, sapeva ciò che faceva?

Le sue parole lo sconvolgevano. Orrore, bellezza, sublime e banalità si sommavano e si accordavano nel suo sorriso confuso, che nascondeva un singhiozzo di pentimento. E lui, in fondo, era un buon Padre. Era sensibile ai pentimenti.

- No, non poteva presentarsi a me oratore più irresistibile di te. Non sono più in collera con lui e nemmeno sdegnato. Dirò di più: faccia, in mia presenza, ciò che gli pare, amando e bevendo. Se prova vergogna per quanto ha dissipato, la pena per me è sufficiente. Come nota il Cartusiano, ai Sacerdoti non si addicono le pene del Purgatorio: o sono buoni e vanno subito in Cielo o il vizio del senso li sprofonda nell’Inferno. Se Dio ti concede di spegnere l’incendio della tua coscienza, l’ardore libidinoso che ti corrode e ti rende arido, insensato ed insensibile alla tua miseria, per quanto mi riguarda,  Adalgiso, sei perdonato. Quanto alla Fantasima …. per tutti noi … sarà come se non sia mai esistita. Il ritorno all'oblio sarà la sua vera pena.

Fantasimona insisteva sulla breccia apertasi.

- E lui si vergogna profondamente, vero Adalgisuccio? In fondo chi è stata per lui Fantasima? Solo un mezzo per aiutarlo a guardare la realtà. In realtà,  a noi Fantasime non serve la monotonia del vostro tempo. Ci basta infilarci a folate nella vostra vita.

Onofrio guardava con sospetto a questo clima idillico. Non voleva restare ultimo a pagare il conto. 

- Dopo tanta clemenza, che mi succederà?

Monsignore ritornava ad accendersi e, a stento, frenava le maledizioni che gli venivano spontanee, ma che non si addicono al parlare degli Ecclesiastici: chi mangia il Pane Angelico dovrebbe usare solo parole pudiche e civili, ma con il sacrista era utopistico controllarsi!

- Se vuoi ridurre l'inquinamento atmosferico, smetti di fiatare! Tu, immondizia, sarai appeso e distrutto a suon di bastonate.

Onofrio era un camaleonte. Conosceva anche i colori della contrizione.

- Anche se provo tanta vergogna … anch'io? Prego sempre … a casa …

Ma don Alfio non si lasciava incantare più dalle sue repentine metamorfosi. Non gli sembravano credibili.

- A casa tua non ci sono Santi da pregare. Persino i topi e gli scarafaggi si rifiutano di abitare sotto il tuo stesso tetto! Per tutte le prediche delle sette parole, io stesso ti accopperò, se sopravvivo a questo dispiacere!

Fantasimona aveva capito ormai di esercitare un grande fascino sull’anziano prelato e non si accontentava di una vittoria dimezzata.

- Ma mi faccia il favore! Lasci stare i dispiaceri!  Faccia che il suo perdono sia totale: gli faccia la grazia, la prego, per la sua colpa. Per amor mio!

Monsignore era confuso. Se la sua capoccia fosse stata un serbatoio, la spia avrebbe indicato il vuoto

- Rinunciare a punire questo furfante per le sue furfanterie? Piuttosto mi lascio convincere a cederti su altri versanti!

- La supplico, lo perdoni. ... Onofrio ha un cervello così piatto che le mosche lo usano come campo d'atterraggio!

- Ma non vedi come continua a mostrarsi  insolente, questo pendaglio da forca? Ab uno disce omnes. 

L’avvocatessa non esitò ad investire il sacrista.

- Piantala, Onofrio, se hai un briciolo di cervello. Ti rendi conto che tutte le volte che respiri muore una persona?

- Piantala tu di sollecitare il mio perdono. Perché non ti sciacqui la bocca con un buon  acetobis? Lo metto a posto, io, a suon di bastonate, questo cornuto e figlio di buona madre!

Onofrio non rinunciava alla sua identità. Nella vita non aveva mai preso niente sul serio e non gli pareva dignitoso cominciare alla sua età. E poi non poteva umiliarsi davanti a  Crocifissa, che sicuramente stava origliando, di soppiatto, in qualche angolo buio. 

- Ma non ce n'è bisogno…. Sono già in un posto sicuro!

Fantasimona non solo conosceva l’arte della parola, ma sapeva associarla al suo contagioso calore

Suvvia, Monsignorone mio, mi dia il permesso di pregarla, magari carezzandole il mento!Lo perdoni pure questo baccalà!

Il prelato stava riacquistando tono e buon umore. Si sentiva sciogliere sotto le sue dita come agitato da un incontenibile estro libidinoso.

- No, non voglio che tu mi preghi. Anche tra i cristiani, come tra i pesci, i baccalà sono più dei pescecani!

Fantasimona non mollava l’osso. Lo avrebbe spolpato fino al suo cedimento totale.

- Per tutte le anatre selvatiche, la prego! In fondo è stato un peccato di complicità in amore … e lei dovrebbe sapere che l'amore…

Monsignore conosceva bene l’amore. Quell’incendio totale dei sensi e della mente, da giovane, non gli aveva dato tregua. Aveva sperimentato l’attesa di un avvenire puro, senza progetto né piano. Quelli protetti dal suo sacrista non gli sembravano amori veri. 

- Lussuria, solo sporca e volgare lussuria ha assecondato! Insieme a povertà, aridità, alcool, droghe, vuoto. L'amore non è brodo di ceci! É mancanza, bisogno, insufficienza che genera straordinaria ricchezza interiore. Un evento fuori dal mondo. La sua stessa apparizione è un atto infondato che trova insopportabile il gesto della ripetizione, della regola che ribadisce se stessa. Chi sacrifica la coscienza alla passione brucia un albero fruttifero. Ci si innamora sempre del vuoto. In ogni inciampo. In ogni paradosso. Ripeto che non voglio che mi preghi. Credo nei tuoi occhi innocenti. Excusatio non petita,  accusatio manifesta. 

Fantasimona si sentiva vicinissima al traguardo.

- Innocente come un'agnellina sono io! Non vuole cedere? È inutile. Gli conceda il perdono per questa sua unica colpa, la prego. Lo faccia per amor mio.

Onofrio non rinunciava a portare altra acqua al proprio mulino.

- Perché rifiuta? Come se già domani non potessi combinargliene un'altra! Allora lei potrà, e giustamente, vendicarsi di tutte e due le colpe … di questa e di quella!

Fantasimona  si avvicinava sino a sfiorarlo. La sua carezza era una spaziatura tra il desiderio che attivava ed il compimento di un sogno e risultava un enigma, una tempesta per don Alfio. Alla sua età anche il senso che scaturiva dal corpo di lei gli dava un senso di possesso e di appagamento.

- Su, lasci che io la sciolga! Si distenda! Si lasci intenerire!

Come tutti gli uomini di Chiesa, quando si vedeva perso ed il suo pensiero diveniva confusivo, si rifugiava nel suo Latino, per impartire ad Onofrio la benedizione sulla testa.

- Spesso più che la convinzione è l'astinenza che ci fa fare una dissolvenza! E sia! Inginocchiati! Te absolvo de omnibus et de omnibus, cum omnibus pretibus! Suvvia, vattene! Vattene impunito. A lei dovete dir grazie tutti quanti …. alla sua malìa! Non c'è legge, né religione che resiste al suo impeto travolgente. Piegati giunco che passa la piena! <!--msnavigation--></TBODY>

Fantasima stringeva la mano di Adalgiso, che si faceva sempre più gelida. La sua mano porgeva tutta se stessa, ma non riceveva niente dall’altra. L’amore del prete si scioglieva proprio come morbida neve. Ormai per lui era solo un sogno impalpabile. Neanche la vedeva. Non percepiva più nemmeno il suo calore. Il suo bellissimo viso diveniva pallido e smunto. Le sue tempia erano contratte, con gli occhi concentrati, foschi e macilenti, e con il naso e le labbra ritirate. Avrebbe voluto trasformarsi in una lumaca per disegnare sul corpo amato bavosi percorsi da lasciare essiccare alla luna. O in chirurgo per intagliargli la pelle e insinuarglisi dentro, intrecciando le loro costole, i polmoni, in un’osmosi di tessuti, fino a squamare insieme. Avrebbe voluto urlargli disperatamente il suo immenso amore, ma la sua lingua era ingrossata, secca ed infiammata e non riusciva neanche a tartagliare una sillaba. Stava tornando a sprofondarsi nella prigione di oblio della sua Storia. Fuochi e fulmini avrebbero sprizzato da sotto le sue unghie. Scompariva per liofilizzazioni minuscole e per emulsione del suo corpo. Si svuotava come una clessidra penetrata dai raggi cosmici. Su un bianco cavallo svolazzava su morbide colline verdeggianti, circondata da nanetti festosi che saltellavano tra papaveri e margherite. I suoi occhi, a tratti, sembravano lucenti fuori modo, invetriati o appannati; quello destro era più aperto del solito, mentre il sinistro si rimpiccioliva maggiormente e lacrimava. Guardava fissa ed attonita o cercava di eclissarsi, come spaventata dal chiarore del sole. Tornava Fantasima di nome e di fatto. Di sogno e di fantasia.  Si cristallizzava nella sua dimenticanza. Di dentro avvampava di calore, ma un sudore crescente le infrigidiva la fronte giallognola e le illividiva le labbra; i pori della bianca pelle erano aperti, respirava con affanno l’aria e tremava da una spalla. Torceva la bocca e stralunava gli occhi, crespi dal di dentro, con un giro violaceo intorno al nero della pupilla. La notte della morte rientrava prepotentemente nella sua esistenza per riportarla nell’infinito notturno, in una luce imperturbabile e senz’ombra. Pazienza! Occhi luccicanti alla luna! Aveva solo da sperare che il prossimo prete della Chiesa Madre si incantasse per il suo candore di Fantasima Saracina!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XVIII

 

Guerra Santa.

 

Dalle inferriate della cella in cui l’avevano rinchiusa si inquadrava uno spicchio di cielo inequivocabile per le sue delicate strisce di rosa che sfumavano in un celestino chiaro, terso, senza una nube. Non c’era un alito di vento a muovere la cima spennacchiata di un ontano, che si sovrapponeva ad un ornello esile ed elegante ed ancora, sullo sfondo, ad un alto mandorlo, dalle foglie esili, di un verde debole, già striato del giallo del prossimo autunno. Milù assaporò l’aria fresca ed inconfondibile dell’alba della sua nuova terra, confermata da numerosi chicchirichì di galli, da qualche parte, in qualche cortile. Non l’avevano portata lontano i sei cavalieri che, con un’ incursione inaspettata, l’avevano prelevata da Rahl al Marah , durante la sua solitaria passeggiata pomeridiana sotto l’ombra ristoratrice del querceto. Dopo averla bendata, avevano cavalcato solo  qualche minuto e piuttosto speditamente. Il tempo di  arrivare a Chabuca. Qui le avevano tolto le bende, l’avevano fatta scendere in basso, attraverso una scala a chiocciola e poi l’avevano fatta procedere  a lungo attraverso un dedalo di camminamenti. Dai passi e dall’animazione che percepiva in lontananza, all’esterno, doveva trovarsi ancora sotto una delle sette vaneddi. Probabilmente i rapitori non se l’erano sentita di attraversare la campagna, tra le tende in cui erano accampati i guerrieri saraceni e l’avevano rinchiusa negli stessi Vicoli, in qualche seminterrato di qualche loro fedele alleato, incuneato nel quartiere controllato dai Saraceni. Milù non aveva alcun dubbio sul mandante del suo rapimento e sapeva che non ne avrebbe avuti neanche il suo amico  e protettore, il Principe di Adranone. A quest’ora aveva senza dubbio sguinzagliato i suoi uomini sulle sue tracce. Solo che l’avrebbe cercata verso la torre di Pandolfina. Difficilmente avrebbe potuto immaginare che la tenessero prigioniera così vicina al luogo del suo rapimento. Un oscuro presagio di sconfitta la attanagliava. Non avrebbero fatto in tempo a salvarla. Era irremidiabilmente perduta tra le tenebre. Sepolta viva. Gettata su una fascina di paglia. Interrata. Murata. Chissà quanto tempo sarebbe trascorso prima che stanassero i suoi sequestratori. Avrebbe fatto una fine precoce e la sua morte avrebbe riacceso odi e conflitti tra Cristiani e Saraceni. Integralisti  e fondamentalisti degli uni e degli altri sarebbero prevalsi ed il sangue sarebbe tornato ad inondare le vallate del Rincione e del Carboj. Da tempo incalcolabile una goccia d’acqua si staccava dalla volta ammuffita e ritmicamente cadeva fino in una pozzanghera, quasi a scandire i minuti.  Ad un tratto sentì dei passi che si avvicinavano.  La chiave girò nella serratura, la porta stridette sui cardini arruginiti e  si spalancò. Erano i sei uomini armati che l’avevano rapita. Uno si avvicinò e tornò a bendarle gli occhi. Immaginava che dovessero portarla in qualche altro nascondiglio. Stavolta le legavano le mani dietro la schiena.

- Non ce ne è bisogno - protestò - Dove mai dovrei scappare camminando con gli occhi bendati? -

- Non dovrai affatto camminare - le rispose una voce cupa e metallica.

- E allora perchè mi legate e bendate ? Mi sento soffocare ... - fece appena in tempo a domandare che un brusco strattone sbrindellò la parte superiore della sua camicia.

- Ecco ...  così ... sei più libera - ridacchiava un’altra voce sardonica.

- Ti copriamo qualcosa  e te ne scopriamo un’altra più interessante. Hai due tette tonde come pomi. - osservava un altro - accostandovi la punta della sua spada.

- Non fatemi del male ... altrimenti la pagherete! - esclamava subito pentita delle sue parole.

- Osi pure minacciare? E chi dovrebbe farci pentire? il tuo Principe di Adranone - si arrabbiò una voce più stridula - Quel rinnegato non ha né il coraggio, né la forza, né l’intelligenza di venirti a cercare qui... proprio sotto i suoi piedi! E se verrà gli farò assaggiare questa spada - E con un taglio netto le lacerò la parte inferiore della veste.

- Per favore, sento freddo! - tremava Milù.

- Ascoltate! Sente freddo la piccola! Perché non proviamo a far innalzare la sua temperatura corporea? -

Adesso tremava anche di paura. Sentiva anche puzza di vino nell’alito del tizio che le si accostava e le serpeggiava sul collo con la lingua .

- In nome di Dio... abbiate pietà - supplicava ritraendosi.

- Non hai conquistato il diritto di invocare Dio solo perché ti sei arrotolata tra le  lenzuola di un Principe cristiano. Neanche il tuo Allah ti può dare ascolto, poiché anche lui hai tradito ed offeso ... - incalzava la voce di quello che, sin dall’inizio, le era sembrato il capo.

- Ma io mi sono innamorata del Principe di Adragna e l’amore non conosce limiti, né di condizione, né di razza, né di fede... lo afferma anche la mia shari’a... -

- Il tuo Principe è solo un vile rinnegato, perciò merita disprezzo e sofferenza per sé e per chi lo ama. Chiunque allontana la  legge del suo Dio per un’altra si allontana dalla verità e commette un atto di idolatria e di tirannia. -

- Comandante, non perdiamoci in chiacchiere ... facciamo quel che ci è stato ordinato e facciamolo subito! - lo richiamava un cavaliere.

- Anche perché è un ordine piacevole... non ho mai assaggiato la carne di una Principessa islamica! - 

Adesso se li sentiva addosso. Quasi a soffocarla. Uno le diede uno spintone e la fece cadere a terra. Provò  a gridare il suo schifo ed il suo terrore. Un altro le diede un pugno nello stomaco. Un altro la schiaffeggiò. Un altro ancora le tagliuzzava le mutande e le incideva il lombo destro con la spada.

- Tappiamole la bocca ... non la posso sentire lamentarsi! -

Le infilarono in bocca un pezzo delle sue mutandine lacerate. Provò a sputarlo e allora le legarono anche la bocca con un brandello del suo abito. Giaceva a terra nuda, sfinita ed indolenzita, mentre, a turno, le mordicchiavano i seni. Sentiva il sangue caldo che le si appiccicava sul fianco. La percorrevano impeti d’odio ed un sconforto d’impotenza.

- Adesso ti faremo godere più a lungo di quel rammollito del tuo Principe...-

Con tutte le sue forze residue provò a sollevare la schiena, ma era schiacciata dal corpo di un macigno nauseante e puzzolente. Riuscì a alzare appena la testa e  subito le arrivò un rovescio ed il sangue cominciò a zampillare anche dal naso. 

- Brutta schifosa! Mi hai macchiato tutta l’armatura! Vuoi stare ferma e collaborare? - mentre la colpiva ancora.

Piangeva. Lacrime salate mescolate al sangue dolciastro che le colava dal naso ... Le strappavano i peli. Si sentiva schifosamente umidiccia e sudata. La girarono su un fianco.

- Resta davanti che io la prendo dietro. Deve pentirsi di avere tentato un Principe cristiano questa cagna affamata... -

Il dolore era lancinante. Come lame taglienti che penetravano e uscivano veloci e poi la sfibravano e le sfilacciavano la pelle. Pregava Allah che la facesse crepare all’istante. Uno le tolse la stoffa arrotolata dalla bocca e glielo ficcò anche li dentro. Li sentiva anche nei buchi delle orecchie e sotto le ascelle. Il fetore dello sperma sulla guancia era insostenibile. Per sua disgrazia avevano omesso di turarle anche il naso. Raccogliendo il fiato residuo gli vomitò addosso tutto quel liquido ripugnante. Allora la colpirono ancora. Stavolta con qualcosa di duro e sulla testa. Sentì esplodersi il cervello. Era come se uscisse gradualmente dal suo corpo. Intorpidita. Gelata. Pietrificata. Finalmente stava per finire. La sua percezione era mescolata. Spezzettata. Ondeggiante. Confusa. C’era come un rumore di spada sguainata dal foro metallico, mentre usciva dalla testa. Anche se aveva gli occhi chiusi, vedeva un mare di stelle filanti scendere e salire. Una musica di cetra. Ma a singhiozzo. Non riusciva a percepire il motivo. Non più dolore fisico. Non sentiva più niente. Come se il suo corpo ormai non le appartenesse. Lei stessa si sentiva in un altro luogo. Non sapeva più. Non avvertiva più. Fuori dalle prigioni della vita. Provava un grande senso di libertà. Volava come un uccellino che lascia per la prima volta la sua gabbia. Su un bianco cavallo svolazzava su morbide colline verdeggianti, circondata da nanetti festosi che saltellavano tra papaveri e margherite. Ora la sabbia del deserto la sferzava impietosa ed aveva una sete infinita. Un’arsura micidiale. Dio è buono, ma giusto. Anche il suo Allah era giusto, ma il Dio del suo Principe Cristiano era più austero e severo. Implacabile verso i delitti contro la persona. Li avrebbe fatti crepare alla prima battaglia. Sperava sotto che fosse una morte lenta e dolorosa. Ma forse anche morire era poco. Un regalo alla loro coscienza. Se quei porci ne avevano una. Meglio qualcuno che gli tagliasse le palle. O quel coso schifoso. Per lasciarli sopravvivere. Mutilati e derisi. Sodomizzati. Invertiti. Femminilizzati. Fargli provare sulla loro carne la violenza che le facevano patire. Si sentiva spezzata. Frammentata. Dilaniata. Nullificata. Macerata in scaglie di pelle, non più ricomponibili. Niente è come uno stupro. Dà una sensazione di claustrofobia come la più angusta delle prigioni. Senza un rumore nell’orecchio. Senza uno sprazzo di cielo negli occhi.  Di febbre come la più virulenta delle infezioni malariche. Di inutilità e di impotenza. Come la schiena rotta. Senza midollo spinale. Come camminare all’indietro verso un burrone. Senza un alito di vento nei capelli. Una violenza nella volontà. Una distruzione della dignità personale. Della sua stessa identità. Un senso di vertigine. Si sentiva fredda come la morte. Un desiderio di vomitare subito e tutto. Incessantemente. Gli umori. La pelle. Il sudore. La carne. Tutto ciò che era costretta ad ingerire.

- Usciamo... Non vedi che se ne sta andando? Vuoi continuare a pompare su un cadavere? - Percepiva appena le loro parole. Come da un’altra dimensione.

- Togliamole le bende dagli occhi. Ormai non può più nuocere a nessuno -

Intravide i loro volti sorridenti e baldanzosi. Come avessero ucciso un esercito di soldati nemici. La pesante ferraglia tornò a cigolare. Fermarono la porta a doppia mandata e la lasciarono sola ad urlare dentro di sé la sua umiliazione e la sua rabbia. Nessuno poteva sentire il suo rantolo sempre più  debole. Scemava nella notte del tempo. Tra i fantasmi della Storia. Ma non si piegava alla violenza e alla morte e sognava la vendetta di un’altra vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIX

 

La purificazione

 

 

In un angolo della sagrestia erano pronti per Monsignor Petrone piviale, stola, cingolo, camice ed amitto; per don Adalgiso, in aggiunta, era stata predisposta una pianeta piegata e per don Malachia gli stessi paramenti senza la stola, in colori violacei. L’altare era stato preparato con i soliti candelieri,  Croce e paliotto violaceo sopra un altro banco. Vicino all’altare, a parte epistulae, si trovava una piccola credenza con le candele da benedirsi coperte da una tovaglia bianca. Il vaso dell’acqua santa con il suo aspersorio, il calice ed il boccale, per lavare le mani, erano schermate da un velo violaceo. Una Croce astile, il turibolo con la navicella ed un foconcino con carboni accesi erano pronti per rinnovare il fuoco. Verso le undici i Ministri cominciavano a pararsi e, ad un cenno del Cerimoniere, partivano, con il capo coperto, insieme al Vescovo, alzandogli il piviale ai lati. Don Adalgiso era teso come alla sua prima Messa. Era tentato di cedere ad un ritorno di passione, si avviliva della sua fragilità e temeva un altro disastroso naufragio, perciò era attento, vigilante e pronto  a ricacciare indietro la fola delle nostalgie che lo assaliva. San Giovanni Grisostomo lo ammoniva che, come una scintilla di fuoco, che si attacca a qualche materia combustibile, se non viene subito estinta, suscita un grande incendio, così, se non si resiste sin dal principio ad una tentazione, diviene poscia indomita e fa precipitare nel baratro dell’iniquità. Lui aveva sperimentato lo sfasamento e lo squallore di rinnegare se stesso e le sue scelte, lasciandosi travolgere dalle passioni e dai vizi. La passione per una donna può diventare orribile e corrosiva nel cuore di un prete. Non voleva tornare ad attraversare quel tunnel angosciante. L’amore non gli aveva dato serenità, ma tormento e pazzia, vitalità ed incoscienza, dubbi laceranti ed attimi paradisiaci. Era vita? Sì, forse era vita vera, ma lui non la reggeva. Per dargli felicità, esigeva un prezzo che non era stato capace di pagare. Preferiva tornare a vegetare. A navigare nelle acque quiete e riposanti dello scontato quotidiano. Nell’indifferenza dei sensi e dell’immaginazione. La radice e l’occasione delle sue tentazioni, la concupiscenza, l’avrebbe trasferita da una creatura a Dio Creatore, secondo l’insegnamento di Davide, delectare in Domino et ispe tibi dabit petitiones cordis tui.  Gli doveva bastare l’amore per  Dio a soddisfare gli aneliti del suo cuore. Fantasima sarebbe rimasta una goccia d’acqua dissetante nell’arsura della sua anima. Un sogno fuggevole, afferrato e posseduto, sino allo smarrimento totale, ma subito sfuggito. Prima che potesse avere coscienza piena di ciò a cui rinunciava. O che potesse sciuparne e profanarne l’immagine. Non avrebbe mai potuto dimenticare la dolcezza dei suoi baci mozzafiato, l’estasi degli orgasmi ricorrenti e ripetuti, il calore vitalizzante della sua pelle, quell’attrazione fatale che, tra loro, rendeva superflue persino le parole. Mai avrebbe potuto cancellare la dolcezza del suo sorriso aperto e coinvolgente, la sua voglia di vivere, contagiosa e vivificante, e le sue inspiegabili malinconie, come di un presagio oscuro, di una minaccia incombente di fine. Tante volte si era sentito così dentro di lei, nel suo corpo e nei suoi pensieri, tra i suoi capelli e i suoi profumati effluvi, nella sua coscienza e nella sua anima, da sentirsi uno in lei, con lei e per lei. Con la stessa forza e lo stesso desiderio di annullarsi di quando Cristo lo aveva chiamato alla vocazione sacerdotale. Aveva pensato che il legame che si era stabilito tra loro sarebbe stato assolutamente indissolubile ed eterno, più forte delle leggi degli uomini e di Dio, al di sopra della terra e del cielo. Invece era niente. Uno squallido niente come tutte le miserie di questa terra. Una storia senza testa nè coda. Senza senso logico nè futuro. Sgranatasi, senza neanche un’eroica resistenza, al primo impatto con la realtà. Era bastato il ritorno del suo Vescovo a riportare indietro le lancette della Storia. A ricondurre nella notte dei fantasmi i sogni delle albe e gli incantesimi dei meriggi. Solo Dio e l’amore divino può essere eterno. Il resto è sottoposto all’insidia dell’usura del tempo e dello spazio, ai calcoli degli egoismi e delle convenienze, delle opportunità e delle disdicevolezze, delle grigie  e rassicuranti certezze e delle paure di salti nel buio, al mutare del clima e delle stagioni, degli umori e delle disponibilità all’avventura folle ed incontrollabile. Muoiono le foglie alla frescura autunnale e ai rigori invernali, muoiono i delicati fiori di ciclamino e la zagara profumata degli aranci, le querce secolari e le fragili acacie squassate dall’implacabile scirocco, l’asino sonnolento tra i rossi fiori di sulla ed il leone superbo degli sconfinati spazi di sabbia, i fanciulli inconsapevoli di caducità ed il vecchio dallo sguardo senza speranza di domani. Tutto muore. Incessantemente. Inesorabilmente. La morte è così dentro la vita stessa delle cose e delle creature che non ce accorgiamo. Quando spunta un cancro divoratore e si rende visibile, è già troppo tardi. Ha già divorato la parte migliore di noi. Non restano che briciole per la felicità sulla terra. Frammenti di miti inzuppati di speranze. Spazzatura dell’autenticità sotto l’involucro di nauseanti ipocrisie. Solo l’amore in Dio e per Dio poteva ridargli la speranza e la certezza di vincere la morte della vita.  Doveva lottare, se necessario, anche con se stesso, con i suoi ricordi di felicità e con l’assalto delle sue nostalgie, nella consapevolezza che Dio gli avrebbe somministrato forza e coraggio, per essere interamente e unicamente suo.  Intanto erano giunti nel Coro, dove consegnavano le berrette al Cerimoniere e, fatte le debite riverenze alla Croce, ascendevano sulla predella. Don Alfio baciava commosso l’altare e scopriva le candele, cantando il Dominus vobiscum e l’Oremus, mentre don Adalgiso e don Malachia, dopo essersi genuflessi, si ritiravano in cornu epistulae, alquanto discosti dall’altare e con le mani giunte, e il Turiferaio si accostava all’Accolito, che recava il vaso dell’acqua santa ed il suo aspersorio. Dopo l’incensazione e la benedizione delle candele, le stesse venivano baciate e poste sull’altare. A questo punto Monsignore, per attestargli benevolenza, affetto e stima, offriva una candela a don Adalgiso, che la riceveva genuflesso, baciando la candela e la sua mano, e, fatti i dovuti inchini, tornava al suo posto accompagnato dal secondo Cerimoniere. La Cattedrale era stracolma di fedeli, accorsi in massa anche dai paesi vicini per questo Rito di Purificazione che festeggiava la ritrovata Fede dei due sacerdoti traviati. Mentre il Celebrante distribuiva le altre candele agli altri Sacerdoti ed ai Chierici, i Cantori intonavano l’antifona Lumen ad rivelationem gentium, il Cantico Nunc dimittis ed infine il Gloria Patri. Terminata la distribuzione al Clero, Monsignore si portava, insieme ai Ministri, alla balaustra per offrirle a tutti i fedeli, indi andava a lavarsi le mani accanto alla credenza. Don Malachia gli porgeva il boccale ed il bacile e don Adalgiso la tovaglia. Don Alfio era un prete d’azione e, nell’operatività quotidiana, pur di raggiungere un risultato positivo, non andava tanto per il sottile, ma, quando celebrava un Rito, era di una meticolosità quasi pignolesca, perché era convinto che la forma, in tale frangente, è sostanza. La puntualità dei suoi gesti, la profondità dei suoi occhi favorivano la concentrazione dei suoi assistenti ed in tutta la Chiesa il silenzio, così totale che si sarebbe avvertito anche lo strusciare di un velo sulle panche, era infranto soltanto dall’Exurge Domine, intonato dai Cantori, cui faceva da contrappunto l’Exaudi quaesemus Domine, cantato dal Vescovo. Mentre il Turiferaio preparava il fuoco nel turibolo e benediceva l’incenso, don Malachia, fatta una riverenza all’altare, per breviorem andava a prendere la Croce processionale, datagli dal secondo Cerimoniere, e, postosi tra i due Accoliti, s’incamminava, preceduto dal Turiferaio, nel mezzo del Coro, dove si fermava con la faccia voltata all’altare. In questo tempo don Adalgiso prendeva la candela del Vescovo e gliela porgeva, baciandolo tre volte sulle guance e sulla mano; al cenno del Cerimoniere, si ritirava dietro al Vescovo sul primo gradino e, voltatosi verso il popolo, intonava verso i fedeli, con voce alta e chiara, Procedamus in pace ed il Clero rispondeva In nomine Christi. Una volta messisi in ordine tutto il Clero ed i fedeli, la processione usciva dalla Cattedrale e si immetteva nei Vicoli Saraceni, che erano considerati il covo dei fantasmi che avevano invaso la Chiesa. Dopo aver fatto una genuflessione, precedeva il Turiferaio, indi gli Accoliti ed il Crocifero; seguivano i Cantori ed il rimanente del Clero, infine don Malachia, don Adalgiso e Monsignor Petrone, con le candele accese. Ad un cenno del Cerimoniere scendevano in plano, ove, fatte le debite riverenze, don Adalgiso dava, per poco, a tenere la sua candela al Cerimoniere e, presa dal medesimo la berretta di don Alfio, gliela presentava con i baci di rito. Ricevuta dal Celebrante la sua candela e la sua berretta, si ritirava alquanto indietro, lasciava passare il Vescovo, gli si metteva alla sinistra ed andava con lui in processione. Chi usciva  dal Coro, che intonava la Antifone poste nel Messale, si copriva tenendo con la sinistra la propria candela e con la destra la fimbria del piviale. Nell’uscire dalla porta della Matrice tutti si coprivano di berretta, eccettuati il Turiferaio, il Crocifero, i due Accoliti ed il Cerimoniere, il quale non poteva usare neanche il berrettino, secondo il Decreto della Sacra Congregazione de’ Riti il 17 Luglio 1734. In Vicolo Saraceni VI, a confinare con la Via Fantasma, la processione si infilava in una strettoia e doveva procedere, quasi in fila indiana, tra antiche stalle ad altezza d’uomo e abitazioni fatiscenti, con vistose crepe sui muri. Queste casupole erano il cuore dell’antico villaggio saraceno, in seguito abitate dai contadini ed, infine, abbandonate per il terrore dei fantasmi. Monsignore si fermava all’angolo, di fronte ad una vecchia pagliera, protetta da una grata di ferro pieno, e la aspergeva ritualmente con acqua benedetta, quindi si inginocchiava, imitato dal Clero e dai fedeli, ed esorcizzava gli spiriti malefici che i contadini vedevano uscire nelle albe nebbiose. Adiuro vos omnes immundi Spiritus, cogo et compello per Eum qui erat  et est  et qui venturus est... tuonava il Vescovo, in nome di Nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha creato e redento con il suo sangue, tramite Croce, morte, sepoltura e Resurrezione,  nel nome di sua Madre, la Beata Vergine Maria, nonché dei Santi Ubaldo ed Antonio. Invitava i fantasmi a ritirarsi per sempre nella notte dell’oblio eterno e a non molestare più con tentazioni ed inganni i sacerdoti e le creature redente con il Sangue di Cristo. Li ammoniva a ritirarsi nelle oscure prigioni in cui li aveva relegati la Giustizia Divina e a non riemergerne mai, sotto pena di essere immersi in uno stagno di fuoco e di zolfo e di incorrere nella maledizione eterna. Sul suo Clero e sui suoi parrocchiani, specie sui più deboli, invocava la benedizione della Maestà e Regalità, della potenza del Dio Padre,  della Sapienza del Dio Figlio e della Virtù dello Spirito Santo, affinchè li custodissero e li difendessero fino alla fine della loro esistenza. Il Clero ed i fedeli seguivano come ipnotizzati ed, alla sua conclusione, tornavano in processione a ripercorrere i Vicoli fino al sagrato della Chiesa Madre. Nel rientrare i Cantori cantavano il responsorio Obtulerunt Domino e si incamminavano verso il Coro. Appena vi giungeva, il Turiferaio faceva una genuflessione e portava il turibolo al suo posto. Il Crocifero e gli Accoliti, senza genuflettere, andavano verso la credenza, ove deponevano i loro candelieri ela Croce, indi si ritiravano al banco, in attesa del Vescovo e di don Adalgiso. Il Clero, dopo aver fatto genuflessione nel mezzo, tornava al suo posto e estingueva le candele. Monsignore e don Adalgiso, entrando nel Coro, si coprivano, spegnevano le candele e le affidavano al Cerimoniere. Fatti i soliti inchini, andavano in mezzo, al banco dei Ministri, i quali, stando voltati verso l’altare, levavano il piviale al Vescovo. Don Alfio, don Adalgiso e don Malachia indossavano i paramenti propri secondo la Messa di quel giorno che si apprestavano a celebrare. La vita della Vecchia Matrice riprendeva i suoi ritmi consueti e abitudinari.

 

 

 

 

Capitolo XX

 

Sponsali

 

Con l’arrivo della bella stagione, in piazzetta Merlini, bambini e ragazzini erano tornati a giocare. Ogni  pomeriggio, quando il sole smetteva di furoreggiare, prendevano possesso dello spiazzo, delle vie  e dei cortili adiacenti e organizzavano i loro divertimenti innocenti. Si giocava a nascondersi e a rincorrersi, a spingere il monopattino o a lanciarsi in discese spericolate con il carrozzone, a mosca cieca e a quattro e quattr’otto, alla mazza e alla biglia, a zicchettare nichelini o bottoni nella fossetta, a batti muro, a girotondo, a saltare le caselle, ai mariti e alle mogli, al medico e alla paziente, a calcio con palloni di pezza o con latte di Simmenthal vuote. A seconda del numero dei presenti e dell’ispirazione del momento si cambiava gioco. Non c’era  discriminazione di sesso né di età. Certo alcuni giochi erano prevalentemente maschili ed altri femminili ed in altri giochi, come la guerra, i più piccoli avevano ruoli secondari, ma lo spazio era di tutti e chiunque reclamava il suo diritto a partecipare. Ogni tanto qualcuno, stanco ed accaldato, faceva una pausa e andava a casa a rifocillarsi con una fetta di pane e cipolla o pomodoro, o sfilava qualche fico secco dalla treccia nascosta sotto il letto matrimoniale. Biagio riprese a prendersi dispiaceri perché, di tanto in tanto, qualche pallonata fuori mira e misura gli rompeva qualche vetro del balcone. Per invitare i fedeli alle funzioni,  Don Adalgiso all’ora giusta faceva scampanare Onofrio, aiutato da Crocifissa, che era divenuta nel frattempo una moglie dolce ed una madre  affettuosa di due birbantissimi gemelli. La coppia era così allegra che erano scampanate lunghe e festose ad ogni minimo pretesto. Si poteva dire che accompagnassero tutte le loro giornate. Mattutini che duravano dalla prima ora a compieta. Scampanate a distesa per una Messa cantata. Ricchi rintocchi delle campane piccole per un matrimonio o un battesimo, che si amalgamavano con i belati di capre, a spasso nei Vicoli per distribuire il latte alle comari, davanti alla porta con le loro bottiglie, con il raglio di un asino innamorato, o con il cinguettio assordante dei passerotti, sotto i canali. La Chiesa Madre vibrava di questi rintocchi, che si spegnevano in lontananza ed animavano tutto il quartiere saraceno. Onofrio non aveva perso del tutto il gusto per la burla e la beffa, ma sceglieva con maggiore prudenza il tempo, il luogo e le persone. La responsabilità paterna  lo aveva reso più saggio ed autocontrollato. Monsignor Petrone era zelantissimo a difendere l’integrità della fede. Non fermandosi alla corteccia, ma entrando nel midollo dei misteri. Nelle sue omelie il suo parlare, secondo verità e giustizia, era un tessuto di testi sacri. Quasi una parafrasi biblica imbevuta di verità dogmatica e d’erudizione teologica. Non potendo più, per ragioni d’età, andare in missione nei luoghi più tormentati della terra, rimaneva un pastore eminentemente pratico ed operoso, che non cercava delizie intellettuali in problematiche speculative. Anzi, come vero Padre delle anime e spirituale Dottore, esponeva con semplicità il comune pensiero dei Santi ed i sensi suggeriti dalla Scrittura, che è sempre utile ad ammaestrare, a correggere, ad eccitare le volontà dei fedeli, a tendere alla vita eterna. Portato da nobile istinto, sceglieva sempre le sentenze più opportune per alzare le menti a Dio e determinarle alla virtù. Nulla gli sembrava accettabile contro Dio e la sua Chiesa. Nessuna cosa gli sembrava capace di compensare il danno di un’anima, che diviene libera solo grazie alla verità. Pur essendo attento alla purezza della dottrina cattolica, curava più l’azione che la speculazione, esponendo il dogma come perpetuo motivo di eccitare al Bene ed all’amore di Dio. I suoi avversari lo accusavano perciò di pragmatismo e di modernismo.  Di non sentire il bisogno di cercare una verità obiettiva ed assoluta. Di accontentarsi di eccitare sentimenti generosi e di indurre i suoi fedeli ad operare bene. Certamente, più passavano gli anni e maggiormente si convinceva che il fine del suo apostolato non fosse la conoscenza, bensì l’amore. C’era stato bisogno di tutta la sua capacità d’amare per riportare fede  e speranza nella Chiesa Madre e nei Vicoli Saraceni. Per ricacciare i fantasmi del dubbio e della passione nei  cunicoli e nelle buie prigioni dei sotterranei. A vincere le tenebre non vi è altro mezzo che portare luce. Con grandi azioni o con i piccoli gesti quotidiani. Provvide dunque a regolare l’insegnamento del catechismo, alimentando nella mente dei sacerdoti l’unità e la purezza della dottrina.  Il Vescovo di ferro responsabilizzava i suoi sacerdoti ad essere il sale della terra e la luce del mondo. Si poneva come modello esemplare per i trionfi riportati sulle seduzioni dell’orgoglio. Gli piaceva starsene a guardare gli altri dall’alto. Era come essere in cielo. Con nessuno intorno a dirgli ciò che poteva o doveva fare. Per arrivare all’apice, diventava pellegrino d’amore fra sperduti casolari, povero tra le ricchezze, umile tra gli splendori, cadavere vivente e benedicente fra un ecatombe di morti ed un popolo di morenti. A tanto esempio univa la parola calda d’affetto, persuasiva, convinta. Nei Sinodi Diocesani ed ai Concili Provinciali i suoi discorsi erano assennate lezioni di teologia episcopale.  I preti ne venivano conquistati e la vita sacerdotale ritornava a fiorire. Rivolgeva i suoi strali anche contro i costumi della società, che gli appariva lontana dalla vita cristiana per il suo amore smodato per il lusso ed i divertimenti chiassosi, la scostumatezza sfrontata, l’ipocrisia spudorata, la mancanza di considerazione per il valore della vita. Genitori egocentrici e narcisisti che non si occupavano dell’educazione dei figli. Impazienza ed intolleranza nella vita di coppia. Divorzi ed aborti come pratica quotidiana. Un’ignoranza supina ed un’accettazione passiva e formale della religione. Feste smodate, che non di rado degeneravano in saturnali. Uomo di governo e di disciplina, cercava di porre rimedio a questi guasti con frequenti visite pastorali al suo gregge, anche nelle silenziose campagne e sulle vette alte e scabrose. Con forza e con soavità. Specialmente con i giovani si svestiva di ogni autoritarismo e lasciava sgorgare dal suo cuore delicatezze, intuizioni ed affettuosità. Da loro non esigeva un’obbedienza cieca, che rischiava di atrofizzare ogni senso di responsabilità; voleva anzi che si provvedesse con ogni arte a persuadere un giovane della ragionevolezza di un comando e persino di un castigo. Non gli mancavano contrasti ed ostacoli di ogni genere. Invidie ed ostilità di uomini politici e di governo. Opposizioni di ricchi, nobili e gaudenti. Ribellioni isolate di clero, religiosi e popolo. Lui proseguiva, saldo come una roccia e dinamico come un’anguilla la sua azione pastorale di applicazione fedele delle leggi ecclesiastiche, di amministrazione imparziale della giustizia, di gestione e tutela del patrimonio sacro, di visite diocesane. Oltre a curare le istituzioni d’indole strettamente ecclesiastica e pedagogica, come i Seminari, gli ordinamenti liturgici, le confraternite, i collegi di educazione, i sinodi e le congregazioni, si preoccupava di quelle di soccorso morale e materiale per gli indigenti. Per le donne di mala vita ravvedute istituì una casa di accoglienza, una specie di ospedale morale, dove le penitenti in via di emendazione rimanevano provvisoriamente, ed una casa delle convertite. In un altro ricovero, detto del soccorso, offriva un asilo sicuro a tante povere mogli, maltrattate o malmenate dai mariti, finché non fosse avvenuta la riconciliazione. A premunire le vedove contro i pericoli del loro stato, le raccoglieva nella congregazione delle dame di Maria S.S. dell’Udienza e dettava loro regole piene di cristiana sapienza per renderle utili alla società. Nell’antico Collegio, sotto la tutela delle suore del Sacro Cuore, raccoglieva le giovani pericolanti, specie le orfane. Non combatteva per la propria persona e per il proprio onore; lottava in difesa dei diritti della sua carica e per il bene della sua Chiesa. Maestro di ascetica, stimolava il Clero a praticare costantemente l’orazione mentale, gli esercizi ed i ritiri spirituali, l’esame di coscienza. L’assistenza degli infermi e dei diseredati, la cura delle parrocchie, la confessione e la comunione dei fedeli, la celebrazione festosa di battesimi, cresime e  matrimoni rivestivano per lui particolare importanza, perciò gli dedicava maggior cura ed attenzione. Viveva il Cristianesimo con spirito francescano, come gioia di esistere e di amare tutto il creato. Non concepiva la tristezza di Dio. L’angoscia di Dio. L’infelicità di essere in Cristo. Se non come un momento di crisi per la salvezza e la redenzione. Perciò lo turbava la silenziosa malinconia di Don Adalgiso. Il suo pupillo era tornato la sua spalla ideale nelle più impegnative attività della Diocesi. Conduceva una vita di angelo e d’anacoreta per la ricerca della solitudine, la severità del lavoro e l’austerità delle penitenze. Con sagacia, prudenza ed energia ne assecondava l’arditezza e la fecondità dei disegni. Don Adalgiso era diventato severo ed inesorabile contro la licenza, la tracotanza ed il lusso dei potenti e dei ricchi, mentre era tutto viscere di tenerezza, sollecitudine, sacrificio, liberalità verso i bisognosi e gli infelici. Un involucro di virtù austero ed impenetrabile. Agli usurai negava la comunione, la benedizione delle casa e, persino, l’assoluzione, il funerale ecclesiastico e la sepoltura religiosa. Probabilmente non riusciva a cancellare dalla sua mente lo strozzinaggio subito da Cerbero. A farlo maggiormente infuriare, costui, tra l’altro, dopo essere stato ripetutamente punito dalla giustizia degli uomini,  aveva finito per accumulare tanti di quei soldi da comprarsi l’amore di Sonia ed un’apparenza rispettabile ed ostentava stomachevoli atteggiamenti filantropici ed umanitari. L’amica di Fantasima, ulteriormente disincanta e delusa dalle ultime vicende, aveva ripiegato sulla concretezza ed aveva deciso di mettere al sicuro la sua vecchiaia. Ma, per non correre nessun rischio, stavolta aveva preteso i fiori d’arancio. Il parroco della Chiesa Madre, invece, sembrava voler vivere solo per espiare. Era rimasto solo. Come un cane abbandonato. Senza un’amico. Crescendo tutti fanno le loro scelte. Assecondano le proprie inclinazioni. Trovano la loro strada.  Falena aveva proseguito gli studi universitari, a Roma,  e si faceva vedere, solo per qualche brevissimo periodo, durante le vacanze natalizie ed estive. Lucciola era andato a lavorare in un albergo sulla riviera adriatica, tra Rimini e Riccione, dove c’era più spazio e tolleranza per la sua diversità naturale. Anche Don Malachia, sua ombra nel bene e nel male, lo aveva abbandonato. Alcuni giorni dopo la sceneggiata tra i Vicoli, era scomparso. Si mormorava che fosse andato a fare l’operaio in una città del Nord, per vivere insieme a quella pazzerellona di Chimera. A tratti lo invidiava. In altri momenti lo compiangeva. Più  spesso immaginava di vederlo tornare all’ovile, abbandonato dalla volubile, capricciosa ed instabile Chimera e sconfitto nel suo velleitario tentativo di ribellione. Lui preferiva stordirsi di impegno cristiano. Singhiozzare in silenzio. Soffocare con un’intensa operosità le sorde convulsioni interiori che minacciavano di rompere gli argini posti alla furia devastante delle sue passioni. Andava elemosinando di porta in porta, circondato da poveri e da bambini coperti di cenci, pallidi e smunti, con una corda al collo, la croce in mano, i piedi nudi e sanguinanti, gli occhi grondanti di lacrime. Quasi volesse mortificare e punire il suo corpo. La sua carità verso le vedove, gli orfani, i pellegrini, gli erranti non aveva confini, perciò alla liberalità, che ne è figlia, non fissava nessuna misura. Prestava particolare cura ai carcerati, procacciandogli cibo, indumenti e difesa gratuita. Qualunque errore o delitto potessero aver commesso, nessuna sofferenza o povertà gli sembrava più straziante che essere privati dell’aria e della luce del sole. Non poteva soffrire la povertà che in se stesso, onde nel vitto e nelle vesti si era ridotto a tal punto che nessuno da lui soccorso era più povero di lui. Tutti, superiori, colleghi e fedeli, lo apprezzavano e gli volevano bene, ma il suo successo non gli dava alcuna soddisfazione e gioia. Diveniva ogni giorno più scarno, pallido e triste. I cibi non gli piacevano. Gli davano senso di nausea e di  vomito. Se si metteva davanti a una fetta di carne la vedeva pullulare di vermiciattoli bianchi e giallognoli. Gli spaghetti al sugo gli sembravano infestati da microbi sottilissimi. Li lavava sotto il rubinetto, ma poi gli puzzavano di cloro. I formaggi gli facevano antipatia. Odoravano di letame di pecore o di mucche o, peggio ancora, di selvaticume di capra. Se si azzardava a pizzicarne qualche scaglia, doveva precipitarsi in bagno a vomitare. Anche le verdure ed i frutti gli sembrava che facessero tanfo di concimi ed anticrittogamici. Riusciva ad inghiottire senza problemi  solo qualche sorso d’acqua e qualche fetta d’anguria. Si era così abituato al digiuno che non sentiva più stimoli di fame. Come se la bocca dello stomaco gli si fosse ristretta o ostruita. Campava d’aria.  Dormiva pochissimo. Di giorno neanche ci provava. Di notte si appisolava per qualche ora, ma aveva il sonno leggero. Sobbalzava ad ogni minimo rumore e, se apriva gli occhi, non riusciva a rinchiuderli più . Sembrava che le sue palpebre fossero stagnate. Si sentiva i piedi congelati e la testa in fiamme. Aspettava il chiarore dell’alba leggendo o pregando. Era il  modo più consueto con cui tentava di sfuggire al tarlo dei pensieri e dei rimpianti, che gli fermentava e ribolliva dentro, gli si ammassava, gli  si gonfiava fino a traboccare e gli scavava i meandri del cuore, alla ricerca di una scappatoia. All’idea fissa che tornava senza tregua, lo torturava, gli mordeva il cervello e gli strappava le viscere. Assaggiare la tentazione è come spizzicare un cucchiaino di miele. Basta ad addolcire la lingua, non a spegnere l’arsura. Neanche la preghiera riusciva a renderlo sereno. Ad acquietare le sue fantasie. Ad uccidere i suoi sogni. si sentiva invecchiato. Incredibilmente vecchio e stanco. Anche se le cicatrici sembrano rimarginarsi, non si perde la vulnerabilità. Il viso gli si era affilato. Come se le ossa gli si proiettassero in avanti. Per dargli una specie d’avvertimento. I capelli si erano diradati intorno alla tonsura e la pelle gli pendeva sulle guance ed attorno alle mascelle flaccide. Il corpo aveva cominciato a raggrinzirsi. Non aveva più speranze. Tutte le possibilità di vivere le aveva fatte naufragare. Senza lottare per ciò che amava. Senza reagire alle violenze psicologiche. Abbandonato all’inesorabile turbinio del tempo. Trovava vergognosa la sua disperazione. Sentiva disonorevole rimanere vivo senza scopo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo XXI

 

Alba

 

 

 

Quella notte il caldo del letto gli divenne insopportabile. Persino il conforto di un libro o del rosario non gli bastavano. Le lenzuola sembravano spine di fichidindia, che gli si conficcavano sul petto e sulla schiena. Sgattaiolò da una porticina della sacrestia a piedi tra i Vicoli, senza una meta precisa. Sgomento come una lepre stanata da un furetto ed inseguita dai cani dei cacciatori. Sconvolto ed infreddolito. Andava alla cieca. Alla rinfusa. A destra e a manca. Perdendo l’orientamento. La cognizione dello spazio e del tempo. Vagava meccanicamente. Lasciandosi portare dalle scarpe, che scivolavano morbide sulle pietre dure e levigate dalle ferrature dei muli e dei cavalli. Era uscito in maniche di camicia, dimenticando di insaccarsi nella tonaca, perciò l’aria frizzante della notte gli penetrava nelle ossa.  Arrancando, stanco e sfibrato, salì la scalinata che portava in cima al Calvario e diresse lo sguardo verso il Castello di Federico II. Sentiva il sibilo dello scirocco che si alzava forte da Santa Maria del Bosco. La montagna del Corvo gli era innanzi come un gigantesco monumento, intarsiato di boschi, radure, abitazioni chiuse come fortezze  e ruderi antichi, merlature e torrette. Un’angusta stradella si inerpicava fino alla cima di Adranone. Con lo sguardo ne percorse il zig zag di curve fino a raggiungerne l’ampio pianoro sulla superba vetta, un tempo abitata dai mitici Elimi. Volgendo la sguardo a destra, verso il fiume Rincione, si dispiegava la valle Schiavo Morto, ricchissima di mandorli, ulivi saraceni, castagni, ciliegi, noci e nocepesca. Si raccontava che in questa valle i Romani avessero raggiunto gli schiavi ribelli della prima guerra servile, sfuggiti alla distruzione di Triocala ed in fuga verso Adranone, e li avessero massacrati. Ora un vento leggermente più caldo portava un fruscio carezzevole di acque sorgive in mormoranti ruscelli o in piccole cascate. Tutto intorno un indefinibile silenzio emanava dalla campagna, interrotto, di tanto in tanto, dal raglio di un asino in amore. Ridiscese i gradini fino alla strada deserta. Era troppo infelice. Una sensazione di sgomento lo sopraffaceva. Inutile sperare in un sollievo. Cambiare o morire. Così era la vita. Si ritrovò in un immenso cortile sotto un acero dai grandi rami, fiancheggiato da un altissimo e severo albero di cipresso, tra il frinire delle cicale ed ebbe un fremito di smarrimento. Girovagò sotto la luce giallognola di un lampione come un’anima persa. Senza udire voce umana. Né rumori o grida di animali. Né sibili. Niente. Un’immobilità stagnante ed assorbente. Aspirava profondamente l’aria della notte ed un profumo aspro e graffiante gli pungeva le narici ed il petto. Sapeva di gelsomino e di fragola. Di pistacchio e di mandorle fresche. Ma ubriacante come il pino marino. Gli faceva girare la testa come un buon bicchiere di Monte Olimpo. Era il suo inconfondibile profumo. Lo avrebbe riconosciuto ed isolato anche mescolato ad altre cento essenze. Tutto ad un tratto, in lontananza, uno strascicato salmodiare. Come una nenia per un bimbo che stentava a prendere sonno. Si alzava e si spegneva. Quando sembrava farsi distinto, tornava a sfocare. Con il cuore piccolo piccolo, Don Adalgiso levava gli occhi al cielo supplichevole. C’era una luce accesa al balcone del primo piano e lei scostava la tendina bianca e lo fissava tra le foglie d’acero. Un’espressione cupa. Oscura. Nervosa. Forse malvagia. Quasi un’evocazione della memoria. Ognuno di noi possiede veramente solo il suo passato. Siamo solo un catalogo dei nostri fallimenti. Delle prove di appello che la vita torna ad offrirci. Perciò vivere è godere totalmente ogni momento dell’esistenza. Non tendiamo a nessun futuro. Ci attende solo il nulla della fine. Siamo avviluppati tra gli ingranaggi della memoria. Questo si sentiva Adalgiso. Vuoto. Separazione. Attesa. Nel riannodare la ragnatela della memoria sembrava lo specchio dei suoi sentimenti bruciati. I loro sguardi si incrociarono. Lei non sorrideva. Era paralizzata dall’emozione. Nella penombra non riusciva a distinguere il colore dei suoi occhi. Le sembravano più scuri e profondi di quanto li avesse mai visti. Per un istante il cuore smise di batterle. Lo guardava con mestizia e compatimento. Con gli occhi sgranati.  Sembrava rammaricata del suo scontato ritardo. Nessuno lo aveva mai fissato così direttamente. Senza battere ciglio. Come frugasse nelle pieghe della sua mente. Lasciava ricadere la tenda sul vetro, mentre scivolava nel profondo dei suoi occhi scuri. Le gambe cominciarono a tremarle e dovette appoggiarsi alla maniglia per non ricadere. Adalgiso sospirò. Entrò e salì rapidamente le scale. Lei gli apriì la porta e gli si fece incontro sul pianerottolo. Rimase immobile. Lo soppesava. Quasi per valutarlo. Senza dire una parola. Gli mostrava semplicemente gli occhi azzurri, che brillavano quasi in modo sinistro. Erano occhi straordinari. Non avevano nulla di debole. Erano decisi ed ostinati.  Un’espressione di tensione sconosciuta, come gli lanciassero una tacita sfida. Chiara come il vento che anticipa una tempesta. Le sue labbra  serrate lasciavano intendere la sua natura fiera ed appassionata. A tratti parevano semplicemente socchiuse. Come in attesa.  Lui, all’estremità del corridoio, alzava le mani in un gesto di scusa. Sospirava ed avanzava. La distanza tra loro diminuiva. Era ancora una vera bellezza. Dritta ed alta. Con ciocche di capelli ribelli sul corpo snello e liscio. E rughe di ansia. Sulla pelle abbagliante. Accostandosi alla sua guancia, gliela carezzava dolcemente. Nelle sue dita la fame d’amore. Nel suo sguardo l’attesa di tornare a possederla. Lei avvertì una vampata di calore lungo il collo e sul viso. Scendeva sul suo busto, sulle sue braccia. Molto castamente. Come una leggera farfalla in volo. Venne percorso da un fremito di piacevolezza, mentre la sua mente vibrò di desiderio. Stava per baciarla. Lei  si irrigidì, sotto il calore di quella mano che l’attraversava e si diffondeva in lei. Assordata dai battiti martellanti del proprio cuore. Lui colse il suo smarrimento. Lo percepì nella tensione che le irrigidiva i muscoli del collo.  La baciò avidamente sull’angolo destro delle labbra contratte.  Il contatto con le sue labbra prepotenti la stordì. Le sembrava di tornare a fare un salto nella vita.  I loro occhi si incontrarono di nuovo e lei gli girò le spalle, cercando di sfuggire al suo sguardo. Adalgiso avvertiva il risveglio di energie sopite. Il rifluire di una linfa inaridita. La desiderava con travolgente disperazione.

- Non posso vivere senza il tuo amore. Speravo di riuscirci, ma era un’illusione.

Aveva dimenticato quanto fosse calda e morbida tra le sue braccia. La amava più di prima. Era sicuro di non aver amato mai qualcuno o qualcosa come lei. Affondò la mano nella sua nuca e le scompigliò i capelli biondi. Le sfiorò le palpebre con le labbra. Gliele ricoprì di decine di piccolissimi, teneri baci. Avido di tenerezza più che di passione. Fantasima si sentiva investita da una corrente di fuoco che le ridava vigore ed entusiasmo. Quasi subisse un ricambio del sangue raggelato nelle vene. Con un lungo sospiro lasciava scivolare lo stress accumulato negli ultimi tempi. Guardava il suo corpo perfetto, mentre si lasciava sfuggire un gemito impercettibile. Assaporava la sensazione delle sue dita che la sfioravano. Anche lei voleva toccarlo. D’istinto si alzava sulla punta dei piedi e gli allacciava le braccia al collo, attirandosi la testa contro il petto. Il petto di Adalgiso era caldo, morbido e forte. Poteva anche essere un prete ma aveva un fisico da campione sportivo.  Si avvinghiava desiderosa che quel magico istante durasse all’infinito. La sua coscienza era già all’erta. Intrecciava le dita delle loro destre, mentre il suo sguardo tornava dolce ed invitante. Adalgiso le fece scivolare una mano dietro la nuca e sentì la sua pelle calda e morbida. Con l’altro braccio le cingeva la vita  e le sfiorava la schiena, stuzzicandola con l’alito.  Lei sussultava nel percepire ogni centimetro della sua virilità inutilmente repressa. Le gambe le tremavano. Il suo viso era sempre più accostato finché la bocca di lui era sulla sua e le percorreva gli angoli, stuzzicandoli di baci. Abbassava le palpebre sentendosi avviluppare dalle fiamme. Mentre si inarcava contro di lui. Una vena prendeva a pulsarle alla tempia. Il sangue sembrava ribollirle ed il cuore prendeva a batterle furiosamente. Beveva il suo respiro come un balsamo e la sua eccitazione diventava  prorompente.

- Se ti sento così vicino, torno ad esistere... quest’attimo che sto assaporando non è la prima volta che lo vivo...per me è come un leggero sdoppiarsi di immagini... una dispersione nell’infinito.

Adalgiso si sentiva perduto. La seguiva verso il letto tra le delicate tinte pastello della sua stanza. Come una una foglia di pioppo si abbandona all’acquazzone che la strappa dall’albero e la trasforma in una barchetta in balia della piena autunnale. I suoi baci non le bastavano. Voleva di più. Molto di più.

- L’infinito è troppo lontano. Forse io e tu siamo solo dei luoghi d’incontro di messaggi del passato.

Si era seduta sulla sponda del letto, davanti a lui già quasi nudo, che la guardava estasiato, dall’alto in basso, mentre si toglieva le scarpe. Si sentiva caldo. Comodo. Protetto. Rimanevano a fissarsi in silenzio. Entrambi ardevano di passione. Con il fiato grosso, le appoggiava la testa su una spalla, mentre lei gli slacciava il bottone ed abbassava la cerniera.

- Il passato ci strumentalizza con cieca indifferenza e non si cura di come spenderemo i frammenti che ha smosso. Ti ho tanto atteso e desiderato. Di notte mi aggrappavo al cuscino, cercandovi il tuo calore. Ma tu non c’eri. Ti chiamavo e non venivi. Questo nostro istante di gioia forse è solo la felicità d’una storia altrui, che finisce là dove noi crediamo cominci la nostra.           

Accostava la bocca ai suoi pantaloni, sfiorando la prova evidente della sua eccitazione. Gli passava una mano sugli slip e glielo stringeva tra le dita, quasi a farlo male. Assetata della sua pelle. Poi lui sentiva i suoi denti graffiarlo e le sue labbra baciarlo dappertutto impetuosamente e succhiarlo con violenza. Desiderava soddisfarlo come nessuna altra poteva avere mai fatto.  Lei era stravolta, lui completamente pazzo. E nessuno è più pazzo di un giovane prete pazzo di una donna.

- Non smettere ti prego. Mi hai stregato! Baciami ancora. - le sussurrava in un orecchio, mentre le sfiorava i capelli. Aveva a portata di mano tutto ciò che poteva desiderare. Le porcherie e le brutture del mondo rimanevano fuori. Oltre i muri di quella stanza. Mentre entrava ed usciva dalla sua bocca, affondava le dita nella massa di riccioli, le carezzava i capelli e le stringeva la nuca quasi a soffocarla. Monsignor Alfio Petrone non era altro che un’ombra vaga e nebulosa. Le sue forti dita le penetravano nelle spalle e lei si sentiva invadere da una profonda debolezza. Poi scendevano lungo i fianchi percorrendo i solchi sottili che attraversavano la pelle. Il bagliore dei suoi occhi penetranti andava oltre il divertimento. Si chinava a baciarle la testa, a leccarle il collo e a mulinellarle la lingua nelle orecchie. Le slacciava la camicetta e la gonna. C’era qualcosa nell’assoluta femminilità del suo corpo, nella sua terribile sensualità, che aveva il potere di renderlo completamente privo di volontà. Ad un certo punto sentì che stava per godere. Era quasi all’apice di un piacere acuto e vessante. La propria pelle gli bruciava lungo tutta la spina dorsale. Avvertiva un senso di pressione. Prossimo all’appagamento.  Non voleva essere così egoista. Con un scatto fece una brusca marcia indietro, ritirandosi tutto umido della sua saliva e lasciandola con gli occhi pieni e le mani vuote. Un brivido estatico la percorreva. Lo vedeva deglutire, mordersi il labbro inferiore e cercare disperatamente di trattenersi.

- Perché te ne esci così rapidamente? Non andartene più, adesso che ti ho ritrovato.

Ma lui non le dava neanche il tempo di essere delusa. La distendeva sul letto e si lanciava su di lei,  baciandola d’un bacio intenso, senza tempo. Dolce e gentile. Ma anche avido. E possessivo. Lei gli allacciava le gambe alla vita e lo fissava con i suoi grandi occhi lucidi d’amore, che lasciavano trasparire un luccichio che le dava un fascino irresistibile.  Aspirava le sue labbra, ma non riusciva a riunirle con le proprie. Giocava con la lingua tra le sue, finché lei lo risucchiò e gli si abbandonò cedevole tra le braccia. A divorarlo come una cannibale. Era una tigre sotto la spinta del desiderio. Sfoderava le unghie. Selvaggia e insaziabile.

- Riempimi, amore. Inondami

Le sue labbra erano calde ed aperte. Avvertì la pressione e la durezza dei suoi denti. Le sue dita artigliargli la pelle.  La sua lingua era come un dardo infuocato. Chiuse gli occhi. Come galleggiare in un’acqua tiepida e pigra. O smarrirsi in una macchia nebulosa. Era meraviglioso. Si sentiva inghiottito. Assorbito. Dissolto in lei. Nessuna l’aveva mai baciato così. Non s’era mai sentito tanto uomo. Lei teneva ancora gli occhi aperti e lo spiava. Era forte. I muscoli tesi gli si disegnavano nettamente sotto la pelle. Il torace muscoloso, ricoperto da una folta peluria scura, si assottigliava nell’incunearsi nell’addome perfettamente piatto. Un piacevole senso di benessere le scorreva addosso. Gustava la sua carezza. Era calda e gentile. Non era un gioco. Era il principio dello scatenarsi della sua passione. Scrutava il ciuffo tirabaci sulla sua fronte e ammirava la solidità della sua coscia, ma la tentazione di sfiorarlo rimaneva chiusa stretta nel pugno.  Mentre prolungava l’estasi del bacio, Adalgiso appoggiava il proprio corpo contro il suo ventre che si muoveva spasmodicamente. Stava per essere spinto nuovamente al piacere. Il respiro cominciava a farsi affannoso. Ma resisteva. Invaso dal suo tepore, tratteneva il fiato. Voleva assolutamente vederla completamente nuda. Sfiorarla morbidamente. Abbracciarla e tenerla stretta. Mentre si rifugiava nell’amore. Le infilò le dita dietro le spalle, alla ricerca del gancio del reggiseno a balconcino.  Lei si lasciava spogliare inerte. Questo le piaceva dell’essere donna. Era sempre lei la più forte.

- Lasciami contemplare tutto il tuo corpo. Sei stupenda!

Gli  appoggiò la guancia e gli passò un dito sul viso. La bocca di Adalgiso si faceva sempre più audace. Assaggiava. Stuzzicava. Sondava. La guardò nel profondo degli occhi. Dove si annida lo specchio dell’anima. Erano azzurri. Un po' pallidi, ma profondi ed intensi. Infuocati di passione. Per un attimo divenivano freddi ed impenetrabili. Come una lastra di ghiaccio.   

- No. Non voglio. Se mi mangi così, con questi occhi voraci, mi sento sporca... mi vergogno...

Faceva scorrere lo sguardo sulle sue cosce, accarezzandole con il pensiero. Sentiva ancora un’incredibile attrazione erotica.

- Perché? Te ne prego...Quando un uomo ed una donna si amano, niente di ciò che fanno può farli vergognare.

Provava turbamento se la guardava in tutta la sua vulnerabilità. Una miscela esplosiva di pudore ed eccitazione. Come un flash. Elettrizzante. Sensuale.

- Allora spegni almeno la luce del lampadario...Al fuoco si risponde con il fuoco.

Lui obbedì immediatamente. Alla luce tenue dell’abat-jour la sua pelle sembrava vellutata. Intrecciava le mani tra i suoi riccioli, che s’accartocciavano tra le sue dita, esili ed affusolate.

- Hai dita lunghe e e sottili. Sembrano mani da pianista...

Lui le attirava la testa sotto il collo, sulle proprie spalle. Non voleva più farle male. Mai più l’avrebbe fatta piangere. Voleva solo comprenderla. Aiutarla. Rimarginarne le ferite. Le sfilava gli slip delicatamente e contemplava il suo pube e la sua vulva. Era straordinariamente emozionato di riscoprire questo suo secondo viso. Fantasima aveva una vera e propria foresta di crini irsuti e ricchi come i suoi capelli. La pelle del suo ventre era di un rosa di fiori di pesco, con dei riflessi brillanti, come delle piccolissime pietre. Aveva l’ombelico teso e prominente. Si sarebbe detto quasi un piccolo seno. Lui la carezzava con dei tocchi morbidi ed affettuosi e le baciava ogni centimetro. Lei teneva le cosce levigate ancora ostinatamente serrate. Lui la stimolava con dolcezza a lasciargliele aprire. Calamitava la sua attenzione e le sue emozioni. Lei tratteneva il respiro.

- Non essere tesa! Abbi ancora fiducia in me!

Lei si contrasse e tornò ad irrigidirsi. Se si fosse lasciata andare completamente non avrebbe più avuto alcun controllo. E lei aveva paura delle proprie emozioni e del suo stesso amore. L’avevano fatta soffrire troppo. Quasi a morirne. Non poteva permetterselo. Doveva fermare quelle mani che le bruciavano la pelle. Non doveva continuare a toccarla. Doveva allontanarlo. Era necessario reprimere il desiderio e riacquistare il proprio autocontrollo. Non voleva sentire il sangue scorrerle nelle vene come impazzito.

- Dobbiamo smettere ... non voglio ricominciare ad impazzire... -  dichiarò con decisione, cercando di divincolarsi, ma le sue corde vocali entravano in sciopero e la sua voce scemava. Lui non era leale. Non le dava tempo di protestare. Non giocava ad armi pari. Le afferrava le mani bloccandogliele.  Ricominciava a toccarla delicatamente. Le scopriva il sesso e le sfiorava le grandi labbra. Con l’indice della sinistra si insinuava nella sua vagina gradualmente. Con pazienza. Con tenerezza. I suoi seni erano tesi. Splendidi. Sembravano due piramidi di ebano. Adalgiso voleva farla godere. Li carezzava. Baciava le loro punte. Le girava nelle sua bocca. I capezzoli divenivano enormi. Duri come cartilagine. Ma ciò non bastava a procurarle voluttà. Allora provava a ritornare al suo fiorellino. Ne carezzava le labbra superiori e laterali,  il clitoride, la vagina.

- Non avere ancora paura del mio amore. Lasciami entrare tutto dentro di te

Avvertiva il suo calore che cresceva. Sentiva le sue gambe ed il suo ventre tremare nervosamente. Continuava a premere costantemente fino a congiungersi. Una fiamma sembrava uscire dal suo corpo. La sua carne soda quasi lo scottava.  Una sensazione straordinaria. Di vuoto allo stomaco. Mai l’aveva trovata così calda. Così bagnata. Se non avesse cercato che il proprio piacere non aveva che da guardarla negli occhi languidi ed attendere. Ma lui cercava di penetrare fino in fondo.

- Ti amo. Voglio renderti felice. Lasciati guidare. Datti a me interamente. Senza alcuna esitazione.

Con un grido lei lo attraeva a sè e si muoveva sinuosa ed invitante. Come se un fuoco si impadronisse di lei, abbattendo ogni residuo raziocinio. Il desiderio di accoglierlo dentro la faceva impazzire.

- Io sono tutta tua. Lo sono stata sempre. Non ho mai smesso d’amarti. Neanche per un secondo. Di me puoi fare tutto ciò che vuoi. Fammi pure morire se lo desideri.

Era consapevole di poterle fare qualsiasi cosa. Non gli aveva mai rifiutato nulla. Niente che l’avesse schifata o stancata. Sentiva le sue braccia avvinghiate al collo, che lo stringevano contro i suoi seni. Il desiderio di lei aumentava.  Diveniva imperioso. Ma ancora lo dominava. Voleva essere certo di risvegliarne tutte le vene e le arterie. Di farle toccare le vette del piacere a compenso del male che le aveva fatto. Delle ferite che l’avevano segnata. Si capovolgeva e tornava a chinarsi. Le leccava i bellissimi piedi. Le unghia. La faccia. Tra le dita. Risaliva tra le caviglie sottili ed  i polpacci, fino all’inguine.  Con la punta della lingua si insinuava tra i suoi peli, finanche alle piccole labbra. Si muoveva con la rapidità  della coda spezzata di una lucertola. Lei lo lasciava fare. Stordita e prigioniera della sua mole che la sovrastava. Si ritrovava anzi a succhiarglielo in modo speculare. Inizialmente si limitava ad assecondare il suo ritmo, poi alternava colpi di lingua e contenuti mordicchiamenti. Non più dolce e supplichevole. Non si curava dei suoi sentimenti. Né dei suoi bisogni. Sembrava travolta da una frenesia che era tutta e soltanto sua. Ora emanava un profumo più intenso. Come di una foresta dopo un acquazzone autunnale.  Con la mano destra lui le sollevava il bacino, attirandola ancora più vicina alla sua bocca, affidando alla sua sensibilità tattile l’esplorazione ed il palpeggiamento delle sue anche piccole e sode, fino ad incontrare un’altra piccola cavità. Portava l’indice in avanti. Tra le grandi labbra. Lo intingeva nei suoi umori per ammorbidirlo ed oliarlo. Tornava indietro ad infilarlo lentamente nell’altro minuscolo foro, che, inizialmente rigido e contratto, gli si apriva gradualmente. Lei gemeva e si contorceva in spasmi incontenibili, andando e venendo incontro al suo dito. Quando infilava il dito e lei cominciava a gioire, lui si tratteneva. Interrompeva un attimo, poi ricominciava determinando un altro sfasamento. Ormai era pronta. Vulnerabile. Esausta. Con una piroetta da atleta lui tornava in posizione naturale. A baciarla sulla bocca morbida, mordicchiandole le labbra. Lei gli prendeva il viso tra le mani e gli stringeva i fianchi con la gambe, tormentata da un’urgenza conosciuta.

- Ti prego... adesso! Non posso aspettare un altro momento.

La sentiva distendere. Le sue cosce si aprivano. Il  suo pube s’appoggiava contro il proprio. Percepiva il calore che l’impregnava. Le sue ghiandole intensificavano la secrezione. Era bellissimo stare tra le sue braccia.

- Oh, Dio mio! - gemeva lui mentre entrava con ardore, passione e violenza. Adalgiso era furiosamente impaziente. Si precipitava nella sua vagina, meravigliosamente dritta, a colpi secchi. Ritmicamente raddoppiati. Fino al collo dell’utero, che sentiva in fondo, duro contro il suo glande. Lei socchiudeva gli occhi e si concentrava. Era elastica. Sgusciante. Mobile. Lui riprendeva a carezzarla e le infilava il medio nel suo posteriore, mentre, con il pollice, la sfiorava davanti. Lei gioiva intensamente. Una. Due. Tre volte. Non si sa quante. Il suo membro rimaneva duro e teso. Non voleva godere senza averla messa fuori combattimento. Voleva prolungare quanto più possibile questa voluttà.  Con la mano libera le accarezzava i capelli. Gentilmente ma con insistenza. Facendole reclinare la testa all’indietro. Lei continuava a salire e a ridiscendere. Gli serrava le gambe sui fianchi e sulle spalle. Tendeva la schiena finché poteva. I suoi colpi crescevano in rapidità e profondità. Ormai i loro respiri erano sincronizzati. Affannati. Con il cuore che batteva all’impazzata. Dal balcone socchiuso la luna batteva a picco sulle loro teste e l’aria profumava di erba secca.  Gocce di sudore imperlavano le loro fronti. Anche i loro colpi erano madidi.  Il sudore scendeva come una pioggerellina insistente. Il suo odore si mescolava con quello dei suoi umori. C’era profumo d’amore nella stanza. Lei lo imprigionava con tutte le sue energie. Quasi a stritolarlo. Ad aspirarlo. Il sangue le pulsava a forte velocità. Li transitavano brividi e sussulti. D’improvviso la sentì illanguidirsi. Afflosciarsi. Senza un urlo. Né un gemito. Tutta sua. Lo strinse forte appoggiandogli il viso sulla spalla sinistra.  Mentre il cervello sembrava esplodergli di piacere, la inondava di tutta la sua forza di vita. Insieme sfociavano nel placido mare dell’orgasmo. Le restava dentro. L’incendio dei sensi si era dileguato. La furia  della passione diventava una dolce sensazione di stasi. Colmava il vuoto dell’assenza. Lei giaceva appagata tra le sue braccia. Estasiata.  Sembrava non avesse da chiedere nient’altro alla vita. Il suo sorriso era dolce e beato. Era nella valle dell’Eden. Il tempo sembrava eterno e immodificabile. Sulla volta della stanza baluginava la luce della luna. Fantasiosa  e bonaria come ogni notte. Forse un po' birichina e pazzerellona. A scaldare i sogni e le fantasie degli uomini. Adalgiso pensava che la notte è per la felicità. La luce del giorno nasconde le ombre ed i sogni. Mette a nudo le crepe del mondo. Non offre tregua. Né scampo alle illusioni. Il sole è troppo forte e vero. Non indulge alle incertezze. Non consente deviazioni. Non tollera bugie. Né ambiguità. Arde e brucia come la verità. Illumina i tagli nitidi. Le immense pianure e le montagne svettanti al cielo. La terra odorosa ed il viola turchese del mare. Separa nettamente il Bene dal Male. Uccide impietoso ogni debolezza. Anche l’inizio del suo amore era stato debolezza. Voglia di follia. Di trasgressione. Di vita. Bisogno di una persona che lo aiutasse a sconfiggere i deserti della solitudine e della ragione. A riempire i segmenti oscuri dei suoi vuoti. Crescendo era diventato completamento. Fusione. Certezza di essere. Riconquista della sua identità smarrita. Della felicità di vivere. Fantasima si era assopita tra le sue braccia. Sorrideva sicura e fiduciosa del suo amore. Anche Adalgiso si sentiva spossato. Felice. Ma svuotato di ogni tensione. Non aveva più voglia né forze per altri conflitti interiori. Dio è grande e buono. Caritatevole e misericordioso. Egli ha creato sia il sole che la luna. Con studiata consapevolezza. Perciò entrambi Egli ama. Poteva ancora sperare nella sua paterna comprensione. Nella sua Onniveggenza non esiste rischio né possibilità di peccato per gli uomini. Quando ci ha creati sapeva bene come ci faceva. Glielo aveva insegnato in Seminario il suo grande maestro di Teologia padre Ignazio Dimino. Le nostre scelte, la nostre azioni quotidiane non sono altro che varianti del suo imperscrutabile disegno. Libero arbitrio. Il più grande dono del Creatore alle sue Creature. Solo chi viola le leggi della natura viola le leggi di Dio. E l’amore è legge di natura. Non solo quello per Dio. Anche quello per le sue creature. Avvertiva un dolce desiderio di abbandono. Voleva addormentarsi anche lui. Come Fantasima. Placidamente. Tra le sue braccia. Sentiva un profondo sentimento di pace interiore. Finalmente si conosceva. Sapeva chi era. Donde veniva. Cosa desiderava.  Dove voleva andare. Avrebbe aspettato il sonno tra il tepore del suo amore. Una  lunga notte di tenerezza e d’amore.

- Abbiamo tempo per la nostra felicità? - chiedeva Fantasima.

- Tutto il tempo della terra - la rassicurava Adalgiso, perdendosi nella luce morbida dei suoi occhi.

All’alba l’avrebbe preso per mano ed insieme sarebbe andati incontro alla vita che li attendeva. Avrebbero affrontato i brusii del cortile. Le occhiate curiose. Gli sguardi severi. I giudizi implacabili. Ed i pregiudizi ottusi. Insieme avrebbero dato scandalo. Ma il Cristianesimo non è una Fede ipocrita e farisaica. Né un abito ovattato in cui mettersi al riparo dalle tempeste e dalle inquietudini. Il Cristianesimo è scandalo. Una risposta audace e coraggiosa alla crisi ed alla caduta dell’uomo. Quale scandalo più grande  di un Dio che si è fatto uomo per soffrire e morire sulla croce delle ipocrisie e delle convezioni dei suoi figli? Per la loro salvezza. Per amore. Anche il loro amore era forte. Così immenso e sicuro da resistere ad ogni ulteriore tentativo di violenza e di separazione. Sentiva tanto coraggio. Ed anche tanta fermezza. Le scostò leggermente le gambe appoggiandole alle sue e si avvicinò lentamente. Intrecciavano le dita con vigore e dolcezza. Con la  mano sinistra riprese ad accarezzare le sue curve.

- Di nuovo? Sono stanchissima ... - Fantasima provò a protestare.

Lui scoppiò a ridere  - É un complimento per le mie prestazioni? -

Le strinse delicatamente i seni, solleticando i capezzoli con la punta delle dita. Un gemito di piacere le sfuggì dalla gola. Riprese a muoversi sinuosa. Faceva le fusa come una gattina. Strusciando il suo corpo contro quello di lui. I loro profili si sfiorarono. Le sue narici si inebriarono del suo profumo audace, sofisticato ed ambiguo.  Con la punta della lingua Adalgiso le accarezzò la punta del naso, le leccò il lobo dell’orecchio e scese verso il collo. Era una sensazione incantevole. Le forti labbra di Adalgiso catturarono le sue semiaperte cercando l’invitante calore della lingua e riaccendendo il suo desiderio. Lei rispose con passione tenera e rovente stringendosi fino a modellarsi sul suo corpo. Gli passò le dita tra i capelli e inarcò il suo corpo, desiderosa solo dei suoi baci. Era un amante formidabile. Anche se esausta di piacere, gli bastava sfiorarle le labbra, che combaciavano con le sue quasi fossero state disegnate sullo stesso modello, per risvegliarne ogni fibra nervosa. La tensione sessuale rinasceva come d’incanto. Sospirò piano e fremette appena il pollice di lui trovò il capezzolo e lo massaggiò. Giocava  a scomporle i capelli, le sfiorava i fianchi e la stringeva ancora più forte.  Continuava in sensuali carezze alla ricerca della parte più segreta della sua femminilità. Si avvaleva delle mani e della lingua eccitando e succhiando. Lei gemeva per il piacere e ne guidava una carezza più confidenziale. Moriva dal desiderio che la lui arrivasse a carezzarla sempre più intimamente. Il suo respiro tornava affannato. I loro corpi si muovevano all’unisono. Con un ritmo sempre più concitato. Come in una danza erotica. In un vortice di passione inebriante. Sembravano creati per fondersi l’uno nell’altro. Un’unione travolgente. Una coesione in un universo di piacere. Un’intimità che si crea solo quando due persone si amano. Adalgiso sentiva sotto le dita il morbido tepore della sua pelle. La voleva ripetutamente con ogni cellula del suo corpo. Era insaziabile. Inesauribile. Aveva passato giorni e mesi combattendo con questo desiderio. Talmente forte e totale da rendere vano ogni tentativo di resistenza. Ora era tra le sue braccia. Che si contorceva in spasmi senza fine. Andava e veniva dentro di lei ad un ritmo indiavolato. La sua parte più virile era come assorbita ed inghiottita. Il ritmo accelerato dei suoi battiti si alternava al soffio del malopertugio, che soffiava dalla Balata, a raffiche improvvise, piegando i rami superiori dell’immenso cespuglio di rododendri e la cima degli abeti del giardino confinante. Fantasima gemeva con voce smorzata mentre si riappropriava di una felicità che credeva perduta. Per lungo tempo si era rassegnata alla sconfitta. Alla rinuncia. Pur di non rendere la sua vita tormentata. Di restituirgli serenità. La morte sembrava vincente sullo smalto della loro passione. Ma alla fine l’autenticità aveva avuto la meglio sulla pigrizia delle abitudini e dell’ipocrisia. Sui vincoli dei ruoli e delle comodità. La vita e l’amore sono più forti dell’apatia e della morte. Quelle della morte sono solo vittorie apparenti. Momentanee ed effimere. Anche se il tarlo di una malattia, la paura della verità, l’indolenza dell’accidia sembrano trionfare,  la vita ricompare irruenta ed inarrestabile. Nel colore variopinto di una petunia primaverile. Nel cinguettio di un cardellino con la covata nel suo nido. Nell’abbraccio d’amore del suo coraggioso Adalgiso. Era così felice che aveva paura che stesse sognando. Che si sarebbe risvegliata d’improvviso in un deserto di solitudine. Ma il suo calore era troppo concreto e vero. Fantasima gioiva. Si appiccicava. Lo stringeva con dolcezza. Si accovacciava tra le sue braccia. Con tenerezza guidava il suo glande tra i suoi peli umidi. Le piaceva prolungare il suo orgasmo tenendoselo dentro. La rassicurava sentirselo nelle sue insenature brulicanti d’amore. I suoi movimenti si ampliavano sotto i colpi focosi di Adalgiso. Crescevano di intensità. Si muoveva verso di lui, ma anche ruotando su se stessa.  I loro corpi erano incollati dal sudore e dalla frenesia. Gli occhi luccicavano tutta la gioia di esistere e di amarsi. Ancora una volta arrivarono insieme. Un turbinio di fibrillazioni e di colori. Il bisogno di indugiare nell’attimo che sembrava valere un’eternità.

- Mi hai donato la ragione di vivere questa vita.

- E tu mi hai ridato la forza di essere me stesso.

Albeggiava. Alla luce delle stelle e della luna si aggiungeva il chiarore, che da Genuardo si calava sul Calvario. Nel Vicolo Saraceno un cavallo scalpitava, manifestando con un orgoglioso nitrito la consapevolezza del giorno che lo attendeva. 

            

     

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

Capitolo I  -          Compieta             Pag. 2        

Capitolo II Una relazione litigarella         Pag. 6                                                                               

Capitolo III La maliarda, la pivella e lo sbandato  Pag. 4  

Capitolo IV           Tra un bicchiere e una canna Pag. 25

Capitolo V  Un fulmine a cielo sereno     Pag. 30

Capitolo VI           Agonia                 Pag. 37             

Capitolo VII          Un insolito benvenuto   Pag. 44                                 

Capitolo VIII         Dormiveglia                  Pag. 53

Capitolo IX La sanguisuga               Pag. 59                                                                    

Capitolo X L’altalena             Pag. 69

Capitolo XI Un temporale e un gufo          Pag. 77

Capitolo XII          Milù            Pag. 81

Capitolo XIII         Nevischio bugiardo       Pag. 83                                                                   

Capitolo XIV        Colloqui fantasmagorici         Pag. 86

Capitolo XV         L’agave                Pag.94

Capitolo XVI        La contrizione               Pag.97

Capitolo XVII       Debolezze senili            Pag.100

Capitolo XVIII      Guerra Santa                 Pag.110

Capitolo XIX        La purificazione            Pag. 114

Capitolo XX         Sponsali              Pag.117

Capitolo XXI        Alba            Pag. 121